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Università degli Studi di Cagliari
FASE B
Definizione delle attività di R&S
Energia da Biomasse e Biocombustibili in Sardegna
Analisi dello stato dell’arte della ricerca scientifica
nel settore della produzione di energia da biomasse
Daniele Cocco1, Antonio Lallai2, Giampaolo Mura2, Marcella Pinna3, Maria
Cristina Pinna3, Andrea Salis3 e Vincenzo Solinas3
1Dipartimento
di Ingegneria Meccanica, 2Dipartimento di Ingegneria Chimica
Piazza D’armi, 09100 – Cagliari (CA)
3Dipartimento di Scienze Chimiche, Complesso Universitario SS 554 bivio Sestu,
09042 Monserrato (CA)
1
Indice
1 LE FILIERE DI CONVERSIONE ENERGETICA DELLE
BIOMASSE ................................................................................................. 4 2 I PROCESSI DI CONVERSIONE TERMOCHIMICA ............... 9 2.1 PROBLEMATICHE
COMUNI
ALLE
TRE
FILIERE
TERMOCHIMICHE ................................................................................................. 10 2.2 PROCESSI DI COMBUSTIONE DELLE BIOMASSE ............................. 17 2.2.1 Produzione di energia termica ............................................................... 19 2.2.2 Produzione di energia elettrica .............................................................. 21 2.3 I PROCESSI DI GASSIFICAZIONE DELLE BIOMASSE ....................... 32 2.3.1 La sezione di gassificazione.................................................................... 33 2.3.2 La sezione di condizionamento del syngas .......................................... 38 2.3.3 La sezione di utilizzo del syngas ........................................................... 40 2.4 I PROCESSI DI PIROLISI DELLE BIOMASSE ........................................ 46 2.4.1 Produzione di energia ............................................................................. 49 3 I BIOCARBURANTI........................................................................ 52 3.1 LO SCENARIO DEI CONSUMI ENERGETICI NELL’UNIONE
EUROPEA: L’IMPORTANZA DEI BIOCARBURANTI..................................... 52 3.1.1 I Biocarburanti: Biodiesel, bioetanolo, oli vegetali .............................. 54 3.2 OLI VEGETALI ............................................................................................ 56 3.3 IL BIODIESEL ............................................................................................... 57 3.3.1 Processi industriali per la produzione di biodiesel ............................ 57 3.3.2 Materie prime utilizzate per la produzione di biodiesel.................... 59 3.3.3 Metodi innovativi di produzione del biodiesel ................................... 67 3.4 IL BIOETANOLO ......................................................................................... 75 3.4.1 Processi di produzione di bioetanolo.................................................... 76 3.4.2 Bioetanolo di seconda generazione ....................................................... 84 4 LA DIGESTIONE ANAEROBICA ............................................... 87 4.1 IL PROCESSO DI DIGESTIONE ANAEROBICA ................................... 88 4.1.1 Generalità sul processo ........................................................................... 88 4.1.2 Parametri di processo .............................................................................. 88 4.1.3 Parametri di gestione del reattore. ........................................................ 89 4.1.4 Parametri di stabilità del processo. ....................................................... 89 4.1.5 Produzione potenziale di metano.......................................................... 92 4.1.6 Requisiti per la digestione anaerobica .................................................. 93 4.1.7 Vantaggi e svantaggi del trattamento anaerobico............................... 94 4.2 REATTORI ANAEROBICI ......................................................................... 96 4.2.1 Impianti Semplificati ............................................................................... 96 4.2.2 Reattori a Crescita Sospesa ..................................................................... 97 4.2.3 Reattori Ibridi ......................................................................................... 101 4.2.4 Altri tipi di reattori ibridi ...................................................................... 103 4.3 SUBSTRATI UTILIZZABILI PER LA DIGESTIONE ANAEROBICA 105 4.4 Classificazione Biomasse .......................................................................... 105 4.5 FRAZIONE ORGANICA DEI RIFIUTI SOLIDI URBANI (FORSU) .. 107 2
4.5.1 Composizione dei rifiuti ....................................................................... 107 4.5.2 Pre-trattamento ...................................................................................... 108 4.5.3 Problemi specifici per la digestione anaerobica nei RSU ................. 108 4.5.4 Vantaggi della digestione anaerobica nei RSU .................................. 109 4.5.5 Effetto del Calore e della Microaerazione nella Digestione
Anaerobica della FORSU .................................................................................. 109 4.5.6 Modellazione del Processo ................................................................... 110 4.6 CODIGESTIONE ........................................................................................ 111 4.6.1 Modello Matematico Applicato alla Codigestione ........................... 112 4.7 DIGESTIONE ANAEROBICA DI COMPOSTI TOSSICI e EFFETTID’INIBIZIONE ....................................................................................................... 114 4.7.1 Composti Recalcitranti e Xenobiotici .................................................. 114 4.7.2 Effetto di Composti Tossici in un Reattore UASB ............................. 116 4.7.3 Biodegradazione Anaerobica e Tossicità di Clorofenoli Trattati con
Reattori Anaerobici a Letto Fluidificato ......................................................... 117 4.7.4 Altri Inibitori e Composti Tossici ........................................................ 118 4.8 PRODUZIONE DI IDROGENO .............................................................. 120 4.8.1 Tipi di fermentazione ............................................................................ 121 4.8.2 Enterobacter, Bacillus, e Clostridium per la Produzione di Idrogeno
121 4.9 TRATTAMENTI COMBINATI ................................................................ 123 5 Bibliografia ...................................................................................... 126 3
1
LE FILIERE DI CONVERSIONE ENERGETICA DELLE BIOMASSE
Come ben noto, con il termine biomassa si definisce una categoria di composti,
di natura anche molto diversa fra loro, caratterizzati da una matrice di tipo
organico, prodotti da organismi viventi (vegetali o animali) e pertanto
direttamente derivanti, attraverso il processo di fotosintesi clorofilliana,
dall’energia solare. A seconda della provenienza, le biomasse possono essere
essenzialmente classificate in biomasse residuali e in biomasse derivanti da
apposite coltivazioni energetiche. Appartengono alla prima categoria i residui e
gli scarti di origine forestale, agricola e agro-industriale, nonché la frazione
umida dei rifiuti solidi urbani. Il recupero energetico delle biomasse residuali
appare doppiamente vantaggioso in quanto da un lato riduce la dipendenza dai
combustibili fossili mentre dall’altro contribuisce ad alleggerire le
problematiche ambientali legate allo smaltimento finale di tali residui (per
esempio, è noto che i processi naturali di degradazione delle sostanze organiche
liberano metano, un composto che contribuisce all’aumento dell’effetto serra in
una misura di oltre 20 volte superiore a quella della CO2).
Le biomasse derivanti da coltivazioni energetiche sono a loro volta classificabili
in colture oleaginose (come colza, soia, girasole, palma, ecc.) dalle quali si
producono oli vegetali e biodiesel, colture alcoligene (come la canna da
zucchero, il sorgo zuccherino, la barbabietola da zucchero, il mais, ecc.) dalle
quali si produce l’etanolo, e da colture ligno-cellulosiche (che includono specie
legnose come il pioppo, la robinia, l’eucaliptus, ecc., specie erbacce poliennali
come la canna comune e il miscanto, oppure specie erbacee annuali come il
sorgo da fibra) impiegate per produrre sostanza secca combustibile. Per quanto
i possibili e auspicabili contributi energetici derivanti dalle biomasse residuali
possano risultare apprezzabili, appare del tutto evidente che un contributo
significativo al bilancio energetico mondiale può provenire solamente dalla
diffusione di coltivazioni energetiche dedicate.
Le motivazioni alla base del recente impulso impresso alle attività di
valorizzazione energetica delle biomasse sono di diversa natura. Infatti,
potendo essere accumulate in maniera relativamente facile, le biomasse non
soffrono dei problemi di aleatorietà e discontinuità che invece penalizzano la
produzione di energia da altre fonti rinnovabili come l’eolico, il solare e
l’idroelettrico ad acqua fluente. Le biomasse, inoltre, in relazione alle loro
caratteristiche possono essere impiegate per produrre una vasta gamma di
combustibili solidi (cippato, pellets, bricchette), liquidi (etanolo, oli vegetali,
biodiesel) e gassosi (biogas, gas di sintesi), a loro volta utilizzabili come vettori
energetici per produrre energia elettrica e/o termica o come sostituti dei
combustibili fossili nel settore dei trasporti. I benefici ambientali consistono
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essenzialmente in una riduzione delle emissioni inquinanti e di gas serra,
nonché dei quantitativi di residui avviati a discarica. In relazione all’incremento
dei costi delle fonti fossili convenzionali, l’utilizzo delle biomasse porterà anche
benefici sul fronte economico attraverso la riconversione di una parte del
settore agricolo, la riduzione dei costi di approvvigionamento energetico
dall’esterno e la valorizzazione di residui, rifiuti e sottoprodotti.
A seconda delle caratteristiche intrinseche delle biomasse (composizione
chimica, umidità, densità, ecc.) e della tipologia di utilizzo finale (combustibile
per autotrazione, per la produzione di energia termica, di energia elettrica, ecc.),
le filiere di conversione energetica possono presentare configurazioni anche
molto diverse fra loro. Come schematicamente mostrato nello schema di figura
1, la composizione delle biomasse ha una influenza fondamentale sulla scelta
del processo di conversione. Infatti, nel caso di biomasse ricche di sostanze
nutritive azotate (rapporto carbonio/azoto, C/N, minore di 30) e con elevata
umidità (superiore al 30% circa) i processi di conversione più adatti sono quelli
di tipo biochimico come la fermentazione alcolica (nel qual caso è di
fondamentale importanza il contenuto di zuccheri o di amidi), la digestione
anaerobica e la digestione aerobica, nei quali le trasformazioni chimiche sono
attivate dall’azione di microrganismi originariamente presenti nei vegetali in
presenza di opportune condizioni di temperatura, pressione, etc. Viceversa, nel
caso di biomasse con minori tenori di umidità (inferiori del 30%) ed elevata
presenza di composti a base di carbonio (rapporto C/N superiore a 30), i
processi di conversione più adatti sono quelli di tipo termochimico come la
combustione, la gassificazione e la pirolisi, nei quali le trasformazioni chimiche
avvengono in presenza di elevati valori di temperatura, con significativi scambi
termici.
Tipologia del
Processo
Biochimico
C/N
Umidità
<30
>30%
Termochimico
>30
<30%
Fisico-chimico
-
-
PROCESSO DI
CONVERSIONE
Fermentazione
Digestione anaerobica
Digestione aerobica
Combustione
Gassificazione
Pirolisi
Estrazione di oli
Transesterificazione
Compattazione
Prodotto principale
Bioetanolo
Biogas
Energia termica
Energia termica
Gas di sintesi
Gas di pirolisi, olio
Olio vegetale
Biodiesel
Pellets
Figura 1.1 – Classificazione dei processi di conversione energetica delle biomasse.
Nel caso poi di specie vegetali o residui ricchi di oli (che nel caso dei semi più
largamente utilizzati è dell’ordine del 35-50%), si impiegano processi di
5
conversione di tipo chimico-fisico finalizzati all’estrazione degli oli vegetali
grezzi e poi, eventualmente, alla loro trasformazione chimica mediante
esterificazione in biodiesel. Appartengono alla medesima categoria anche i
processi di macinazione, agglomerazione e compattazione (produzione di
pellets e bricchette) cui vengono sottoposte le biomasse solide al fine di
facilitarne il trasporto, lo stoccaggio e l’impiego.
Zuccherine
(Canna,
Sorgo,
Estrazione
Succo
Amidacee
(Mais, Patate,
Frumento)
Oleaginose
(Colza, Soia,
Girasole)
Estrazione e
Depurazione
Compattazione,
essiccazione
Combustione
Gassificazione
Pirolisi
frazione
umida RSU,
Reflui
Trasporti,
energia
termica,
Esterificazione Biodies
oli vegetali
Trasporti,
energia
Liquefazione e
Saccarificazione
Idrolisi
Lignocellulosiche
(Pioppo,
Etanol
Fermentazione
e distillazione
Zuccheri
Energia
termica,
energia
Oli vegetali
Zuccheri
Fermentazione
e distillazione
Pellet, Cippato, ecc.
Energia
termica
Trasporti,
energia
termica,
Trasporti,
energia
Ciclo a vapore,
Stirling, ORC
Energia
elettrica e
termica
Turbina a gas,
fuel cell, etc.
Energia
elettrica e
termica
Turbina a gas,
fuel cell, etc.
Energia
elettrica e
termica
Syngas
Olio,
Syngas,
Char
Digestione
anaerobica
Etanol
Biogas
Energia
termica,
energia
Figura 1.2 – Principali filiere di conversione energetica delle biomasse.
In relazione alle caratteristiche intrinseche delle specie vegetali considerate
(composizione chimica, umidità, densità, etc.) ed alla tipologia di utilizzo finale
(combustibile per autotrazione, per la produzione di energia termica, di energia
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elettrica, etc.), le filiere di conversione energetica delle biomasse possono
presentare configurazioni anche molto diverse fra loro.
La figura 1.2 riporta in maniera molto schematica le principali filiere di
conversione energetica delle biomasse in combustibili disponibili per
l’utilizzatore finale, ovvero in vettori energetici impiegabili in sostituzione dei
combustibili fossili convenzionali nel settore dei trasporti e per la produzione di
energia elettrica e/o di energia termica. In particolare, le filiere di maggiore
interesse sono essenzialmente quelle che si originano da specie vegetali ad
elevato contenuto di zuccheri o di amidi, a partire dalle quali è possibile
produrre l’etanolo impiegabile come sostituto della benzina nei motori a
combustione interna per autotrazione, oppure anche per la produzione di
energia elettrica e/o termica in sistemi di generazione elettrica ad alta efficienza
e basso impatto ambientale come turbine a gas, motori alternativi a
combustione interna e celle a combustibile. Tale filiera può essere implementata
ricorrendo a tecnologie convenzionali e disponibili da tempo sul mercato,
essendo il bioetanolo già prodotto in consistenti quantitativi in Paesi come il
Brasile e gli Stati Uniti.
Un’altra filiera già disponibile a livello industriale, e quindi facilmente
implementabile, è quella di produzione del biodiesel (o anche dei meno raffinati
oli vegetali grezzi) a partire da colture oleaginose. Anche in questo caso esiste
un’ampia esperienza in Europa e in molti altri Paesi, con consistenti produzioni
di biodiesel destinato soprattutto alla sostituzione del gasolio nei motori a
combustione interna e nelle caldaie per riscaldamento. Tuttavia, ai fini della
produzione di energia elettrica possono essere facilmente impiegati anche i più
semplici oli vegetali grezzi per l’alimentazione di motori a combustione interna
a ciclo Diesel, motori che possono peraltro operare efficacemente anche in
cogenerazione.
L’impiego di specie vegetali ligno-cellulosiche appare invece più variegato e
origina diverse filiere di produzione di combustibili derivati. La filiera più
diffusa prevede un più o meno complesso trattamento meccanico ed
eventualmente termico delle biomasse grezze (legna da piantagioni a ciclo
breve, colture fibrose come il miscanto, la canna, il sorgo, etc.) al fine di
alimentare un convenzionale impianto di generazione elettrica a vapore,
oppure per produrre combustibili solidi per uso riscaldamento (pellet). Le
filiere di conversione basate sulla produzione di combustibili gassosi e liquidi
mediante processi di gassificazione e di pirolisi, così come quella di produzione
dell’etanolo attraverso processi di idrolisi e fermentazione, pur se molto
interessanti in una prospettiva futura non hanno ancora raggiunto un
sufficiente livello di maturità industriale.
7
Infine, un’altra importante filiera di conversione energetica delle biomasse è
quella basata sull’impiego di reflui di tipo zootecnico e della frazione umida dei
rifiuti solidi urbani per alimentare processi di digestione anaerobica con
produzione di combustibili gassosi utilizzati poi per produrre energia elettrica e
termica in motori a combustione interna o in turbine a gas.
La scelta del processo di conversione più conveniente dipende pertanto
essenzialmente dalla composizione delle biomasse (soprattutto in termini di
contenuto di acqua, carbonio, azoto, cloro, zolfo e ceneri, nonché eventualmente
zuccheri, amidi e oli), dalle loro proprietà fisiche (caratteristiche fisiche di
notevole interesse sono il volume specifico e il potere calorifico) e anche dalla
loro disponibilità (la densità energetica territoriale è un parametro che influenza
moltissimo la taglia dell’impianto e quindi anche la sua redditività economica).
I diversi processi di conversione delle biomasse presentano differenti livelli di
maturità industriale e di diffusione commerciale. In ogni caso, l’auspicato
aumento della produzione di energia da biomasse è fortemente condizionato ai
progressi nel campo delle prestazioni degli impianti, dell’affidabilità di
esercizio e del costo, cosicché questo settore vede impegnata una notevole
quantità di risorse economiche ed umane nelle attività di ricerca e sviluppo.
Nel prosieguo si approfondirà lo stato dell’arte della ricerca nel settore dei
processi termochimici per la produzione di energia da biomasse.
8
2
I PROCESSI DI CONVERSIONE TERMOCHIMICA
La famiglia dei processi termochimici rappresenta senza dubbio una delle
opzioni di maggiore interesse ai fini della produzione di energia da biomasse
soprattutto in relazione all’elevata efficienza ad alla ampia versatilità,
risultando in grado di fornire sia energia elettrica e/o termica sia combustibili
di sintesi di pregio (soprattutto gassosi e liquidi).
Come anticipato, la conversione termochimica delle biomasse include
sostanzialmente tre diversi processi: la combustione, la gassificazione e la
pirolisi. Il principale elemento di caratterizzazione di questi tre processi è
relativo all’apporto di ossigeno. La combustione richiede infatti un apporto di
ossigeno in quantità almeno pari a quella stechiometricamente necessaria per la
completa ossidazione del carbonio, dell’idrogeno e dello zolfo (nella pratica si
utilizzano eccessi del 10-30% rispetto allo stechiometrico). La gassificazione si
realizza invece attraverso una serie di reazioni che si sviluppano in carenza di
ossigeno rispetto ai quantitativi stechiometrici (è pertanto una sorta di
combustione parziale), cosicché i prodotti finali sono costituiti da una miscela
gassosa composta principalmente da CO, H2, CO2, H2O, CH4, etc. (il cosiddetto
syngas). La pirolisi, infine, è un processo che avviene in assenza di ossigeno
attraverso il semplice riscaldamento della biomassa (con fornitura di calore
dall’esterno) e la sua decomposizione in una frazione gassosa, una liquida e una
solida.
Fra i processi termochimici, la combustione tramite caldaie e generatori di
vapore in sostituzione di combustibili fossili convenzionali ha raggiunto da
tempo la maturità industriale e commerciale. Ai fini della produzione di
energia elettrica, le realizzazioni industriali sono finora concentrate
essenzialmente su impianti di taglia dell’ordine di 10-20 MWe basati su cicli a
vapore, dal momento che tale impianto mal si presta ad essere realizzato con
taglie molto inferiori a causa di problemi tecnici ed economici. Per questo
motivo, le attività di ricerca nel settore della combustione sono finalizzate, oltre
che al miglioramento delle prestazioni degli impianti a vapore, soprattutto
verso lo sviluppo di sistemi di generazione elettrica di piccola taglia basati su
cicli termodinamici diversi da quello a vapore d’acqua (come i motori a ciclo
Stirling, gli impianti a ciclo Rankine con fluidi organici, ORC, le turbine a gas a
combustione esterna, etc.). L’impiego dei processi di gassificazione e di pirolisi
appare molto interessante in una prospettiva futura, in quanto la disponibilità
di combustibili gassosi e liquidi di buona qualità può consentire l’utilizzo di
sistemi di generazione elettrica di piccola taglia e ad alta efficienza come le
turbine a gas, i cicli combinati e le celle a combustibile. Tuttavia, ad oggi tali
tecnologie non hanno ancora raggiunto un adeguato livello di maturità
9
industriale e commerciale per cui moltissime attività di ricerca e sviluppo si
concentrano proprio in questo settore nel tentativo di superare le maggiori
criticità.
Indipendentemente dal tipo di processo termochimico impiegato, numerose
attività di ricerca si occupano delle problematiche relative al reperimento delle
biomasse (coltivazione o semplice raccolta), al trasporto, allo stoccaggio ed al
pretrattamento, dal momento che questi aspetti possono condizionare
moltissimo l’effettiva fattibilità di un impianto alimentato con biomasse.
Analogamente rappresentano problematiche comuni le valutazioni sui bilanci
energetici globali, sulle emissioni inquinanti e di gas serra estese all’intero ciclo
di vita, l’analisi delle prospettive di redditività, e altre simili.
2.1 PROBLEMATICHE COMUNI ALLE TRE FILIERE TERMOCHIMICHE
Nel settore delle coltivazioni energetiche, una grossa parte delle attività di
ricerca è attualmente concentrata sulla valutazione degli aspetti agronomici
delle colture energetiche ai fini della fattibilità tecnico-economica della intera
filiera [1-11]. In quasi tutte le regioni italiane, per esempio, sono in atto progetti
di ricerca che attraverso la messa a dimora e la coltivazione di campi
sperimentali sono volti a confrontare differenti specie di biomassa da energia.
Progetti simili sono in corso anche in numerosi altri paesi, specie in quelli
europei. In generale, queste attività di ricerca sono finalizzate ad implementare
le conoscenze relativamente a:
• metodi di coltivazione delle diverse specie in funzione dell’areale;
• adattabilità dei diversi cloni alle condizioni climatiche e alle caratteristiche dei
suoli;
• produzione di materiale sufficiente per l’avvio di sperimentazioni e
coltivazioni su larga scala;
• controllo delle malattie e delle infestanti;
• ottimizzazione delle operazioni di taglio, raccolta e stoccaggio;
• valutazione dei bilanci energetici e ambientali della filiera;
• realizzazione di studi di fattibilità economica della filiera in diverse
condizioni
Nel settore delle biomasse ligno-cellulosiche, le sperimentazioni più diffuse
sono quelle che riguardano la canna comune (Arundo Donax), il panico
(Panicum Virgatum), il miscanto (Miscanthus Giganteus), il sorgo da fibra
(Sorghum spp.), il pioppo (Populus spp.), il salice (Salix a.), l’eucapipto (Eucaliptus
spp.), la robinia (Robinia p.), ed altre. Campi sperimentali di alcune fra queste
specie (in particolare la canna comune) sono stati allestiti anche da Agris,
l’agenzia regionale per la ricerca in campo agricolo, e dal gruppo Sadam,
nell’ambito del progetto di riconversione dell’ex zuccherificio di Villasor. Gli
10
obiettivi fondamentali di queste attività sono rappresentati dalla individuazione
delle specie più adatte ai diversi contesti, al fine di massimizzare la produzione
Figura 2.1 – Colture da energia.
netta di energia, tenendo anche conto dei costi energetici ed economici, di
coltivazione, trasporto e stoccaggio. Dalle attività condotte fino a questo
momento, le specie più interessanti sembrano il miscanto, la canna, il pioppo, il
sorgo e il panico, anche se le prime tre presentano costi di impianto molto
elevati ma produttività maggiore delle ultime due. In Figura 2.1 e 2.2 sono
riportati i risultati di sintesi relativamente alle principali biomasse erbacee e
legnose.
Fra i principali aspetti da approfondire sono inclusi la durata economica delle
colture poliennali, gli aspetti qualitativi delle biomasse prodotte (contenuti di
umidità, ceneri, cloro, zolfo, etc.) e il miglioramento delle tecniche agronomiche
per ridurre i costi di produzione. In particolare, uno degli aspetti agronomici
più studiati è relativo alla ottimizzazione della produzione netta di energia in
relazione all’apporto di fertilizzanti e di acqua di irrigazione. In effetti, in molti
casi la massimizzazione della produzione netta di energia si ottiene con ridotti
apporti di fertilizzanti e di acqua. Un altro importante aspetto da approfondire
11
nei riguardi delle specie energetiche poliennali è relativo all’epoca ottimale di
raccolta. Infatti, una raccolta ritardata consente di ridurre il tenore di umidità
delle biomasse (riducendo così i costi di trasporto, le problematiche di
stoccaggio a lungo termine e il rendimento energetico dei processi di
conversione energetica). D’altra parte, una raccolta troppo ritardata determina
anche maggiori perdite sul campo di sostanza secca. L’altro importante filone di
ricerca in questo settore riguarda il miglioramento della meccanizzazione
agricola, specie per quanto concerne la messa a dimora delle piantine e la
raccolta della biomassa.
Altre importanti aree di ricerca e sviluppo si occupano dei diversi trattamenti
meccanici e/o termici delle biomasse, finalizzati a ridurne ed omogeneizzarne
le dimensioni ed eventualmente a ridurne l’umidità [12, 13]. In particolare, i
trattamenti più complessi sono riservati alle biomasse utilizzate in impianti di
riscaldamento di piccola taglia (che utilizzano preferibilmente combustibili
addensati come pellet e bricchette), mentre minori trattamenti sono richiesti per
le biomasse utilizzate nei generatori di vapore di medio-grande taglia (che
utilizzano in genere cippato oppure, nel caso delle biomasse erbacee, trinciato o
balle). In ogni caso, ai fini dell’impiego in un processo di combustione le
caratteristiche chimico-fisiche delle biomasse più importanti sono l’umidità e il
potere calorifico, per quanto possano essere di non trascurabile importanza
anche i tenori di ceneri, cloro, azoto e zolfo e il volume specifico.
12
L’umidità e il potere calorifico, oltre ad essere strettamente correlati fra loro,
assumono anche un ruolo determinante ai fini della effettiva valorizzazione
Figura 2.2 – Tecniche agronomiche.
energetica ed economica delle biomasse dal momento che condizionano
fortemente i costi di raccolta, trasporto e movimentazione da un lato e il
rendimento del processo di combustione dall’altro. Infatti, il componente utile
dal punto di vista energetico è costituito dalla sostanza secca (l’unico
caratterizzato da un suo potere calorifico) mentre l’acqua rappresenta di fatto
un componente indesiderato. Per esempio, in corrispondenza di un’umidità del
50-55% (tipico valore dell’umidità alla raccolta di molte specie legnose) il
rapporto fra la massa della biomassa tal quale e la massa di sostanza secca è
circa pari a 2, mentre per una umidità dell’ordine dell’80% (tipico valore alla
raccolta di molte biomasse erbacee), tale rapporto è pari a 5. Analogamente, il
potere calorifico inferiore di una biomassa, ovvero l’energia termica
effettivamente recuperabile a seguito di un processo di combustione,
diminuisce linearmente con l’aumento della sua umidità, fino ad annullarsi del
tutto per valori dell’umidità dell’ordine dell’88-90%. In pratica, la combustione
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di biomasse con valori di umidità superiori al 65-70% non è in grado di
sostenersi.
Ai fini della combustione delle biomasse assume notevole importanza anche il
tenore di ceneri, ovvero la frazione sul tal quale di materiale inorganico (cioè la
sostanza non combustibile) che si ritrova come residuo alla fine del processo di
combustione. Elevati valori del tenore di ceneri determinano una diminuzione
del potere calorifico, un aumento dei costi di smaltimento delle ceneri e
maggiori problemi legati alla possibile formazione di incrostazioni, corrosioni
ed erosioni nella caldaia. Il contenuto di ceneri su base secca è solitamente
compreso fra lo 0,5 % e l’1,5 %, anche se talvolta, come nel caso delle paglie,
può arrivare a valori del 10-15%. Risulta inoltre importante valutare la
temperatura di fusione delle ceneri, che di solito risulta inferiore a quella delle
ceneri da carbone (1200-1250°C contro 1350-1450°C).
Uno fra gli argomenti di maggiore attualità nell’ambito delle attività di ricerca e
sviluppo nel settore della produzione di energia da biomasse riguarda la
valutazione sulle migliori opzioni di filiera [14-21]. Come noto, tale scelta non
può basarsi esclusivamente su criteri di tipo economico (aspetto tuttora
estremamente critico, soprattutto sul fronte della remunerazione per gli
agricoltori e pertanto anch’esso oggetto di numerosi studi e approfondimenti),
ma dovrebbe anche considerare gli aspetti ambientali (le minori emissioni
inquinanti o di gas serra) ed energetici (la maggiore produzione di energia per
unità di superficie coltivata o il maggiore rapporto fra output e input
energetici). Infatti, se è vero che l’energia chimica delle biomasse rappresenta
una sofisticata forma di accumulo dell’energia solare, è altrettanto vero che per
coltivare, raccogliere e trasformare tale biomassa in una forma adatta
all’utilizzatore finale (combustibile, energia elettrica, energia termica) occorre
impiegare un quantitativo più o meno elevato di energia e di materiali e quindi
emettere anche sostanze inquinanti nell’ambiente. Appare infatti evidente che
un bilancio energetico di filiera chiuso in attivo rappresenta l’irrinunciabile
presupposto ai fini della effettiva garanzia di sostenibilità ambientale.
A tal proposito si possono reperire in letteratura un gran numero di lavori
aventi per oggetto analisi di tipo LCA (Life Cycle Analysis) più o meno
dettagliate delle filiere di conversione energetica delle biomasse. Come è noto la
LCA è una metodologia che quantifica gli impatti ambientali potenziali di un
prodotto o un servizio lungo l'intero ciclo della sua vita, dall'estrazione delle
materie prime a tutte le fasi di produzione, uso e manutenzione fino alla
dismissione del prodotto stesso. Attraverso un inventario dei flussi in entrata
ed in uscita dal sistema (input di materia, energia, uso del suolo, emissioni in
acqua, aria, suolo, ecc.) la LCA permette di quantificarne le performance
ambientali, mediante l'uso di opportuni indicatori di impatto (effetto serra,
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diminuzione dello strato di ozono, acidificazione, consumo di energia primaria,
ecc.). In termini del tutto generali, nell’ambito di una determinata filiera gli
studi LCA considerano le seguenti voci di input:
9 i combustibili direttamente consumati dalle macchine agricole, dai
mezzi di trasporto e dall’impianto di trasformazione dei prodotti
agricoli, in ogni caso riportati sotto forma di energia primaria
(ovvero includendo la spesa energetica per l’estrazione delle fonti
primarie, il trasporto e la trasformazione in combustibili
commerciali);
9 l’energia elettrica direttamente consumata dagli impianti di
pompaggio dell’acqua di irrigazione e dall’impianto di
trasformazione dei prodotti agricoli (riportata come energia primaria
utilizzata dalle centrali termoelettriche);
9 l’energia primaria richiesta per produrre i fertilizzanti, le sementi, gli
antiparassitari e gli altri eventuali mezzi di produzione (compresa
l’energia consumata per produrre e installare i macchinari agricoli e
industriali).
9 Analogamente, vengono valutati i flussi energetici resi disponibili
dalla filiera, rappresentati da:
9 l’energia utile in uscita, equivalente all’energia primaria della fonte
fossile sostituita (che pertanto include anche le perdite di estrazione,
di trasporto e di conversione);
9 il credito energetico degli eventuali residui e sotto-prodotti.
Dall’esame di numerosi studi LCA disponibili emerge che, in linea di massima,
i bilanci energetici ed ambientali di filiera evidenziano i migliori risultati nel
caso di produzione di energia elettrica da biomasse erbacee o arboree, con
rapporti output/input nell’intorno di 8-10 ed emissioni specifiche di gas serra
dell’ordine del 10-15% rispetto a quelle derivanti dai combustibili fossili. Meno
performanti risultano invece le filiere basate sull’utilizzo degli oli vegetali
(colza, girasole, etc.) per produrre energia elettrica mediante motori a
combustione interna di grande taglia, che comunque appaiono di poco
preferibili alla produzione di biodiesel. In merito alla filiera di produzione
dell’etanolo gli studi LCA evidenziano, in generale, la scarsa convenienza
dell’impiego della barbabietola da zucchero e del mais, mentre potrebbe essere
interessante l’implementazione di una filiera basata sulla coltivazione del sorgo
zuccherino (molto simile a quella della canna da zucchero).
Tuttavia, occorre evidenziare il fatto che dall’analisi dei risultati degli studi
LCA non è sempre possibile stabilire in assoluto se una categoria di
combustibile (rinnovabile o fossile) sia più o meno vantaggiosa dell’altra, in
particolare se si vuole compiere una valutazione su base scientifica. Le difficoltà
15
metodologiche e la frequente mancanza di indicatori affidabili richiedono un
ulteriore sforzo di ricerca per approfondire l’applicazione della LCA al caso
delle biomasse per energia e fornire ulteriori strumenti di valutazione al
decisore pubblico.
16
2.2
PROCESSI DI COMBUSTIONE DELLE BIOMASSE
La combustione diretta è stata la prima modalità di utilizzo delle biomasse a
fini energetici. Altre tecnologie di conversione termochimica delle biomasse,
come la pirolisi e la gassificazione, sono certamente note ed utilizzate da tempo,
ma oltre a rappresentare un’opzione minoritaria (si stima che oltre il 96-97%
della produzione di energia da biomasse derivi attualmente da processi di
combustione) necessitano ancora di consistenti attività di ricerca e sviluppo per
affermarsi commercialmente. I processi di combustione delle biomasse possono
essere finalizzati alla produzione di energia termica per usi diretti
(riscaldamento di ambienti o di fluidi di processo) o per la successiva
conversione in energia meccanica (e quindi in energia elettrica) mediante cicli
termodinamici [22-25].
La combustione delle biomasse in stufe, caldaie e forni rappresenta
fondamentalmente una tecnologia ormai matura e consolidata dal punto di
vista industriale e commerciale. Pertanto, le attività di ricerca e sviluppo nel
settore della combustione delle biomasse sono fondamentalmente indirizzate
verso l’ulteriore miglioramento delle prestazioni (il rendimento di
combustione), specie nel caso di combustibili non convenzionali o di miscele di
differenti combustibili, e nella riduzione delle emissioni inquinanti (in termini
soprattutto di particolato, NOX, CO e HC). Limitatamente agli impianti di
riscaldamento di piccola taglia, si lavora ovviamente moltissimo per aumentare
il livello di automazione e il confort di impiego, oltre che per ridurre i costi.
Se la combustione in sé presenta tutto sommato limitati margini di
miglioramento, risultano invece molto più ampi gli spazi nel settore della
produzione di energia elettrica, laddove si deve intervenire essenzialmente nei
confronti del ciclo termodinamico. Come noto, in un qualunque impianto
motore termico l’anello più debole di tutta la catena dei processi di conversione
dell’energia è rappresentato proprio dal ciclo termodinamico. Mentre il
rendimento di combustione e il rendimento elettromeccanico assumono valori
già molto elevati e pertanto suscettibili solo di miglioramenti marginali (il
rendimento di combustione è solitamente dell’ordine dell’85-90% mentre il
rendimento elettromeccanico supera facilmente il 90-95%), i noti limiti imposti
dal secondo principio della termodinamica spingono verso rendimenti del ciclo
termodinamico che solo nel caso degli impianti di maggiori dimensioni (per i
quali si giustificano costosi accorgimenti circuitali) superano il 50%. Nel caso
dell’impiego di biomasse, le taglie forzatamente ridotte e la necessità di
contenere gli investimenti iniziali impongono soluzioni più semplici e con
rendimenti decisamente più bassi. Gli attuali impianti di generazione elettrica
alimentati con biomasse sono praticamente tutti basati su cicli a vapore d’acqua
molto semplici e caratterizzati da rendimenti termodinamici raramente
17
superiori al 30% e rendimenti globali dell’ordine del 25-26% In relazione ai
limitati quantitativi di biomasse reperibili entro raggi di raccolta ragionevoli, la
potenza elettrica di questi impianti è infatti necessariamente limitata a valori
dell’ordine di 10-20 MWe (solo in alcuni impianti realizzati nel Nord Europa o
negli Stati Uniti si hanno potenze elettriche dell’ordine di 50-60 MWe).
Rendimenti più elevati, confrontabili con quelli delle centrali termoelettriche a
vapore alimentate con carbone (40-44%) potrebbero essere conseguiti solo con
impianti di taglia molto maggiore (300-400 MW), di fatto improponibili in
relazione alla pratica impossibilità di approvvigionamento delle biomasse entro
raggi di raccolta ragionevoli. Laddove percorribile, la soluzione migliore per
valorizzare le biomasse è attualmente rappresentata dall’utilizzo in centrali
termoelettriche di grande taglia in co-combustione con i combustibili fossili
convenzionali (carbone), in quanto garantisce vantaggi in termini economici,
energetici e logistici. La co-combustione di carbone con biomasse trova diverse
applicazioni industriali, in quanto facilmente implementabile anche in impianti
esistenti. Su questo fronte, le attività di ricerca sono pertanto tese a individuare
le migliori condizioni di alimentazione e di utilizzo delle biomasse
(particolarmente importante appare l’individuazione della dimensione ottimale
delle biomasse alimentate), dal momento che ci si trova spesso a intervenire su
generatori di vapore esistenti e non specificatamente progettati per questo tipo
di impiego.
Data la natura dispersa delle biomasse sul territorio, la necessità di evitare
trasporti di materiali a bassa densità energetica su lunghe distanze porta a
preferire soluzioni impiantistiche di piccola taglia (ovvero le cosiddette filiere
corte). Gli impianti basati su cicli a vapore d’acqua, per motivazioni di carattere
economico ed energetico, mal si prestano ad impianti di piccole dimensioni
(orientativamente sotto i 5-7 MWe un impianto a vapore non risulta
conveniente). Nell’ambito del panorama scientifico internazionale è possibile
rilevare un ampio fronte di attività di ricerca finalizzate ad individuare
alternative al classico ciclo a vapore. Le soluzioni più frequentemente proposte
sono essenzialmente basate su cicli ORC, su motori Stirling, su cicli di turbina a
gas a combustione esterna ma anche su impianti a vapore basati su motori
alternativi a vapore in sostituzione delle classiche turbine a vapore.
Infine, come in tutti i sistemi di conversione dell’energia basati su cicli
termodinamici, la soluzione ottimale per massimizzare l’indice di sfruttamento
energetico delle biomasse è rappresentata dall’utilizzo in impianti per la
produzione combinata di energia elettrica e termica (impianti di cogenerazione
o CHP, Combined Heat and Power). Ovviamente, tale soluzione presuppone la
presenza di una contemporanea richiesta di energia elettrica e di energia
termica (per usi di riscaldamento, di processo o anche per l’azionamento di
18
macchine ad assorbimento per la produzione di freddo). Anche in questo caso,
le attività di ricerca e sviluppo nel settore sono indirizzate verso impianti di
cogenerazione di medio-piccola taglia, anche al fine di poter più facilmente
incrociare la contemporanea presenza di un carico elettrico e termico.
Nel prosieguo verranno approfondite le principali attività di ricerca e sviluppo
attualmente in corso nei settori sopra descritti.
2.2.1 Produzione di energia termica
Essendo la combustione un processo tecnologicamente ormai maturo e
consolidato dal punto di vista industriale e commerciale, le attività di ricerca e
sviluppo in questo settore sono fondamentalmente concentrate nell’ulteriore
miglioramento delle prestazioni, specie nel caso di impiego di combustibili non
convenzionali o di miscele di differenti combustibili e nella riduzione delle
emissioni inquinanti
Dal punto di vista dell’impiego come combustibile, le biomasse offrono diversi
vantaggi come l’elevata volatilità e l’elevata reattività. Di contro, rispetto ai
combustibili fossili convenzionali le biomasse sono caratterizzate da un minore
rapporto carbonio/ossigeno e, conseguentemente, da un minore potere
calorifico. La velocità di combustione delle biomasse è notevolmente più
elevata di quella del carbone [26-28]. Le biomasse vengono pertanto
diffusamente utilizzate come combustibile primario in sistemi di combustione
dedicati come stufe, caldaie per riscaldamento domestico e generatori di
vapore. Inoltre, le biomasse possono essere utilmente utilizzate in cocombustione con carbone, realizzando in tal modo importanti vantaggi
energetici, economici ed ambientali.
Dal punto di vista dell’utilizzo come combustibile, le maggiori difficoltà di
impiego delle biomasse risiedono nella variabilità delle loro caratteristiche e
soprattutto negli elevati tenori di umidità e ceneri. In relazione a quest’ultimo
aspetto, cui è legato anche il ridotto potere calorifico, si possono osservare
difficoltà nella realizzazione di combustioni stabili e complete, nonché problemi
di ignizione. Inoltre, la bassa temperatura di fusione delle ceneri può causare
problemi di sporcamento e corrosione delle apparecchiature. Proprio in
relazione a tali inconvenienti, la sperimentazione condotta negli anni recenti ha
dimostrato i vantaggi della co-combustione delle biomasse con carbone. I
principali settori di indagine nel settore della co-combustione sono relativi alle
modalità di alimentazione e di stoccaggio delle biomasse, al potenziale aumento
dei fenomeni di corrosione e di sporcamento delle superfici di scambio termico,
alla riduzione dell’efficienza di combustione, agli effetti sulle caratteristiche
delle ceneri pesanti e delle ceneri leggere, alle prestazioni dei sistemi di
controllo delle emissioni al camino [29-34].
19
Nel settore degli impianti di riscaldamento di piccola taglia (riscaldamento
domestico) negli ultimi anni si sono diffuse notevolmente le stufe e le caldaie a
pellet, le quali hanno fra i punti di maggiore forza un elevato grado di
automazione. Il combustibile utilizzato è abbastanza standardizzato e si lavora
soprattutto sul miglioramento delle prestazioni energetiche (anche se il
rendimento è oramai paragonabile a quello dei sistemi convenzionali) ed
ambientali (per ridurre ulteriormente le emissioni in atmosfera si lavora sullo
sviluppo di sistemi di filtrazione dei gas e sistemi catalitici di riduzione delle
concentrazioni di NOx, CO e HC). Ovviamente, poi come in tutti i settori, molte
attività sono finalizzate alla riduzione dei costi di produzione.
Interessanti prospettive in questo settore possono aprirsi con riferimento al
possibile impiego di pellets di bassa qualità prodotti non più a partire da
segatura di legno ma da residui agricoli e forestali oppure da coltivazioni
legnose ed erbacce dedicate (il cosiddetto agri-pellet). Le paglie e i prodotti da
coltivazioni erbacee possono essere utilizzati per la produzione di pellet senza
grandi difficoltà e con minori consumi energetici rispetto al legno. Peraltro i
pellet da colture foraggere sono già prodotti per usi zootecnici. In questo caso il
pellet è caratterizzato da una maggiore presenza di ceneri (da meno dello 0,5%
del legno a circa il 5%), da un minore potere calorifico (circa il 10% in meno), da
una maggiore friabilità e da una maggiore presenza di cloro, potassio azoto e
zolfo. I sistemi di combustione di questo tipo di pellet devono essere in grado di
adeguare automaticamente le proprie condizioni di funzionamento in relazione
al combustibile al fine di mantenere ridotti livelli di emissioni gassose ed elevati
rendimenti di combustione. In particolare, si lavora moltissimo sui sensori per
misurare in continuo le concentrazioni di CO, HC e O2 al fine di adeguare con
continuità l’eccesso d’aria alle caratteristiche del combustibile ed al carico. La
maggiore presenza di ceneri e di elementi come il potassio e il cloro possono
essere causa di maggiori sporcamenti e corrosioni. Un’altra problematica sulla
quale si lavora è data dallo smaltimento dei maggiori quantitativi di ceneri
prodotte. Evidentemente, in relazione alle sopracitate problematiche, un pellet
di questo tipo può essere ottimamente utilizzato, oltre che in sistemi di piccola
taglia, anche in caldaie di maggiori dimensioni, nelle quali gli interventi di
adeguamento sono più facilmente implementabili. Attualmente esiste un solo
impianto di grande taglia alimentato con pellet prodotti da paglie di cereali (in
Danimarca, con un consumo annuo di circa 130000 t).
Gli impianti di combustione di media e grande taglia alimentati con biomasse
cippate sono ampiamente utilizzati in contesti forestali nei quali vi sia una
sufficiente disponibilità di residui a basso costo. Tali impianti sono competitivi
anche laddove si riesca a reperire la biomassa appositamente coltivata e a basso
costo. Inoltre si osserva una forte attenzione verso lo sviluppo dei sistemi di
20
combustione delle paglie (di frumento, orzo, mais, etc.) e di biomasse erbacee in
genere. Le attività di sviluppo in questo settore sono fondamentalmente
focalizzate da un lato verso il miglioramento e l’ottimizzazione della catena di
approvvigionamento, trasporto e stoccaggio delle balle e dall’altro a migliorare
il processo stesso di combustione in relazione soprattutto ad alcune
caratteristiche chimico-fisiche di queste biomasse come l’elevato tenore di cloro
e di composti alcalini. Anche il problema di minimizzare lo sporcamento delle
superfici di scambio termico del generatore di vapore risulta particolarmente
importante, specie in relazione al fatto che in questi impianti vengono spesso
utilizzate biomasse di differente composizione e differente provenienza e
qualità. Da qualche anno è operativo in Spagna nella regione di Navarra un
impianto di generazione elettrica da circa 25 MWe alimentato con paglie
residuali di frumento, orzo e mais raccolte nella zona (circa 160000 t/anno). In
casi come questi i principali problemi da risolvere sono legati alla filiera di
raccolta, trasporto e stoccaggio delle biomasse (raccolte a carattere stagionale)
ed ai contratti a lungo termine con la componente agricola.
La presenza nelle paglie di composti alcalini a base di cloro e potassio comporta
diversi problemi di corrosione, riduzione della vita dei catalizzatori impiegati
nei sistemi SCR per la riduzione della concentrazione di NOX e anche di qualità
delle ceneri leggere recuperate dai sistemi di filtrazione. In questo settore, uno
dei fronti di ricerca aperti è legato al pretrattamento delle biomasse al fine del
lavaggio delle stesse per la riduzione del contenuto di queste sostanze. In
effetti, gli alcali sono fondamentalmente solubili in acqua, anche se tale lavaggio
rimuove anche una parte di sostanza organica (e quindi anche del contenuto
energetico), richiedendo un trattamento specifico delle acque di lavaggio. In
realtà la ricerca in questo settore tende anche a massimizzare l’estrazione di
composti organici da impiegare successivamente per la produzione di etanolo.
2.2.2 Produzione di energia elettrica
Nell’ambito della produzione di energia elettrica da biomasse, i miglioramenti
delle prestazioni energetiche globali richiedono, oltre che l’ottimizzazione del
processo di combustione in accordo a quanto precedentemente discusso,
soprattutto l’incremento del rendimento di conversione energetica del ciclo
termodinamico. Gli impianti di generazione elettrica alimentati con biomasse
attualmente operativi sono praticamente tutti basati su cicli a vapore. In
relazione ai limitati quantitativi di biomasse reperibili entro raggi di raccolta
ragionevoli, la potenza elettrica di questi impianti è necessariamente limitata a
valori dell’ordine di 10-20 MWe (solo in alcuni impianti realizzati nel Nord
Europa o negli Stati Uniti si hanno potenze elettriche dell’ordine di 50-60 MWe)
e rendimenti dell’ordine del 25-28%. Rendimenti più elevati, confrontabili con
quelli delle centrali termoelettriche a vapore alimentate con carbone (40-44%)
21
potrebbero essere conseguiti solo con impianti di taglia molto maggiore (300400 MW), di fatto improponibili in relazione alla pratica impossibilità di
approvvigionamento delle biomasse entro raggi di raccolta ragionevoli.
Laddove possibile, la soluzione ottimale per valorizzare al meglio le biomasse è
rappresentata dall’utilizzo in impianti di cogenerazione per la produzione
combinata di energia elettrica e termica oppure in centrali termoelettriche di
grande taglia in co-combustione con i combustibili fossili convenzionali
(carbone), in quanto garantisce vantaggi in termini economici, energetici e
logistici. Infatti, in questo caso non risulta necessario realizzare un nuovo
impianto dedicato e si trae vantaggio dal maggiore rendimento di conversione.
Nel settore degli impianti di generazione elettrica alimentati con biomasse si
registra inoltre una intensa attività di ricerca e sviluppo finalizzata alla
individuazione di valide alternative al classico ciclo a vapore, soprattutto in
relazione alla necessità di realizzare impianti di piccola potenza. Come meglio
descritto nel seguito, le soluzioni studiate sono essenzialmente basate su cicli
ORC, su motori Stirling, su cicli di turbina a gas a combustione esterna ma
anche su impianti a vapore basati su motori alternativi a vapore in sostituzione
delle classiche turbine a vapore. Infine, una recente novità nel settore della
produzione di energia elettrica da biomasse è costituita dallo sviluppo, specie in
Italia, delle centrali elettriche ad olio vegetale basate sull’uso di grandi motori a
ciclo Diesel.
Motori volumetrici a vapore. Nei convenzionali impianti a vapore d’acqua a
ciclo Rankine, il limite inferiore di potenza è dato soprattutto dalla difficoltà di
realizzazione di turbine a vapore efficienti e di piccole dimensioni. Una
possibile alternativa alla turbina a vapore è costituita dai motori alternativi a
vapore (a pistoni e a vite). In entrambi i casi, si tratta di macchine volumetriche
nelle quali il volume della camera di lavoro cambia ciclicamente. Un impianto a
vapore di piccola taglia (circa 700 kWe) basato su un motore a vapore a vite è
stato realizzato in Austria ad Hartberg nel 2003 come integrazione di una
preesistente caldaia a biomasse usata per il teleriscaldamento. Il vapore viene
alimentato a circa 25 bar e 255°C ed estratto a 0,5-1,5 bar e 80-110°C. Il
rendimento elettrico netto è dell’ordine del 10-12%, mentre quello cogenerativo
è dell’80-85%. Peraltro, uno dei vantaggi di questo tipo di motore è che il
rendimento non diminuisce di molto a carico parziale. Inoltre, il funzionamento
di questo tipo di motore non risente del titolo del vapore e risulta pertanto
particolarmente interessante quando l’espansione procede verso titoli molto
bassi (che risultano invece deleteri per le convenzionali turbine a vapore). Le
attività di ricerca in questo campo sono finalizzate alla standardizzazione ed
alla ottimizzazione del motore al fine di ridurre i costi di investimento.
22
Figura 2.3 – Motore a vapore a vite.
Analogamente, si lavora per realizzare macchine che possano accettare
maggiori temperature del vapore all’ingresso[35].
Cicli Rankine a Fluido Organico. Pur non essendo certamente una scoperta
degli ultimi anni, recentemente si è avuto un notevole sviluppo nel settore dei
cicli Rankine a fluidi organici (ORC, Organic Rankine Cycle) proprio con
riferimento al settore dell’utilizzo energetico delle biomasse [36-38]. Questi
impianti sono caratterizzati dal fatto di utilizzare fluidi operativi diversi
dall’acqua per realizzare un ciclo Rankine e vengono solitamente proposti con
potenze nette da circa 300-400 kWe fino a circa 1,2-1,5 MWe e rendimenti netti
dell’ordine del 15-20%. I fluidi organici impiegati sono caratterizzati da
temperature critiche inferiori a quelle dell’acqua, cosicché a parità di pressione,
si hanno minori temperature di vaporizzazione. La successione delle
trasformazioni del fluido è quella solita dei cicli Rankine semplici, ovvero
vaporizzazione e surriscaldamento in caldaia (o in uno scambiatore di calore),
espansione in turbina, condensazione e compressione. Nel caso, molto
frequente, di impianti destinati ad operare in cogenerazione, la condensazione
del fluido operativo consente di produrre l’energia termica per le utenze. Le
caratteristiche termo-fluidodinamiche dei fluidi organici sono tali da garantire
un buon rendimento della turbina anche con ridotte potenze (contrariamente
alle turbine a vapore, le turbine a fluido organico mantengono infatti elevati
rendimenti anche con ridotte dimensioni ed evitano le perdite energetiche ed i
danneggiamenti derivanti dal tratto di espansione nella zona del vapore
umido).
23
Figura 2.4 – Impianto ORC.
Gli impianti ORC sono utilizzati soprattutto per lo sfruttamento di risorse
energetiche a bassa temperatura, dell’ordine di 200-300°C, come per esempio
fluidi caldi di processo o fluidi geotermici. L’interesse per il settore delle
biomasse è relativo soprattutto alla possibilità di realizzare impianti di piccola
taglia piuttosto che alle limitate temperature (la temperatura dei prodotti della
combustione delle biomasse è infatti in ogni caso sufficiente a produrre fluidi
caldi a temperature superiori a 500°C). I primi impianti ORC alimentati con
biomasse sono stati realizzati in Austria, Germania, Svizzera e Italia ed oggi
24
sono operativi oltre 20 unità. Il più importante costruttore di impianti ORC è la
bresciana Turboden. Altri costruttori sono localizzati in Germania e Israele. Le
attività di ricerca in questo settore sono rivolte alla integrazione del ciclo con la
caldaia a biomasse, alla scelta del fluido operativo ottimale ed alla diminuzione
dei costi. Tenuto conto del fatto che la temperatura operativa del fluido è più
elevata, si lavora anche al miglioramento del rendimento mediante modifiche al
ciclo base come il risurriscaldamento e l’introduzione di scambiatori di calore
recuperativi. Sempre nel settore della produzione di energia elettrica da
biomasse, gli impianti ORC vengono studiati ai fini del recupero dell’energia di
scarico dai motori a combustione interna di grande taglia (10-20 MWe)
alimentati con oli vegetali.
Fra le recenti iniziative in atto in Italia si può citare il progetto FACEB (Filiera
Agroforestale per Centrali a Biomassa di piccola taglia), un’iniziativa del Centro
Ricerca Biomasse CRB di Perugia. Il progetto prevede l’adozione di un caldaia a
griglia ad olio diatermico e di un sistema di generazione elettrica e termica a
ciclo ORC. L’impianto è prevalentemente orientato alla produzione di calore
per grandi utenze termiche (ad esempio teleriscaldamento), mentre la
produzione elettrica (compresa tra 0.5 e 1.5 MW), avente rendimenti peraltro
non trascurabili (fino al 15÷18%), rappresenta un introito supplementare che
porta la redditività di questa soluzione a valori superiori rispetto a quelli delle
centrali di teleriscaldamento realizzate con generatori esclusivamente termici.
Parallelamente la compattezza, la semplicità di controllo e l’assenza di circuiti
ad elevata pressione fa si che questo tipo di impianti facciano registrare dei
costi di gestione ridotti.
Motori Stirling. Il motore Stirling rappresenta una alternativa tecnologica
molto promettente nel settore dalla produzione di energia da biomasse su
piccola scala [39-43]. Una caratteristica molto interessante del motore Stirling è
rappresentata dal fatto che viene realizzato con potenze anche molto ridotte (1015 kWe), mantenendo comunque rendimenti interessanti. Il motore opera
secondo un circuito chiuso realizzato attraverso due sistemi cilindro-pistone. Il
fluido operativo viene alternativamente compresso all’interno del cilindro a
contatto con la sorgente fredda e fatto espandere all’interno del cilindro a
contatto con la sorgente calda. Nel trasferimento da un cilindro all’altro il fluido
attraversa uno scambiatore rigenerativo che incrementa le prestazioni del ciclo.
Lo Stirling è pertanto un motore alternativo a combustione esterna
internamente rigenerato. A differenza dei motori alternativi a combustione
interna, esso può pertanto utilizzare anche combustibili solidi o di bassa qualità,
così come altre fonti energetiche (solare a concentrazione per esempio).
25
Nel caso delle biomasse, tali motori sono pertanto integrati con dei
convenzionali sistemi di combustione per combustibili solidi. L’energia termica
prodotta dalla combustione viene trasferita al fluido operativo ad alta
temperatura (700-800°C), mentre la quota di energia termica non convertita in
lavoro viene asportata dall’acqua di raffreddamento (a circa 30-80°C).
L’adozione di un circuito chiuso consente una scelta mirata del fluido operativo
finalizzata alla ottimizzazione delle prestazioni. Tra i diversi fluidi operativi che
possono essere utilizzati, oltre all’aria, sono compresi l’elio (il più diffuso),
l’idrogeno e l’azoto. Mentre i motori Stirling alimentati con gas naturale o con
altri combustibili pregiati sono già commercializzati (WhisperTech in Nuova
Zelanda, Microgen Energy in Gran Bretagna, Solo in Germania, Enatec in
Olanda), quelli alimentati con biomasse sono attualmente ancora in uno stadio
dimostrativo. Ovviamente, i motori Stirling possono anche essere alimentati con
il gas di sintesi prodotto dalla gassificazione delle biomasse, nonché con il gas,
l’olio e finanche il char prodotto dalla pirolisi delle biomasse. Peraltro, l’utilizzo
di combustibili liquidi e gassosi riduce le problematiche del processo di
combustione.
26
Figura 2.5 – Motore Stirling.
Nella maggior parte dei casi, la produzione di energia elettrica viene
considerata in associazione con la produzione di energia termica in sistemi di
cogenerazione (ed eventualmente di trigenerazione). In questo caso, l’energia
termica viene prodotta attraverso il recupero del calore di scarico del motore
(scambiatore freddo) e dell’entapia residua dei gas di scarico del combustore.
Per potenze dell’ordine di 10-150 kWe, il rendimento dei motori Stirling
alimentati con biomasse è dell’ordine del 15-35%, mentre il rendimento globale
è dell’ordine dell’80-90% se il sistema opera in cogenerazione.
L’attività di ricerca in questo settore si concentra principalmente sulle
modifiche impiantistiche volte a migliorare il rendimento del ciclo (scelta del
27
fluido operativo, definizione dei parametri operativi ottimali, miglioramento
dello scambiatore rigenerativo, configurazione del motore, integrazione con
cicli sottoposti o con celle a combustibile, etc.) e nella integrazione del motore
con il sistema di combustione delle biomasse, che rappresenta l’elemento più
critico soprattutto per via delle elevate temperature di combustione, dei
problemi di sporcamento e corrosione dello scambiatore di calore caldo, delle
problematiche di recupero energetico dell’entalpia dei gas combusti, etc. Le
attività di ricerca in questo settore sono molto avanzate in Austria, in
Danimarca, in Finlandia, tanto che la prima unità pilota di un motore Stirling
alimentato con biomasse solide è stata realizzata attraverso una cooperazione
austriaca-danese (BIOS Bioenergy Systems e la Technical University of
Denmark) nel 2003. Altre unità sono attualmente operative in Giappone,
Austria e Svezia.
Turbine a gas a combustione esterna. Le turbine a gas di piccola potenza (le
cosiddette microturbine a gas) hanno trovato una notevole diffusione
commerciale negli ultimi anni, essenzialmente in virtù dei ridotti costi di
investimento e dei notevoli progressi conseguiti sul fronte delle prestazioni. Al
fine di evitare il pericolo di danneggiamenti e corrosioni, le turbine a gas non
possono essere direttamente alimentate con biomasse solide ma solo con
combustibili gassosi da esse derivati. L’attività di ricerca nel settore è pertanto
fondamentalmente indirizzata verso lo sviluppo di configurazioni
impiantistiche integrate con processi di gassificazione, pirolisi, digestione
anaerobica o con sistemi a combustione esterna (impianti EFGT, Externally
Fired Gas Turbine, o EFCC, Externally Fired Combined Cycle). Nel caso delle
biomasse si privilegiano le configurazioni impiantistiche più semplici (impianti
EFGT) e meno costose (le minori temperature operative consentono l’utilizzo di
scambiatori realizzati con materiali metallici in luogo di quelli ceramici), anche
se caratterizzate da minori rendimenti. Negli Stati Uniti e in Europa sono già
state sviluppate diverse esperienze nel settore degli impianti di turbina a gas a
combustione esterna. Peraltro, molte di tali esperienze sono relative proprio ad
impianti EFGT alimentati con biomasse [44-46].
Gli impianti EFGT alimentati a biomasse solide sono fondamentalmente basati
su un gruppo turbocompressore simile a quello delle microturbine a gas a
combustione interna (caratterizzate da potenze nette dell’ordine di 30-150 kWe
e rendimenti, con alimentazione a gas naturale, del 25-30%). Nel caso degli
impianti EFGT la camera di combustione presente nei sistemi a combustione
interna viene sostituita dallo scambiatore primario ad alta temperatura. La
massima temperatura operativa dello scambiatore è necessariamente di circa
100-150°C più elevata della temperatura di ingresso in turbina (800-1000°C nelle
28
Biomass
Flue gases
Furnace
Hot air
C
T
~
Air
Figura 2.6 – Impianto EFGT.
recenti microturbine a gas). Inoltre, vista la presenza di flussi gassosi su
entrambi i lati, i bassi coefficienti di scambio termico comportano la necessità di
superfici di scambio notevolmente estese, con conseguenti ingombri elevati,
specie in confronto alle piccole dimensioni dell’unità motrice. Con temperature
massime dell’ordine di 900-1000°C il rendimento di questi sistemi è dell’ordine
del 23-28%.
Le principali aree di ricerca e sviluppo nel settore delle turbine a gas a
combustione esterna sono concentrate nei settori dei materiali per le alte
temperature e nella progettazione e realizzazione dello scambiatore di calore.
Analogamente, una notevole attività di ricerca è volta a minimizzare le
problematiche di sporcamento e corrosione nel sistema di combustione delle
biomasse, nonché nella integrazione ottimale fra tale combustore e lo
scambiatore di calore. Al fine di migliorare le prestazioni globali dell’impianto
vengono anche attivamente studiate differenti modalità di recupero energetico
dell’energia termica allo scarico della turbina, come per esempio i cicli
evaporativi.
Centrali Diesel ad olio vegetale. L’impiego degli oli vegetali grezzi per
l’alimentazione di motori a ciclo diesel di grande taglia (5-15 MWe, con
rendimenti netti del 45-47%) destinati alla produzione di energia elettrica
rappresenta un elemento di grande novità nel panorama mondiale, con l’Italia
che in questo settore riveste peraltro un ruolo di primissimo piano. Nel 2004 la
ItalGreen Energy di Monopoli ha infatti realizzato il più grande impianto a
livello mondiale, costituito da 3 motori diesel per un totale di 24 MWe. La
ItalGreen Energy nel 2007 ha poi installato altri sei motori da 17 MWe ciascuno,
29
per un totale di 100 MWe. Altri impianti con potenze variabili fra 20 e 100 MWe
sono operativi o in fase di realizzazione in Toscana, Campania, Marche, Friuli,
Veneto e Sardegna, tanto che entro il 2008 saranno operativi circa 700 MWe di
impianti di generazione elettrica alimentati con olio vegetale. Importanti
progetti sono in corso di realizzazione anche in Belgio, Germania, Regno Unito
e India [47-50]. Praticamente tutti gli impianti italiani operano in filiera lunga,
essendo stati progettati per essere alimentati con olio di palma di importazione,
anche se non esistono particolari problemi ad utilizzare oli vegetali grezzi di
colza, girasole e soia, residui della lavorazione di oli alimentari di oliva o di
sansa, oppure oli di frittura usati. La realizzazione di questi impianti, con il
forte aumento della richiesta di olio di palma, importato dalla Malesia e
dall’Indonesia (che insieme producono oltre l’85% dell’olio di palma a livello
mondiale), ha peraltro attirato l’attenzione circa i possibili effetti ambientali
derivanti dalle estese deforestazioni operate in questi paesi per incrementare le
superfici coltivate a palma. Con l’aumento della richiesta si è anche determinato
un fortissimo aumento dei prezzi dell’olio di palma sui mercati internazionali,
con quotazioni di quasi 1000 $/t ad inizio 2008, più che raddoppiate rispetto a
quelle medie del biennio 2005-2006, quanto la quotazione era di circa 450 $/t. In
relazione a tali aspetti, la tendenza attuale dovrebbe essere quella di favorire lo
sviluppo degli impianti in filiera corta, anche in virtù dell’evoluzione in questo
senso della politica degli incentivi [51, 52].
Le ricerche nel settore dell’utilizzo nei motori Diesel degli oli vegetali di diversa
provenienza (palma, colza, girasole, jatropha, deccan hemp, oli usati, etc.), puri
o in miscela con gasolio, sono attualmente molto attive [53-64]. I risultati di
questi studi evidenziano che l’utilizzo degli oli vegetali in sostituzione dei
combustibili fossili convenzionali non determina variazioni di rilievo nei
confronti delle prestazioni dei motori a combustione interna, anche se richiede
l’implementazione di alcuni accorgimenti tecnici in relazione alle differenti
caratteristiche del combustibile utilizzato. Dal confronto emerge
sostanzialmente che gli oli vegetali sono caratterizzati da un minore potere
calorifico, una maggiore viscosità ed un minore numero di cetano. Inoltre, gli
oli vegetali evidenziano anche minori contenuti di zolfo ma maggiori presenze
di composti acidi. L’aspetto più problematico degli oli vegetali è rappresentato
dalla elevata viscosità, che rende più difficile la polverizzazione del
combustibile. Inoltre, la più marcata tendenza alla polimerizzazione degli oli
può comportare occlusioni del sistema di alimentazione e di iniezione. Il
problema della elevata viscosità si può risolvere attraverso il riscaldamento
dell’olio (per avere viscosità confrontabili con quelle dell’olio combustibile
occorre riscaldare l’olio vegetale almeno fino a 70-90°C), specie nel caso dei
grandi motori diesel destinati alla produzione di energia. Nel caso dei motori
30
diesel veloci di minore potenza, specie in presenza dei moderni e sofisticati
sistemi di iniezione, si preferisce invece ricorrere alla diluizione con
combustibili più fluidi oppure direttamente alla transesterificazione dell’olio
vegetale (ovvero alla produzione di biodiesel).
Una parte rilevante dell’energia chimica del combustibile non convertita in
energia meccanica dal motore viene resa disponibile sotto forma di gas di
scarico e di acqua calda. Per questo motivo, numerose attività di ricerca sono
anche rivolte allo studio delle modalità di recupero di questa energia termica.
Gran parte di questi flussi termici possono essere utilmente recuperati per la
produzione di energia termica ad uso cogenerativo, laddove vi sia una
adeguata richiesta termica da parte delle utenze. In alternativa, specie nel caso
dei motori di grande taglia, una parte di questa energia può essere recuperata
per la produzione di energia meccanica in un ciclo a vapore sottoposto. Tenuto
conto della relativamente modesta temperatura dei gas di scarico, il ciclo
sottoposto può essere basato su un ciclo Rankine a vapore d’acqua oppure su
un ciclo Rankine a fluido organico (Organic Rankine Cycle, ORC). La prima
opzione viene utilizzata soprattutto in combinazione con motori aventi potenza
superiore a circa 25-30 MW (realizzati normalmente attraverso l’impiego di più
unità), mentre la seconda opzione è preferibile nel caso di motori di minore
potenza. Altre possibilità di recupero si possono avere attraverso una
opportuna integrazione del motore con un impianto a vapore, possibilmente
anch’eso alimentato con biomasse. Il recupero dell’energia termica resa
disponibile da un motore diesel alimentato con olio vegetale può essere
realizzato infatti nel circuito di preriscaldamento dell’acqua di una centrale a
vapore. Le basse temperature dell’acqua nel circuito di preriscaldamento (da
35-40°C all’uscita del condensatore fino alla temperatura di vaporizzazione di
circa 250-280°C) consentono di riscontrare le condizioni affinché il recupero
dell’energia termica resa disponibile dal motore, sia sotto forma di gas di
scarico sia sotto forma di acqua calda, possa avvenire nella misura più completa
possibile [65].
31
2.3 I PROCESSI DI GASSIFICAZIONE DELLE BIOMASSE
Un processo di gassificazione è costituito dall'insieme delle trasformazioni
chimico-fisiche attraverso le quali si ottiene la conversione delle biomasse (o di
altri combustibili primari come il carbone) in un combustibile di sintesi in fase
gassosa, brevemente indicato con il nome di syngas. Tale combustibile gassoso,
una volta che sia stato adeguatamente depurato, è facilmente utilizzabile in
impianti di conversione dell’energia di tipo convenzionale (turbine a gas e
motori a combustione interna) o avanzata (celle a combustibile o sistemi ibridi),
oppure anche per la produzione di idrogeno e di altri combustibili di sintesi. In
tal senso, i processi di gassificazione delle biomasse sono oggetto di notevole
attenzione in quanto potenzialmente in grado di assicurare maggiori
rendimenti globali di conversione rispetto ai processi di combustione abbinati a
impianti motori termici.
Peraltro, nonostante l'interesse nei confronti dei processi di gassificazione
appaia recente, occorre ricordare come essi abbiano in realtà origini ben più
lontane (il loro sviluppo iniziale risale infatti alla seconda metà del XVIII
secolo). Dopo una fase di forte interesse per queste tecnologie che, intorno fra
gli anni ’20 e ’40 del secolo scorso, che portò ad un notevole sviluppo dei
sistemi di gassificazione, è seguito un lungo periodo di stasi. La necessità di
operare una diversificazione delle fonti energetiche primarie ha condotto poi ad
un rinnovato interesse nei riguardi delle attività di ricerca e sviluppo applicate
ai processi di gassificazione del carbone, delle biomasse e di altri combustibili di
bassa qualità (residui della raffinazione del petrolio, greggi pesanti, rifiuti, etc.).
É il caso di ricordare che, a livello mondiale, sono attualmente operativi
numerosi impianti IGCC (Integrated Gasification Combined Cycle) di grande
taglia (300-600 MWe) alimentati con carbone e con TAR di raffineria (tre di
questi ultimi impianti operano in Italia, di cui uno presso la raffineria Saras di
Sarroch).
In un impianto di conversione dell’energia basato su di un processo di
gassificazione si possono individuare tre sezioni principali: la sezione di
gassificazione (che include, oltre al gassificatore vero e proprio, anche i sistemi
Combustibile
Ossidante
Vapore
Sezione di
gassificazione
Ceneri
Syngas
Syngas
Sezione di
Condizionamento
TAR, Polveri,
NH3, etc
Sezione di
conversione
Energia elettrica
Figura 2.7 – Impianto di gassificazione.
32
di ricevimento e trattamento del combustibile e, nel caso, i sistemi di
produzione dell’ossigeno e del vapore), la sezione di condizionamento del
syngas prodotto (che include le apparecchiature per la depurazione, il
raffreddamento e/o il riscaldamento ed eventualmente la compressione del
syngas) e la sezione di conversione finale dell’energia (impianto motore termico
o cella a combustibile). Si tratta pertanto di un impianto tendenzialmente
complesso, che di conseguenza risulta anche costoso da realizzare e
impegnativo da gestire, e che può trovare giustificazione solo se in grado di
garantire elevati valori di rendimento. Ciò richiede l’ottimizzazione delle
prestazioni delle singole sezioni ma anche una ottimale integrazione energetica
fra le stesse.
Come meglio evidenziato nel prosieguo, ciascuna sezione presenta
problematiche e livelli di sviluppo tecnologico differenti. In particolare, per
quanto concerne la sezione di gassificazione vera e propria, le attività di ricerca
e sviluppo sono fondamentalmente mirate a migliorare il grado di automazione
e di affidabilità, ridurre la presenza di tar nel syngas prodotto, oltre che
migliorare il rendimento del processo e ridurre i costi. Le problematiche di
maggiore rilievo della sezione di depurazione sono senz’altro quelle di
garantire adeguati livelli di depurazione da tar e particolato, in maniera tale da
proteggere da fenomeni di sporcamento, corrosione e ostruzione le
apparecchiature a valle. Infine, le ricerche nell’ambito della sezione di
conversione energetica mirano fondamentalmente a migliorare il rendimento di
generazione elettrica attraverso la ricerca di nuove configurazioni
impiantistiche ed il miglioramento di quelle esistenti.
2.3.1 La sezione di gassificazione
Un processo di gassificazione realizza la conversione dei composti organici del
combustibile primario in gas di sintesi attraverso lo sviluppo di reazioni
chimiche con ossigeno (alimentato puro o più spesso nel caso degli impianti a
biomassa sotto forma di aria) e vapor d'acqua. Il gas di sintesi così prodotto è
costituito da una miscela contenente principalmente CO, CO2, H2, H2O, CH4 e,
nel caso di gassificazione con aria, N2, nonché altri elementi perlopiù
indesiderati (H2S, COS, NH3, HCl, TAR, polveri, etc.). Ovviamente, la
composizione del syngas prodotto e l'efficienza del processo di gassificazione
variano in funzione delle condizioni operative del processo (quantità di
ossigeno e vapore, pressione, temperatura, etc.) e delle caratteristiche del
combustibile primario. L’efficienza del processo di gassificazione viene
solitamente espressa mediante il rendimento di gas freddo, ovvero il rapporto
fra l’energia chimica del syngas prodotto e quella del combustibile alimentato.
Tipicamente il rendimento di gas freddo varia fra l’80 e il 90%
33
In relazione al loro assetto fluidodinamico, i processi di gassificazione possono
essere classificati nell'ambito di tre grandi categorie, e precisamente gassificatori
a letto fisso, gassificatori a letto fluido e gassificatori a letto trascinato.
I gassificatori a letto fisso sono caratterizzati dalla presenza di un vero proprio
strato di biomasse in pezzatura disposte sopra una griglia. All’interno di un
gassificatore a letto fisso, in relazione soprattutto agli scambi termici fra
biomasse, agenti gassificanti e gas di sintesi, avvengono una serie di processi di
essiccazione, pirolisi, gassificazione e combustione, spesso diversamente
combinati fra loro. Nell’ambito di questa famiglia ricadono gassificatori di
differente tipologia, ma i sistemi più importanti sono senza dubbio i
gassificatori di tipo downdraft, nei quali il combustibile e gli agenti gassificanti
vengono introdotti dall’alto mentre il syngas viene estratto dal basso, e quelli di
tipo updraft, dove invece il combustibile viene introdotto dall’alto, gli agenti
gassificanti dal basso e il syngas estratto dall’alto.
In tutti i casi, nei gassificatori a letto fisso la temperatura interna è limitata dalla
temperatura di fusione delle ceneri, la temperatura del gas prodotto è bassa
(solitamente inferiore a 300°C), si ha un modesto consumo di ossigeno ed un
elevato consumo di vapore. Tali gassificatori non sono particolarmente adatti
ad accettare biomasse molto eterogenee in quanto presentano precisi limiti nella
accettabilità dei fini (ovvero della frazione di combustibile di minori
dimensioni), hanno tipicamente una bassa potenzialità e producono syngas con
elevate percentuali di TAR anche se con ridotte concentrazioni di particolato.
I gassificatori a letto fluido realizzano invece una intensa fluidificazione della
zona di reazione grazie alla immissione opportunamente localizzata degli
agenti gassificanti ed all’impiego di un mezzo inerte come la sabbia. In
relazione a tali condizioni operative, essi presentano una distribuzione
uniforme di temperatura lungo il reattore, con valori inferiori alla temperatura
di fusione delle ceneri a causa dei problemi legati alla agglomerazione. Essi
evidenziano moderati consumi di ossigeno e di vapore, producono syngas con
limitato contenuto di TAR ma con una elevata concentrazione di particolato.
Presentano inoltre maggiore potenzialità rispetto ai gassificatori a letto fisso.
Anche nell’ambito della famiglia dei gassificatori a letto fluido si incontrano
diverse tipologie di sistemi, i più importanti dei quali sono i gassificatori a letto
fluido circolante (CFB, Circulating Fluidized Bed) e a letto fluido bollente (BFB,
Bubbling Fluidized Bed).
I gassificatori a letto trascinato operano con un flusso in equicorrente tra il
combustibile (che deve essere introdotto in pezzatura molto fine), ossigeno e
vapore, in maniera molto simile ad un convenzionale sistema di combustione.
Tali processi di gassificazione, operano generalmente ad alta temperatura e in
pressione e presentano pertanto un elevato consumo di ossigeno e un basso
34
consumo di vapore. I gassificatori a letto trascinato hanno una elevata
potenzialità e producono syngas praticamente privo di idrocarburi pesanti e di
metano.
In relazione alle caratteristiche sopra citate, i gassificatori a letto fisso
presentano potenze notevolmente inferiori rispetto a quelle dei gassificatori a
letto trascinato. Per questo motivo, per il settore delle biomasse sono di
interesse soprattutto i processi a letto fisso e fluido, mentre quelli a letto
trascinato sono di interesse soprattutto per gli impianti IGCC di grande taglia
alimentati con carbone o con TAR di raffineria. In particolare, i gassificatori a
letto fisso, soprattutto di tipo downdraft, sono utilizzati per potenze fino a circa
5-10 MWt, i gassificatori a letto fluido bollente sono utilizzati per potenze fino a
circa 25 MWt, mentre per potenze fino a circa 100 MWt vengono utilizzati i
gassificatori a letto fluido circolante.
Nonostante si tratti di una tecnologia fondamentalmente poco diffusa, sul
mercato internazionale si riscontra un gran numero di gassificatori offerti a
livello commerciale (da una recente indagine sono emersi circa 50 costruttori di
gassificatori a biomassa). Tuttavia, difficilmente i fornitori sono in grado di
fornire precise garanzie su prestazioni, costi, emissioni e affidabilità. Tali
sistemi trovano pertanto maggiore spazio in paesi in via di sviluppo (come
India, Cina, etc.), ma non possiedono i necessari requisiti di sicurezza,
automazione ed emissioni richiesti per le applicazioni nei mercati occidentali.
La maggior parte dei gassificatori in commercio sono gassificatori di piccola
taglia di tipo downdraft, derivati in maniera più o meno diretta dai primi
gassificatori sviluppati fra gli anni ’20 e ’40 del secolo scorso. Nonostante i
miglioramenti introdotti in quasi un secolo di sviluppo, l’affermazione
commerciale dei processi di gassificazione delle biomasse è ancora subordinata
alla risoluzione di problemi quali il miglioramento della qualità del syngas
prodotto (in termini soprattutto di contenuto di TAR, polveri e altri inquinanti,
ma anche l’incremento del potere calorifico), i fenomeni di sinterizzazione e
agglomerazione delle ceneri, il miglioramento generale delle prestazioni,
l’incremento del livello di automazione e di affidabilità operativa, nonché la
riduzione generale dei costi di installazione e di esercizio.
Il problema principale dei gassificatori di piccola taglia rimane la formazione
del TAR, aspetto particolarmente importante nei processi a letto fisso e meno in
quelli a letto fluido. Il TAR è infatti costituito da una miscela di idrocarburi
pesanti, inizialmente presenti in fase vapore nel syngas caldo e che condensano
con il suo raffreddamento, provocando lo sporcamento e il blocco delle
apparecchiature interessate. Le concentrazioni di TAR prodotte dai processi di
gassificazione delle biomasse variano fra circa 0,5 g/m3 e 100 g/m3 (essendo i
valori più elevati caratteristici di gassificatori a letto fisso updraft di piccola
35
taglia). Poiché nella maggior parte dei casi, la concentrazione massima di TAR
tollerata dai sistemi di conversione integrati con il gassificatore è inferiore a 0,05
g/m3, si rende praticamente sempre necessario provvedere al controllo di
questo composto [66-70].
La composizione del syngas prodotto dal gassificatore, e dunque anche il tenore
di TAR, dipende notevolmente dai suoi parametri operativi, quali in
particolare, temperatura, pressione, rapporti ossigeno/combustibile e
vapore/combustibile, tempo di residenza, etc. Le attività di ricerca condotte
fino ad oggi hanno evidenziato come la concentrazione di TAR tenda a ridursi
all’aumentare della temperatura operativa (oltre 800-900°C), della pressione
(fino a circa 10-20 bar) e dei rapporti ossigeno/combustibile e
vapore/combustibile. In questo ambito risulta molto interessante approfondire
l’effetto della gassificazione utilizzando CO2 come agente gassificante, la cui
presenza sembra favorire la conversione delle biomasse e l’aumento della
concentrazione di H2 e CO. Una opportuna scelta dei parametri operativi
consente di ridurre, oltre al TAR, anche la formazione di char (ovvero carbonio
incombusto) [71, 72].
Fra le diverse opzioni allo studio per migliorare le prestazioni del sistema di
gassificazione è inclusa la co-gassificazione delle biomasse con carbone. I
vantaggi della co-gassificazione sono simili a quelli precedentemente
evidenziati per la co-combustione e consentono, tra l’altro, di ridurre i problemi
legati alla reperibilità di sufficienti quantitatibi di biomasse ed ai fattori di
stagionalità. Peraltro anche il livello qualitativo del syngas migliora
notevolmente (si riduce la formazione di TAR e char) [73-75].
Alcuni gruppi di ricercatori hanno dimostrato che l’iniezione nel gassificatore
di additivi come il calcare e la dolomite è in grado di favorire la conversione del
char e ridurre la concentrazione di TAR, migliorando le prestazioni del
processo di gassificazione. Altri additivi in corso di sperimentazione sono
minerali a base di magnesio, ossidi di ferro e silice, ossidi di vanadio, cromo,
cobalto, nickel, rame, molibdeno, etc. In linea di massima, l’iniezione di additivi
nel gassificatore appare in grado di ridurre il contenuto di TAR e aumentare la
concentrazione di H2, CO e CO2. I maggiori problemi incontrati sono relativi
alle severe condizioni operative che portano spesso alla deattivazione degli
additivi utilizzati ed al trascinamento di fini nel syngas [72, 76].
Anche il tipo di gassificatore assume una importanza fondamentale, tanto che
numerose attività di ricerca sono finalizzate a sviluppare nuove tipologie di
reattori nei quali le zone di pirolisi e di gassificazione sono separate da una
zona intermedia nella quale i gas prodotti dal processo di pirolisi vengono
parzialmente ossidati. Anche la ripartizione dell’ossidante in un flusso primario
e in un flusso secondario si è dimostrata benefica nei confronti della riduzione
36
della concentrazione di TAR, così come il ricircolo al gassificatore del TAR
separato [71, 72, 77, 78]. Poiché ai fini della successiva rimozione o conversione,
non risulta importante solamente il quantitativo ma anche la natura chimica del
TAR (esso è una complessa miscela di idrocarburi policiclici aromatici, alchilati
aromatici e composti
fenolici), altri gruppi di ricerca si occupano di
caratterizzare la composizione del TAR in relazione alle condizioni operative ed
alla tipologia del gassificatore [79].
I gassificatori di piccola taglia, per ragioni economiche, sono generalmente
alimentati con aria e vapore, cosicché la diluizione operata dall’azoto riduce
moltissimo il potere calorifico del syngas (con il 50% circa di azoto, il potere
calorifico del syngas è dell’ordine di 3-6 MJ/Nm3 e potrebbe essere circa doppio
senza la presenza dell’azoto). Molte attività di ricerca in questo settore si stanno
indirizzando verso lo studio della gassificazione con aria arricchita in ossigeno,
in vapore e in CO2. Altri programmi di ricerca sono rivolti allo studio della
gassificazione con solo vapore e/o CO2. In questi ultimi casi però è necessario
fornire dall’esterno il calore necessario per lo svolgimento delle reazioni
endotermiche di gassificazione. La gassificazione con vapore è in grado di
incrementare notevolmente il potere calorifico del syngas, mentre la
gassificazione con CO2 consente di ridurre notevolmente la presenza di TAR,
char e CH4, incrementando nel contempo la concentrazione di H2 e CO [70, 80,
81].
Le problematiche inerenti la sinterizzazione e l’agglomerazione delle ceneri
consistono nei fenomeni di deposito, erosione, corrosione e talvolta blocco del
gassificatore stesso. Tali problematiche nascono dalla presenza nelle biomasse
di composti alcalini come il potassio che reagiscono con il silicio formando
silicati e solfati. Questi ultimi sono caratterizzati da temperature di fusione
inferiori anche a 700°C, cosicché tendono facilmente a formare depositi e
incrostazioni sulle pareti del gassificatore. Peraltro, la presenza di tali composti
alcalini nel syngas è causa di fenomeni di corrosione ed erosione nelle
apparecchiature percorse dal syngas. In relazione all’assetto fluidodinamico e
soprattutto alle minori temperature operative (peraltro uniformi lungo tutto il
reattore), i gassificatori a letto fluido sono meno interessati ai sopracitati
fenomeni. Le contromisure allo studio fanno leva su processi di pretrattamento
delle biomasse tesi a ridurre la presenza di elementi come il potassio e il sodio.
Poiché gli alcali sono composti solubili in acqua, le principali tecniche allo
studio sono proprio basate su processi di lavaggio con acqua cui segue la
separazione meccanica dell’acqua stessa. Mediante tali trattamenti si riesce a
rimuovere oltre l’80% del potassio e del sodio, oltre a circa il 90% del cloro [82].
Di non minore importanza, ai fini una effettiva possibilità di diffusione di
queste tecnologie, sono le attività di ricerca e sviluppo finalizzate a migliorare il
37
livello di automazione del processo, la sua flessibilità operativa e l’affidabilità.
In questo settore giocano un ruolo fondamentale tutte le apparecchiature
ausiliarie del gassificatore stesso, ed essenzialmente riconducibili alla sezione di
preparazione e alimentazione della biomassa al gassificatore. In effetti, la
biomassa che giunge all’impianto risulta raramente idonea ad essere
direttamente introdotta nel gassificatore ma può richiedere processi
essiccazione e di riduzione delle dimensioni. Essa inoltre deve essere introdotta
nel gassificatore che talvolta opera in pressione.
Uno dei principali problemi che devono essere risolti è spesso proprio quello
della essiccazione delle biomasse, dal momento che la maggior parte dei
gassificatori non accettano materiale troppo umido (l’ideale è spesso una
umidità del 10-20%, mentre molte biomasse fresche di taglio hanno tenori di
umidità del 50-60%). L’essiccazione è un processo fortemente energivoro che
può ridurre notevolmente l’efficienza globale del sistema, ragion per cui le
attività di ricerca in corso cercano di individuare soluzioni che utilizzino flussi
energetici di recupero all’interno dello stesso impianto (gas di scarico della
turbina o del motore, syngas caldo, etc.). Peraltro è anche possibile pensare a
soluzioni integrate con essiccazione delocalizzata delle biomasse ed utilizzo
delle stesse in un impianto centralizzato, minimizzando i costi di trasporto e le
perdite energetiche [83].
In sintesi, le maggiori aree di ricerca e sviluppo nel settore dei processi di
gassificazione delle biomasse sono rivolte alla risoluzione di problemi quali:
miglioramento del livello di automazione, flessibilità operativa e affidabilità;
miglioramento del rendimento di conversione (rendimento di gas freddo);
limitazione della concentrazione di TAR e particolato;
riduzione dei problemi di sinterizzazione e agglomerazione delle ceneri;
riduzione dei costi.
2.3.2 La sezione di condizionamento del syngas
Nel syngas prodotto dai processi di gassificazione si ritrovano tutta una serie di
composti indesiderati che devono essere eliminati prima della utilizzazione
finale. I principali elementi indesiderati sono il TAR e il particolato, mentre nel
caso delle biomasse assume minore rilevanza la presenza dei composti dello
zolfo. La presenza di TAR può essere ridotta in misura solo marginale agendo
sui parametri operativi del processo di gassificazione, anche se in questo
settore, come detto, vi è una intensa attività di ricerca. L’eliminazione del TAR,
così come del particolato, passa pertanto attraverso lo sviluppo di efficienti e
affidabili processi di depurazione. Nei sistemi convenzionali, la depurazione
del syngas avviene generalmente mediante processi di filtrazione e di lavaggio
con acqua, ovvero con sistemi a freddo. Poiché però il syngas viene prodotto
38
dal gassificatore a temperatura medio-alta (da circa 200-300°C nel caso dei
gassificatori a letto fisso fino ad oltre 800°C nel caso di quelli a letto fluido) è
evidente che il raffreddamento del syngas introduce significative perdite di
energia. Ai fini della riduzione delle irreversibilità, infatti, l’ideale sarebbe
riuscire a depurare il syngas ad alta temperatura, attraverso lo sviluppo di
sistemi di depurazione a caldo. Poiché questa problematica è comune ai
processi di gassificazione del carbone, essa vede impegnate un gran numero di
attività di ricerca e sviluppo. un notevole L’utilizzo di tali sistemi comporta
però elevate perdite di carico, cosicché appare più adatto ai sistemi di
gassificazione in pressione, utilizzati in impianti IGCC di grande taglia [84].
Come detto, nei sistemi convenzionali, la depurazione dal TAR avviene
generalmente mediante un processo di lavaggio (scrubbing) del syngas con
acqua il quale, oltre alla introduzione di evidenti irreversibilità, ha anche lo
svantaggio di produrre un grande quantitativo di reflui liquidi, che
introducono poi specifiche problematiche di smaltimento. Altre modalità di
depurazione del syngas dal TAR sono rappresentate dall’impiego di cicloni,
filtri granulari e precipitatori elettrostatici ad umido, che in ogni caso risultano
efficaci nei confronti del TAR solo a bassa temperatura (sotto 100°C). Le attività
di ricerca in atto in questo settore evidenziano come le efficienze di rimozione
del TAR di questi sistemi sono mediamente dell’ordine del 50-70% mentre
quelle del particolato sono di solito superiori al 95-98%. Ovviamente, la
separazione del TAR dal syngas pone il problema della conseguente perdita del
suo contenuto energetico, a meno che il TAR stesso non venga riutilizzato (per
esempio ricircolandolo al gassificatore) [66-70].
Le complesse strutture molecolari del TAR possono essere ricondotte a quelle di
più semplici composti attraverso il cracking termico operato ad elevata
temperatura (da circa 900°C a circa 1300°C), con conseguenti elevati costi
energetici. Tuttavia, le attività sperimentali in questo settore hanno anche
evidenziato che il TAR derivante dai processi di gassificazione delle biomasse
risulta notevolmente refrattario alla decomposizione per semplice via termica,
se non a temperature molto elevate. Per questo motivo, le attività di ricerca nel
settore della depurazione del syngas sono pertanto attualmente concentrate
soprattutto sui sistemi di conversione catalitica del TAR. Ovviamente, in questo
caso, il principale problema da risolvere è rappresentato dalla individuazione di
catalizzatori attivi nei confronti del TAR da biomasse, resistenti ai fenomeni di
sporcamento e sinterizzazione, facilmente rigenerabili e poco costosi. Fra i
catalizzatori attualmente studiati sono compresi quelli a base di nickel (molto
simili a quelli utilizzati per il reforming del metano e degli idrocarburi
nell’industria petrolchimica), di carbonati, ossidi e idrossidi di metalli alcalini
(potassio, sodio, litio, etc.), dolomite (ovvero carbonato di calcio e magnesio) e
39
altri metalli (platino, palladio, rutenio, rodio, etc.). Infine, uno dei processi
innovativi di decomposizione del TAR si basa sull’impiego del plasma [70] [85].
Per quanto concerne la rimozione del particolato, i sistemi convenzionali, come
i cicloni, i precipitatori elettrostatici e le torri di lavaggio presentano
l’inconveniente di operare generalmente a bassa temperatura. Cosicchè anche in
questo settore, le principali attività di ricerca sono finalizzate a sviluppare
sistemi di depurazione a caldo. In particolare, i sistemi di rimozione del
particolato a caldo più avanzati sono i filtri ceramici a candela. I materiali più
studiati sono a base di carburo di silicio e metalli sinterizzati. Le efficienze sono
molto elevate, anche con particolato di piccolissime dimensioni (inferiori a 1
micron). I principali problemi da risolvere sono legati al pericolo di degrado
chimico, creep e resistenza a fatica, specie alle più alte temperature (oltre 800850°C). In questo senso, i filtri realizzati con metalli porosi sembrano
evidenziare migliori caratteristiche rispetto a quelli ceramici.
In alternativa ai filtri ceramici o metallici, sono anche in fase di studio avanzato
i filtri granulari. Si tratta di contenitori riempiti di materiali a base di calcare o
di allumina, attraverso i quali viene fatto passare il syngas da trattare. Le
principali problematiche allo studio sono relative alle modalità di rigenerazione
del filtro.
La presenza nel syngas di alcali (soprattutto composti del potassio e del sodio),
che condensano a temperature di circa 600-700°C, provocano notevoli
inconvenienti in sistemi come turbine a gas, motori a combustione interna e
celle a combustibile. La rimozione degli alcali dal syngas non è affatto facile e si
studiano soprattutto specifici sorbenti (oltre ai già citati processi di lavaggio
delle biomasse al fine di eliminare all’origine la presenza di questi composti).
Nel gassificatori a letto fluido l’assorbimento degli alcali mediante i sorbenti
può avvenire anche all’interno dello stesso reattore, mentre più facilmente esso
avviene in specifici reattori disposti a valle. I sorbenti in corso di
sperimentazione sono basati su bauxite, kaolinite, emathlite e altri materiali
rocciosi. Tra questi la bauxite appare quella più interessante.
2.3.3 La sezione di utilizzo del syngas
Uno degli utilizzi più immediati del syngas derivante dai processi di
gassificazione è dato dall’impiego come combustibile in generatori di vapore,
specie in co-combustione con carbone o altre biomasse solide. In questo caso i
requisiti circa i livelli minimi di concentrazione di TAR e particolato nel syngas
non sono molto stringenti per cui il sistema di condizionamento può essere
molto semplice. Rispetto all’utilizzo diretto delle biomasse come combustibile,
l’integrazione con un gassificatore contribuisce a migliorare l’accettabilità di
biomasse problematiche. Il più grande inconveniente di questa modalità di
utilizzo è data dal basso rendimento di conversione energetica, limitato sia dal
40
ridotto rendimento del ciclo a vapore sia dalle perdite nella sezione di
gassificazione e condizionamento del syngas [86].
La maggior parte delle attività di ricerca sono rivolte verso le tecnologie di
produzione combinata di energia elettrica e termica, nel tentativo di provarne la
fattibilità tecnico-economica. I sistemi in fase di valutazione sono diversi. Nel
caso dei gassificatori di piccola taglia il sistema di generazione elettrica più
facilmente utilizzabile è rappresentato da un motore alternativo a combustione
interna. In questo caso, le specifiche circa la composizione del syngas
divengono più stringenti. Risulta infatti necessario depurare il syngas da TAR,
particolato, ammoniaca e alcali al fine di rispettare le specifiche imposte dai
fornitori dei motori. L’utilizzo del syngas in un motore alternativo in luogo dei
combustibili fossili convenzionali (derivati petroliferi e gas naturale) determina
solitamente una diminuzione della potenza netta prodotta dell’ordine del 1520%. Con motori di piccola taglia i rendimenti elettrici non sono anche in questo
caso molto elevati (20-25%) e possono aumentare fino a circa il 30% nel caso dei
motori di maggiore taglia. Il rendimento globale nel caso di sistemi che operano
in cogenerazione (attraverso il recupero termico dai gas combusti, dall’acqua di
raffreddamento e dall’olio lubrificante) può raggiungere invece valori dell’8085%. In Europa esistono numerosi esempi di impianti di gassificazione integrati
con motori a combustione interna, caratterizzati da differenti taglie (da poche
centinaia di kWe ad oltre 5 MWe) e differenti tipologie di gassificatore (letto
fisso e letto fluido). Le attività di ricerca in questo settore sono principalmente
indirizzate verso l’ottimizzazione del funzionamento del motore con
combustibili diversi da quelli convenzionali e con composizione spesso
variabile in relazione alla tipologia delle biomasse alimentate al gassificatore
[87-89].
Molto più ampia è l’attività di ricerca e sviluppo nel settore dell’impiego del
syngas per l’alimentazione di turbine a gas. Infatti, uno dei principali vantaggi
delle turbine a gas è legato al fatto che l’energia termica non convertita in
energia meccanica dal ciclo viene tutta riversata nell’ambiente sotto forma di
gas di scarico ad alta temperatura. Il recupero più o meno spinto di questa
energia termica consente di aumentare in misura talvolta anche notevole il
rendimento elettrico del sistema. È ben noto, infatti, che gli impianti di
generazione elettrica attualmente più efficienti sono gli impianti combinati
gas/vapore, nei quali l’energia termica allo scarico della turbina a gas viene
utilizzata in un ciclo a vapore sottoposto. I I rendimenti di un impianto a ciclo
combinato possono toccare il 55-60% nel caso di alimentazione con gas naturale.
Nel caso in cui esso venga alimentato con syngas derivante da processi di
gassificazione (in tal caso si parla di impianti IGCC, Integrated Gasification
Combined Cycle, che, nel caso delle biomasse sono spesso indicati anche con
41
l’acronimo BGCC, Biomass Gasification Combined Cycle) può consentire
rendimenti anche superiori al 45%. Gli impianti IGCC di più grande taglia (300500 MWe) sono attualmente alimentati con carbone o con TAR di raffineria e
presentano rendimenti netti dell’ordine del 42-45%. Nel caso delle biomasse gli
impianti BGCC sono di fatto proponibili solo per gli impianti di elevata potenza
(per ragioni economiche, tali impianti appaiono giustificati solo per potenze
superiori a circa 40-50 MWe). In alternativa, il syngas prodotto da piccoli
gassificatori potrebbe essere alimentato ad un impianto a ciclo combinato di
grande taglia in miscela con gas naturale [90-92]. Poiché nel settore delle
biomasse sono di notevole interesse soprattutto impianti di minore potenza, la
ricerca si sta indirizzando verso soluzioni meno complesse, basate su turbine a
gas in ciclo semplice o misto.
Come detto, un impianto a ciclo combinato gas/vapore integrato con una
processo di gassificazione può consentire rendimenti dell’ordine del 45-50%.
Tuttavia, il raggiungimento effettivo di un tale traguardo richiede ancora una
notevole attività di ricerca e sviluppo se solo si pensa che a livello mondiale
sono stati realizzati solo pochi impianti BGCC di grande taglia e che ancora non
si è arrivati a definire quale tecnologia possa garantire il miglior compromesso
fra efficienza e costi. Per esempio, l’impianto di Varnamo, in Svezia, è basato su
un gassificatore a letto fluido in pressione (circa 22 bar), alimentato con aria e
dotato di un sistema di depurazione dei gas ad alta temperatura (filtri in
materiale ceramico). Tale impianto ha una potenza elettrica netta di 6 MWe, una
potenza termica di 9 MWt e un rendimento netto del 32% (esso ha operato dal
1996 al 2000 e risulta attualmente in fase di riconversione per la produzione di
combustibili liquidi derivati da syngas [93]). Il più grande impianto brasiliano
(circa 32 MWe con un rendimento del 40%), opera invece con un gassificatore
atmosferico e con un sistema di depurazione a freddo. In altri casi si opera con
ossigeno invece che con aria. [89, 94, 95].
Nel caso di impianti di minore taglia, considerazioni di ordine economico
consigliano l’impiego di turbine a gas in ciclo semplice o in ciclo misto. In
particolare, per gli impianti di minore potenza appaiono molto interessanti le
cosiddette microturbine a gas (MGT), ovvero macchine di recente comparsa sul
mercato, caratterizzate da potenze elettriche dell’ordine di 30-150 kWe e
rendimenti elettrici di circa il 25-30%. Si tratta di macchine per le quali il
principale punto di forza è la semplicità, essendo basate su compressori e
turbine radiali e monostadio senza sistemi di raffreddamento delle palettature.
In relazione al basso rapporto di compressione (circa 3-4), queste macchine
adottano un ciclo termodinamico rigenerato e presentano la possibilità di
operare in cogenerazione con la produzione di acqua calda (nel qual caso i
rendimenti globali sono ancora una volta dell’ordine dell’80-85%). Le attività di
42
ricerca in questo settore sono vertono fondamentalmente sulla ottimizzazione
delle prestazioni della turbina in relazione alle diverse caratteristiche del syngas
(in effetti, tali microturbine vengono commercializzate principalmente in
alimentazione con gas naturale, ma anche con GPL, biogas da digestione
anaerobica e altri gas combustibili come appunto il gas da gassificazione). I
requisiti di pulizia del syngas in questo caso sono più stringenti rispetto ai
motori alternativi a combustione interna, per cui una delle aree più critiche è
ancora una volta rappresentata dalla sezione di depurazione del syngas.
All’aumentare della taglia, la ricerca si sta indirizzando verso soluzioni
circuitali della turbina a gas più complesse, nel tentativo di conseguire maggiori
rendimenti di conversione. Una delle soluzioni più studiate è rappresentata
dall’utilizzo di turbine a gas con iniezione di vapore (STIG, Steam Injected Gas
Turbine), nelle quali il recupero dell’energia termica dei gas di scarico avviene
ancora attraverso la produzione di vapore, il quale però non viene utilizzato in
un ciclo Rankine ma iniettato nella camera di combustione della turbina a gas,
con aumento della potenza prodotta e del rendimento. Tale soluzione sembra
quella più adatta per impianti di gassificazione a biomassa (BIG-STIG) di
potenza dell’ordine di 20-30 MWe.
Una volta adeguatamente deputato, il syngas prodotto dalla gassificazione
delle biomasse può essere efficacemente utilizzato per l’alimentazione delle
celle a combustibile, eventualmente integrate con microturbine a gas (i
cosiddetti impianti ibridi). In effetti, le celle a combustibile operanti ad alta
temperatura (Solid Oxide Fuel Cells, SOFC, e Molten Carbonate Fuels Cell,
MCFC) si prestano molto bene ad essere integrate con un impianto sottoposto
di turbina a gas nel quale evolvono i gas di scarico (a 700-1000°C) della cella
stessa. Solo nel caso delle celle MCFC, l’integrazione si realizza talvolta con
impianti a vapore. In alimentazione con gas naturale, simili impianti ibridi
possono raggiungere efficienze del 60-65% anche con modeste potenze (200-300
kWe) [96, 97]. Oltre al gas naturale, tali celle a combustibile possono anche
essere alimentate con combustibili alternativi quali metanolo, etanolo, DME,
biogas e syngas da gassificazione del carbone e delle biomasse [98-102] [103,
104]. Nel caso di impiego del syngas, le attività di ricerca si concentrano sulla
ottimizzazione della cella a combustibile e sulla ottimale integrazione
dell’intero impianto. Infatti, nel caso di impiego del syngas, all’interno della
cella (sia SOFC sia MCFC) cambiano notevolmente i flussi termici in quanto si
riduce la richiesta energetica per il reforming del combustibile (che in questo
caso è già una miscela di CO e H2 con poco metano) e aumenta la portata di
ossigeno richiesta con un minore fattore utilizzazione dell’aria. Inoltre, la
disponibilità di energia termica anche nella sezione di raffreddamento del
43
syngas (specie nei gassificatori a letto fluido e con depurazione a caldo) accresce
la necessità di una attenta integrazione termica fra le diverse sezioni [99, 100].
Le citate celle a combustibile ad alta temperatura accettano all’ingresso
combustibili di diverso tipo, mentre altre tipologie, come le celle ad acido
fosforico (PAFC), le celle alkaline (AFC) e le celle ad elettrolita polimerico
(PMFC) richiedono in alimentazione idrogeno puro, essendo peraltro il CO
dannoso per la cella stessa [96, 97]. Evidentemente, in questo caso,
l’alimentazione di queste celle mediante il syngas prodotto dalla gassificazione
delle biomasse (così come del carbone) richiede la preventiva produzione di
idrogeno.
Una delle più invitanti opzioni per il futuro è infatti, come noto, basata su un
largo impiego dell’idrogeno in sistemi di conversione dell’energia ad elevata
efficienza e bassissime emissioni inquinanti (come le citate celle a combustibile
e specifici cicli con combustione di idrogeno con ossigeno puro, per esempio).
L’idrogeno rappresenta un vettore energetico piuttosto che una fonte primaria
e, in uno scenario di lungo periodo, dovrebbe essere prodotto essenzialmente
da energia nucleare e da fonti rinnovabili. Tuttavia, in uno scenario di medio
termine, la produzione di idrogeno da processi di reforming del metano o da
gassificazione di carbone o biomasse, con conseguente separazione della CO2 e
la sua segregazione fuori dall’atmosfera, appare l’opzione più facilmente
percorribile.
In effetti, nel settore dei grandi impianti BGCC, la prospettiva di rimuovere la
CO2 dal syngas, previo processo di CO shift-conversion, con conseguente
produzione di idrogeno e riduzione delle emissioni di gas serra (che in questo
caso, vista l’origine delle biomasse, potrebbero addirittura divenire “negative”)
appare molto interessante. Ovviamente, la separazione della CO2 introduce
notevoli penalizzazioni sul rendimento globale, valutabili in circa 8-10 punti di
rendimento [105, 106]. Tuttavia, la produzione di idrogeno da biomasse viene
attivamente studiata perseguendo anche altre strade, fra le quali quelle ritenute
più interessanti sono basate sul trattamento diretto delle biomasse con acqua in
condizioni supercritiche (350-450°C e 250-500 bar) e sulla pirolisi veloce [107112].
Nonostante i vantaggi derivanti dallo sviluppo di un sistema energetico basato
su un largo impiego dell’idrogeno appaiano rilevanti, la sua implementazione
richiede un notevolissimo sforzo tecnologico, oltre che sul fronte delle
tecnologie di produzione, anche e soprattutto sul fronte delle infrastrutture
necessarie a trasportare l’idrogeno a lunga distanza ed a conservarlo per lunghi
periodi di tempo.
In quest’ottica, numerose attività di ricerca e sviluppo sono focalizzate sullo
studio di vettori energetici alternativi all’idrogeno come il metanolo, il
44
dimetiletere (DME), l’etanolo e i combustibili liquidi di sintesi (i prodotti
Fischer-Tropsch). L’impiego di questi vettori energetici può risultare
competitivo nei confronti dell’idrogeno per la generazione distribuita di energia
e per il settore dei trasporti in un’ottica di medio-breve periodo. Infatti, il
grande vantaggio di questi vettori energetici è rappresentato dal fatto che essi
possono essere prodotti a partire da una vasta gamma di combustibili primari
(gas naturale, carbone, biomasse, etc.) attraverso processi di gassificazione o di
reforming integrati con processi di sintesi chimica. Questi vettori energetici
possono anche essere maneggiati con facilità (rispetto all’idrogeno essi sono
infatti liquidi a temperatura ambiente e solo il DME deve essere portato in
pressione per poter liquefare a temperatura ambiente) ed alimentati a sistemi
energetici avanzati. Le caratteristiche chimico-fisiche di questi vettori energetici
sono molto simili a quelle dei principali combustibili convenzionali, essendo
peraltro privi di zolfo, metalli pesanti e altre impurità. Di converso, essi
presentano generalmente minori valori del potere calorifico.
In letteratura si ritrovano diversi studi aventi per oggetto la produzione di
questi combustibili da gassificazione o da pirolisi delle biomasse [113-121]. Le
soluzioni proposte sono spesso differenziate per quanto riguarda la
configurazione e la tecnologia della sezione di gassificatore (o di pirolisi), di
depurazione del syngas (a caldo o a freddo) e di sintesi chimica finale (sistemi
dedicati o di tipo once-trough). Dall’analisi di tali studi emerge la necessità di
una consistente attività di ricerca e sviluppo tecnologico prima
dell’affermazione di una simile filiera. In ogni caso, i risultati degli studi in
corso prospettano il raggiungimento di una soglia di convenienza entro
orizzonti temporali non immediati (25-20 anni), anche se fortemente dipendenti
dalle dinamiche dei mercati dei combustibili fossili.
45
2.4 I PROCESSI DI PIROLISI DELLE BIOMASSE
Un processo di pirolisi è costituito dall'insieme delle trasformazioni chimicofisiche attraverso le quali si ottiene la decomposizione termica delle biomasse (o
di altri combustibili primari come i rifiuti solidi urbani o il carbone) in assenza
di ossigeno. A seguito del processo di decomposizione si ottiene come prodotto
finale una miscela di prodotti solidi (il char, ovvero un prodotto a matrice
carboniosa con presenza di idrogeno e che include anche le ceneri del
combustibile primario), liquidi (l’olio di pirolisi, costituito fondamentalmente
da numerose specie organiche mischiate con acqua) e gassosi (il gas da pirolisi,
una miscela di CO, CO2, CH4, H2, etc.) , in proporzioni diverse a seconda delle
condizioni operative del processo. Il processo si sviluppa riscaldando le
biomasse fino a valori di temperatura che partono da circa 350-550°C per
arrivare in alcuni casi fino a circa 700°C. Poiché il processo di pirolisi avviene in
assenza di ossigeno, il riscaldamento delle biomasse si realizza fornendo calore
dall’esterno (in linea di principio tale calore può provenire da diverse fonti,
come quella solare, ma in pratica deriva sempre da processi di combustione
esterni al reattore di pirolisi alimentati da combustibili fossili convenzionali
oppure, meglio, da una parte degli stessi prodotti finali).
I prodotti del processo di pirolisi vengono utilizzati per la produzione di
energia e, come detto, del il sostentamento energetico dello stesso reattore
pirolitico. L’eterogeneità e la qualità dei prodotti ottenuti rappresenta un
notevole vincolo per un efficace sfruttamento energetico in sistemi ad elevata
efficienza. Infatti, a causa di queste problematiche, la tecnologia pirolitica viene
proposta ed utilizzata soprattutto per il trattamento di rifiuti di diversa natura,
per i quali l’efficienza di conversione energetica non è ne l’unico ne il principale
parametro di valutazione. Molto spesso, nei sistemi pirolitici commercializzati,
tutti i prodotti del processo vengono solitamente inviati a combustione e
l’energia termica recuperata dai gas combusti, al netto di quella utilizzata per il
sostentamento del reattore, viene utilizzata per la produzione di vapore di
processo o per l’azionamento di una turbina a vapore. I gas combusti, a valle
del processo di recupero termico vengono opportunamente trattati in una
sezione di depurazione (ai fini della rimozione del particolato e dei composti
acidi) prima dello scarico in atmosfera. In termini più generali, il prodotto
principale del processo di pirolisi è rappresentato dalla componente liquida la
quale, dopo un eventuale processo di trattamento, viene inviata alla sezione di
conversione energetica per la produzione di energia elettrica ed eventualmente
termica.
Uno dei parametri che maggiormente condizionano le prestazioni del processo
di pirolisi è la velocità di riscaldamento del combustibile. Il percorso di
sviluppo dei processi di pirolisi è iniziato con la cosiddetta pirolisi lenta
46
(caratterizzata da velocità di riscaldamento dell’ordine di 5-7°C/min), nella
quale i prodotti prevalenti sono la frazione solida (con il 20-40% in massa) e
liquida (con il 25-50%) mentre la frazione gassosa è minoritaria (20-30%). In
linea di massima, le sperimentazioni condotte da diversi gruppi di ricerca
hanno dimostrato che la frazione liquida e quella gassosa aumentano
all’aumentare della temperatura. Un’influenza notevole viene inoltre esercitata
anche dalle dimensioni delle biomasse alimentate e dalla stessa composizione
della biomassa. La produzione di elevati quantitativi di char non è desiderata ai
fini della successiva conversione in energia elettrica e/o termica, in quanto
difficilmente utilizzabile in sistemi ad elevata efficienza. Per questo motivo, la
attività di ricerca sono principalmente rivolte verso l’individuazione delle
condizioni operative che consentono di massimizzare la produzione delle
frazioni più pregiate. Aumentando la velocità di riscaldamento delle biomasse,
attraverso processi di pirolisi veloce (fast pyrolisis, realizzata con gradienti
anche fino a 300°C/min) si riesce ad incrementare la frazione liquida (fino ad
oltre il 60-65%), minimizzando quella solida (15-29%). Allo scopo di realizzare
la pirolisi veloce sono state sviluppate o semplicemente proposte diverse
tipologie di reattore, fra cui sistemi a letto fluido, a letto trascinato, operanti
sotto vuoto, etc.
La conversione in olio e in gas può essere ancora incrementata aumentando la
velocità di riscaldamento, fino a giungere a tempi di permanenza nel reattore di
pochi secondi, conseguibili con processi di flash pirolisi. Anche in questo
settore le ricerche si sono orientate verso lo sviluppo di differenti tipologie di
sistemi quali la pirolisi in atmosfera di idrogeno (Flash Hydro-Pyrolysis), la
pirolisi con fornitura di energia mediante collettori solari a concentrazione
(Solar Flash Pyrolysis) e la pirolisi sotto vuoto (Vacuum Flash Pyrolysis). Le
temperature operative sono dell’ordine di 400-600°C e, a seconda del sistema
utilizzato e della tipologia di biomassa alimentata, le rese in olio arrivano fino al
65-70%, mentre quelle in gas sono dell’ordine del 10-15%.
Nonostante i processi di flash pirolisi e di pirolisi veloce riescano ad
incrementare notevolmente la frazione di olio pirolitico, quest’ultimo risulta
poco stabile nel tempo e scarsamente miscibile con i combustibili liquidi
convenzionali, per cui, come meglio discusso nel seguito, non può essere
utilizzato tal quale nel settore dei trasporti, se non a prezzo di costosi
trattamenti. Una possibile alternativa viene fornita dagli sviluppi in atto nel
settore della pirolisi catalitica, dove, attraverso catalizzatori a base, per esempio,
di zeoliti, di allumina, di ferro e cromo, etc., introdotti all’interno del reattore
unitamente al combustibile, si riesce a produrre un olio di migliore qualità e che
non necessita di successivi trattamenti di affinamento.
47
La pirolisi veloce appare una delle tecnologie di potenziale interesse nel settore
dei processi di conversione termochimica delle biomasse. Tuttavia, il
raggiungimento di un livello di sufficiente maturità industriale e commerciale è
ancora ostacolato dalla eterogeneità dei prodotti del processo (un mix di
prodotti solidi, liquidi e gassosi) e dal loro modesto livello qualitativo. Le
attività di ricerca e sviluppo nel settore della piriolisi si concentrano pertanto
soprattutto sul fronte del miglioramento qualitativo dei prodotti, con interventi
sia sul processo sia sul trattamento a valle. Come detto, il principale prodotto di
questa tipologia di processo è rappresentato da una miscela liquida di bio-olio e
acqua, che costituisce fino al 70-80% in peso della biomassa iniziale. Il bio-olio è
in realtà una miscela di diverse specie chimiche che derivano dalla
condensazione dei composti gassosi liberatisi per decomposizione termica delle
biomasse. Ovviamente, la composizione del bio-olio differisce in misura
marcata da quella dei combustibili liquidi derivati dal petrolio [122].
Uno degli elementi caratteristici del bio-olio è la presenza di consistenti
percentuali di acqua, dell’ordine del 15-30%, derivanti soprattutto dall’umidità
iniziale delle biomasse. Tale presenza contribuisce notevolmente alla riduzione
del potere calorifico, anche se contribuisce a ridurre la viscosità del bio-olio,
intrisecamente maggiore di quella dei combustibili liquidi di origine fossile (con
la conseguente necessità di un riscaldamento per ridurne il valore). I
combustibili liquidi derivanti dai processi di pirolisi contengono inoltre
rilevanti quantitativi di ossigeno, dell’ordine del 35-40%, con una conseguente
ulteriore riduzione del potere calorifico. Inoltre la presenza di così elevati
quantitativi di ossigeno rende il bio-olio di fatto non miscibile con i combustibili
fossili convenzionali. La non miscibilità dell’olio pirolitico viene aggravata dal
fatto di presentare una ampia gamma di temperature di vaporizzazione.
Ancora, il bio-olio presenta una elevata concentrazione di sostanze acide, con
conseguente tendenza ad amplificare i fenomeni corrosivi, ed una notevole
instabilità chimica. Peraltro, anche le ceneri, sebbene presenti in concentrazioni
non superiori a quelle dei combustibili liquidi fossili, provocano problemi di
erosione e corrosione a causa della presenza di composti alcalini come sodio,
potassio e vanadio. In relazione a tali caratteristiche, un efficace utilizzo
dell’olio ai fini della produzione di energia richiede molto spesso un adeguato
pre-trattamento. Un gran numero di attività di ricerca sono attive proprio nel
settore del trattamento degli oli prodotti dai processi di pirolisi [122-124].
Fra i processi studiati vi è la idrodeossigenazione, attraverso la quale l’olio
reagisce in presenza di catalizzatori in un ambiente ricco di idrogeno (oppure di
CO) e in pressione. L’ossigeno viene rimosso sotto forma di acqua e di anidride
carbonica. Tale tipologia di processo, sebbene in grado potenzialmente di
eliminare quasi completamente l’ossigeno, richiede apparecchiature complesse
48
e presenta elevati costi operativi. In alternativa, la decomposizione del bio-olio
in idrocarburi più semplici, con formazione di acqua e anidride carbonica (e
quindi la riduzione del tenore di ossigeno) può essere ottenuta anche attraverso
più semplici processi di cracking catalitico. Tuttavia, le reazioni coinvolte in tale
processo conducono spesso alla formazione di eccessivi quantitativi di coke, ed
a combustibili di bassa qualità. Nonostante tale processo sia interessante per via
dei ridotti costi operativi, richiede ancora una notevole mole di attività di
ricerca nel settore dei catalizzatori.
Al fine di evitare costosi trattamenti chimici, sono anche allo studio processi di
emulsione con combustibili fossili convenzionali. Data la natura immiscibile del
bio-olio, in questo caso è infatti necessario utilizzare specifici surfatanti al fine
di garantire stabilità alla miscela. Visto l’interesse per l’idrogeno, un’altra strada
ampiamente investigata negli ultimi anni è il reforming del bio-olio con vapore
al fine di produrre questo importante vettore energetico. Anche in questo caso il
processo deve essere attentamente studiato e necessita di specifici catalizzatori
dal momento che il bio-olio presenta una spiccata tendenza alla formazione di
depositi carboniosi.
2.4.1 Produzione di energia
Il principale prodotto della pirolisi è l’olio, specie nella fast pirolisi. La frazione
gassosa e il char sono prodotti in minori quantitativi e comunque vengono
solitamente utilizzati per produrre l’energia termica richiesta dal reattore
pirolitico. L’olio pirolitico può sostituire egregiamente l’olio combustibile di
origine fossile, come confermato da numerosi esperimenti in caldaie, motori a
combustione interna e turbine a gas [125, 126]. I motori a combustione interna e
le turbine a gas appaiono di particolare interesse soprattutto perchè sono
disponibili unità anche di piccola potenza. Fatta salva la produzione di energia
termica per usi di riscaldamento, l’impiego in caldaie avviene in cocombustione con carbone in impianti di grande taglia.
Dalle numerose sperimentazioni condotte sui motori a combustione interna a
ciclo Diesel condotte fino ad oggi è emerso che il sistema non appare ancora
pienamente affidabile. Uno degli aspetti più critici è rappresentato dalla bassa
qualità dell’olio pirolitico che necessita infatti prima dell’impiego in motori
Diesel di una accurata depurazione dalle sostanze solide, di una miglioramento
delle caratteristiche di stabilità e del potere lubrificante. La sperimentazione ha
evidenziato che le diverse caratteristiche dell’olio pirolitico rispetto ai
combustibili fossili impongono una rivisitazione dei materiali utilizzati per
molti componenti del sistema di iniezione, così come per le guarnizioni e le
tenute della pompa del combustibile. La maggiore viscosità richiede un
preventivo riscaldamento dell’olio (anche se possibilmente non oltre 50-60°C),
49
così come il minore potere calorifico impone una riprogettazione del sistema di
alimentazione. La presenza di acqua, se da un lato aumenta il ritardo alla
accensione, dall’altro contribuisce a ridurre la produzione di NOx. Al fine di
migliorare le caratteristiche dell’olio pirolitico sono anche state sperimentate
tecniche di emulsione con gasolio e di miscelazione con combustibili ad elevato
numero di ottano. Le diverse attività di ricerca attualmente in corso nel settore
dei motori Diesel sono pertanto rivolte allo sviluppo di più affidabili sistemi di
iniezione ed al miglioramento della combustione dell’olio, soprattutto al fine di
evitare la formazione di depositi sulle parti più calde del motore. Altre attività
sono poi in corso nel settore dell’impiego delle emulsioni e delle miscele con
combustibili convenzionali [125].
Anche l’impiego dell’olio pirolitico in turbine a gas è stata ed è ancora oggi
oggetto di numerose attività di ricerca e sviluppo in sistemi sia di piccola taglia
(microturbine a gas da 70 kWe) sia di media taglia (2,5 MWe). Il lavoro svolto
fino ad oggi ha dimostrato che l’olio pirolitico può essere utilizzato dai sistemi
di combustione delle turbine a gas. Anche in questo caso, al fine di ridurre la
viscosità è richiesto il preriscaldamento dell’olio (fino a circa 70-90°C).
Analogamente è importante ridurre a monte la concentrazione di sostanze
solide per prevenire danni alle palettature delle turbine. Anche i materiali
devono essere adeguatamente valutati a causa della maggiore acidità dell’olio
rispetto ai combustibili fossili convenzionali. Ovviamente, le diverse
caratteristiche del combustibile richiedono una rivisitazione della camera di
combustione, soprattutto per quanto riguarda gli ugelli. L’avviamento e la
fermata dell’impianto deve essere effettuato utilizzando combustibili
convenzionali.
Anche la tecnologia delle turbine a gas alimentate con olio pirolitico non si può
ancora ritenere matura dal punto di vista industriale e richiede ulteriori attività
di ricerca e sviluppo. Queste ultime sono fondamentalmente concentrate sulla
dimostrazione della fattibilità a lungo termine, su turbine di taglia maggiore e
operanti in ciclo combinato, ma soprattutto su microturbine a gas.
La co-combustione dell’olio pirolitico con carbone e con gas naturale in caldaie
di diversa potenza è stata dimostrata con successo e richiede solo poche
modifiche al sistema di alimentazione. Ovviamente, rimane da dimostrare la
fattibilità tecnica ed economica sul lungo periodo di questa opzione.
Fra le altre attività di ricerca tese a valutare le possibilità di impiego dell’olio
pirolitico ai fini della produzione di energia deve essere menzionato l’utilizzo in
motori Stirling di piccola potenza (da 5 a 10 kWe). L’esperienza maturata fino
ad oggi è molto limitata e molto rimane ancora da fare. Le principali aree di
investigazione sono ancora una volta incentrate sulla pompa e sugli iniettori.
50
Nel complesso, le maggiori attività di ricerca nel settore dell’utilizzo dell’olio
pirolitico ai fini della produzione di energia appaiono concentrate soprattutto
sul miglioramento del livello qualitativo dell’olio. In particolare, sono
necessarie bassissime concentrazioni di solidi, stabilità a lungo termine,
riduzione della viscosità e concentrazioni di acqua non troppo elevate [125,
126].
51
3
I BIOCARBURANTI
3.1
LO SCENARIO DEI CONSUMI ENERGETICI NELL’UNIONE
EUROPEA: L’IMPORTANZA DEI BIOCARBURANTI
I cambiamenti climatici, l'aumento del prezzo del petrolio e i timori per le
forniture future hanno determinato un crescente interesse verso l’utilizzo delle
biomasse a fini energetici.
A livello europeo le importazioni di combustibili fossili coprono circa l’80% dei
consumi energetici, ma si prevede che queste raggiungano il 94% nel 2030. Nel
2006 sono state consumate 603 milioni di tonnellate di petrolio di cui il 47% nel
settore dei trasporti su strada e l’8% nel trasporto aereo (Figura 3.1) [127].
L’industria dei carburanti utilizza quasi esclusivamente combustibili fossili
(circa il 98%) e, a differenza di quanto previsto per gli altri settori, il consumo di
petrolio per i trasporti avrà il tasso di crescita più elevato nei prossimi anni.
Questo dato, unito alla rapidità con la quale le risorse energetiche fossili si
stanno esaurendo, sta portando ad un continuo aumento del prezzo del greggio
e ad una conseguente diminuzione della sicurezza energetica.
Figura 3.1 - Uso dei prodotti petroliferi per settore (fonte: Eurostat 2007).
Inoltre, il settore trasporti è l’unico che negli ultimi 15 anni ha dato luogo ad un
incremento significativo delle emissioni di CO2, il più importante gas serra in
quanto responsabile del 95% delle emissioni dovute alle attività umane.
Ci si attende che questo trend continui nei prossimi anni, rendendo quindi
difficile il raggiungimento degli obiettivi fissati dal protocollo di Kyoto.
In sintesi, le prospettive di un incremento nell’uso di carburanti nel settore
trasporti porteranno sia ad un aumento della dipendenza dalle importazioni di
petrolio (minore sicurezza energetica) che ad un incremento delle emissioni di
CO2.
52
In questo scenario i biocarburanti possono dare un notevole contributo [127].
Essendo prodotti a partire da biomasse, una fonte di energia rinnovabile, i
biocarburanti rappresentano un sostituto diretto dei carburanti tradizionali –
benzina e gasolio - e possono essere integrati rapidamente nei sistemi di
distribuzione. Nonostante il costo dei biocarburanti sia ancora più elevato di
quello dei combustibili fossili, il loro utilizzo è in aumento in tutto il mondo.
Grazie alla spinta di misure politiche e strategiche, la produzione mondiale di
biocarburanti è oggi stimata in oltre 35 miliardi di litri.
Nella strategia dell’UE i biocarburanti dovrebbero contribuire al miglioramento
della sicurezza energetica nel medio e lungo termine e, contemporaneamente,
costituire una parte importante del pacchetto di misure per la riduzione delle
emissioni di CO2 in accordo col protocollo di Kyoto. A questo proposito la
Figura 3.2 mostra come le emissioni di CO2 potrebbero ridursi grazie allo
sviluppo del settore dei biocarburanti da qui al 2030.
Figura 3.2 – Emissioni di CO2(MT), UE25, 1990-2030.
Allo stato attuale la produzione di biocarburanti su larga scala non è sostenibile
per due motivi:
• la limitata disponibilità di materie prime;
• gli alti costi di produzione.
A breve e medio termine i biocarburanti necessiteranno ancora di aiuti pubblici
(es. sgravi fiscali). Al fine di andare verso un pieno sfruttamento dei benefici dei
biocarburanti e renderli socialmente ed economicamente sostenibili nel lungo
termine, le nuove tecnologie di produzione stanno andando verso la
differenziazione delle materie prime utilizzabili e la riduzione dei costi di
produzione.
Nel presente capitolo, dopo aver brevemente ricordato quali sono i processi e le
materie prime attualmente in uso nella produzione dei biocarburanti
(principalmente biodiesel e bioetanolo), ci si occuperà in modo sintetico di
indicare in quali direzioni sta attualmente volgendo la propria attenzione la
ricerca scientifica [128].
53
3.1.1
I Biocarburanti: Biodiesel, bioetanolo, oli vegetali
I biocarburanti attualmente in uso sono: il biodiesel, il bioetanolo e gli oli
vegetali. Solo i primi due sono usati nel settore trasporti, in quanto compatibili
coi motori diesel e benzina delle autovetture, gli ultimi invece vengono usati
principalmente per la produzione di energia elettrica al posto di oli combustibili
di origine fossile (§ par. 2.3 e par. 3.2). In Europa i biocarburanti vengono
generalmente venduti in miscela con i comuni combustibili in misura del 5%.
Miscele con percentuali maggiori di biocarburanti vengono usate talvolta nel
settore del trasporto pubblico (autobus e mezzi pubblici).
Il biodiesel deriva dalla transesterificazione degli oli vegetali ottenuti
principalmente da colture oleaginose (es. colza, soia e girasole). Il bioetanolo,
invece, viene prodotto tramite processi di fermentazione e distillazione di
materiali zuccherini o amidacei.
3.1.1.1 Vantaggi ambientali
I biocarburanti vengono definiti “CO2-neutri”, infatti essendo prodotti da
materie prime di origine vegetale, danno luogo ad un ciclo chiuso della CO2.
Sebbene possano esserci emissioni di CO2 associate alla loro produzione dovute
all’utilizzo di fertilizzanti, trattori, trasporto e trattamento, tuttavia, queste sono
inferiori a quelle prodotte dai tradizionali combustibili fossili. 1 kg di gasolio
sostituito con il biodiesel permette di risparmiare 2,5 kg di CO2 Nel caso di oli
vegetali la riduzione indicativa di emissioni di CO2 è compresa fra l’ 80 ed il
96%.
I biocarburanti possiedono un’elevata biodegradabilità. Il biodiesel viene
facilmente attaccato dai microorganismi (99% in 21 giorni). Al contrario, il
gasolio di origine fossile risulta in generale tossico per i microorganismi in
quanto, oltre a numerosi alcani a catena lunga (C10 - C20) privi di ossigeno,
contiene anche idrocarburi ciclici alifatici, idrocarburi policiclici aromatici e
alchilbenzeni. Il bioetanolo è rapidamente biodegradato se viene disperso
nell’ambiente.
Il biodiesel da luogo ad una minore fumosità dei gas di scarico nei motori diesel
(-70 %) e conseguentemente ad una minore emissione di particolato (-20/60 %).
Inoltre, non contiene sostanze, quali gli idrocarburi aromatici (benzene, toluene
ed omologhi) o policiclici aromatici (PAH), estremamente pericolose per la
salute umana, in quanto aventi effetti citotossici, cancerogeni, mutageni e
respiratori cronici. Per quanto riguarda il bioetanolo è opinione corrente che
l’emissione di particolato e di idrocarburi volatili sia significativamente ridotta.
Tuttavia, anche con miscele a bassa percentuale di etanolo, gli idrocarburi
volatili possono aumentare a causa della maggiore pressione di vapore del
biocarburante. Le emissioni di alcuni degli inquinanti più tossici come il
54
benzene, l’1,3-butadiene, il toluene e lo xilolo diminuiscono utilizzando etanolo.
Il biodiesel non contiene metalli nocivi quali Cd, Pb e V, riduce i pericoli nelle
fasi di trasporto e stoccaggio grazie alla minore infiammabilità (punto di
infiammabilità >100°C), ha un elevato potere lubrificante che diminuisce
l’usura del motore.
L'ossigeno contenuto nei biocarburanti (mediamente il 10% nel biodiesel contro
il 2% nel gasolio) favorisce la combustione e diminuisce le emissioni di CO (35% per il biodiesel, -20-40% per il bioetanolo). Il monossido di carbonio è
indice di cattiva combustione in quanto viene prodotto in carenza di ossigeno.
Maggiore è il quantitativo emesso, maggiori sono i problemi nella combustione.
Il biodiesel in miscela al 20% emette mediamente il 15% in meno di CO. La
miscela E10 (benzina contenente il 10% di etanolo) riduce il CO del 25%.
I biocarburanti hanno un contenuto di zolfo praticamente nullo, il che azzera le
emissioni di anidride solforosa (SO2) e migliora l’efficienza del sistema di
controllo catalitico delle emissioni.
55
3.2 OLI VEGETALI
Gli oli vegetali estratti da specie oleaginose (es. colza e girasole) sono, a tutti gli
effetti e senza ulteriori modifiche, dei combustibili e, come tali, possono trovare
un impiego nel settore energetico analogamente a quanto avviene per i
combustibili liquidi di origine fossile.
L’uso di oli vegetali come carburante per motori diesel è un concetto vecchio
quanto l’invenzione dello stesso motore diesel. All’Esposizione Universale di
Parigi del 1900 Rudolf Diesel presentò ufficialmente un motore di sua
invenzione che utilizzava olio di arachidi come carburante [129]. Da allora il
motore denominato ‘diesel’ in onore al suo inventore è stato sviluppato sino ai
giorni nostri, anche se alimentato dal gasolio di origine petrolifera. Il motivo
per il quale l’uso degli oli vegetali tal quali per l’autotrazione è, allo stato
attuale, escluso è dovuto alla loro elevata viscosità cinematica (Tabella 3.1). Un
loro utilizzo in questo settore richiederebbe, infatti, importanti modifiche nella
progettazione dei motori.
Esistono quattro metodi per ridurre la viscosità degli oli vegetali ed evitare
problemi operazionali del motore: i. miscelazione col gasolio; ii. pirolisi; iii.
microemulsificazione; iv. transesterificazione [130]. Tra tutti i metodi il più
utilizzato è il quarto che porta alla formazione di miscele di esteri alchilici degli
acidi grassi, più noti col nome di biodiesel (§ par. 3.3)
Tabella 3.1 - Confronto tra le proprietà degli oli vegetali e del gasolio [129].
Proprietà
Unità di
Oli combustibili
Gasolio
misura
vegetali
p.c.i.*
kcal/kg
9.000-9.500
10.200
Flashpoint
°C
230-290
60
Numero di
cetano
Densità
-
30-40
54
kg/m3
0,915
0,839
Viscosità a 38ºC
mm2/s
27-53
2,7
* Il potere calorifico inferiore (p.c.i.) è la quantità di calore che si sviluppa con la combustione
completa di 1 kg di biomassa, considerando l’acqua allo stato di vapore a 100 °C, ossia
considerando la sola parte di calore effettivamente utilizzabile. Il p.c.i. si misura in Kcal/Kg.
Le attuali applicazioni energetiche degli oli vegetali sono relative all’impiego in
motori diesel per la produzione di energia elettrica come è già stato descritto
del capitolo 2 della presente relazione.
56
3.3 IL BIODIESEL
Il biodiesel è costituito da una miscela di esteri alchilici di acidi grassi. Le
specifiche tecniche del biodiesel sono molto simili a quelle del gasolio per
autotrazione come si evince dal confronto fra le loro proprietà (Tabella 3.2).
Tabella 3.2 - Confronto tra le proprietà come carburanti del biodiesel e del gasolio [113].
Proprietà
Unità di misura Biodiesel Gasolio
p.c.i.
kcal/kg
8.900
10.200
Flashpoint
°C
85-178
63
2
Viscosità a 38°C
mm /s
4,78
3,12
Numero di cetano 48-56
54
Densità
kg/m3
885
839
Le specifiche internazionali standard per il biodiesel sono fissate nella norma
ISO 14214, negli Stati Uniti dalla norma ASTM D6751 e nell’UE dalla EN 14214.
Il biodiesel può essere usato puro o in miscela. Il Biodiesel puro (BD100 in
Europa o B100 negli Stati Uniti) può essere utilizzato, dopo aver apportato delle
opportune modifiche, nei motori diesel. Se invece utilizzato in miscela al 5% col
gasolio (BD5) non è necessario apportare alcuna modifica [127].
3.3.1
Processi industriali per la produzione di biodiesel
Il
biodiesel
è
prodotto
industrialmente
mediante
reazione
di
transesterificazione a partire da trigliceridi e alcoli in presenza di un
catalizzatore. Il metanolo è l'alcol più economico sul mercato e perciò il più
usato [131]. In realtà si possono utilizzare anche altri alcoli a catena più lunga,
sia lineare che ramificata, (etanolo, iso-propanolo, butanolo, ecc.) i quali
permettono di ottenere un biocarburante con migliori proprietà alle basse
temperature [131].
Nella Figura 3.3 sono riportate le varie fasi coinvolte nella produzione del
biodiesel. Come verrà approfondito in seguito, i processi produttivi attuali
utilizzano come materie prime sia oli provenienti dalla spremitura di semi
oleaginosi che oli o grassi di scarto. A valle del processo di transesterificazione
si ottiene il biodiesel che può essere usato come carburante per autotrazione o
combustibile negli impianti di riscaldamento. Il sottoprodotto principale è la
glicerina (soluzione acquosa di glicerolo) la quale, dopo purificazione, può
essere usata per scopi farmaceutici e cosmetici. In realtà, i grandi quantitativi di
glicerina ottenuti dalla produzione del biodiesel hanno fatto crollare il suo
prezzo di mercato. Attualmente, sono in fase di studio diversi processi chimici
innovativi atti alla trasformazione del glicerolo in nuovi prodotti di interesse
industriale [127].
57
Figura 3.3 - Schema di produzione del Biodiesel.
Scendendo più nel dettaglio della reazione di transesterificazione, questa
avviene grazie all’azione del metanolo (metanolisi) in presenza di un
catalizzatore basico o acido (Figura 3.4a).
O
O
CH2O C
R1
Catalyst
O
CHO C
R2
3 CH3OH
+
O
R2C OCH3
CHOH
+
O
O
CH2O C
CH2OH
R1C OCH3
CH2OH
R3C OCH3
R3
(a)
RCOOH
+
-
+
RCOO Na
NaOH
Soap
Fatty acid
(b)
H2SO4
RCOOH
+
CH3OH
Fatty acid Methanol
RCOOCH3
+ H2O
FAME
(c)
Figura 3.4 - (a) Metanolisi di un generico trigliceride per la produzione di esteri metilici degli
acidi grassi (FAME); (b) reazione indesiderata di formazione di saponi; (c) reazione di
esterificazione degli acidi grassi liberi mediante catalisi acida.
Il rapporto molare fra olio e metanolo dipende dal tipo di catalizzatore
utilizzato. La stechiometria della reazione richiede 3 moli di alcol per 1 mole di
trigliceride, tuttavia per spostare l’equilibrio verso destra si utilizza spesso un
eccesso di alcol. E’ stato trovato che il rapporto ottimale metanolo:olio di soia,
58
nella transesterificazione catalizzata da basi è pari a 6:1 [132]. In caso di catalisi
acida è consigliato usare un rapporto 30:1 (metanolo:olio) [133].
La catalisi basica (generalmente NaOH, KOH o CH3ONa) è la più
comunemente utilizzata nella produzione del biodiesel. Rispetto a quella acida
(H2SO4, HCl), porta ad una maggiore conversione in condizioni più blande ed
in minor tempo; necessita di una minore quantità di alcol così da richiedere
l’utilizzo di reattori più piccoli [134].
Dalla reazione si ottiene una miscela di esteri e diversi sottoprodotti. Oltre alla
già citata glicerina, gli altri sottoprodotti sono i mono- e digliceridi ottenuti
dall'alcolisi parziale dei trigliceridi. Questi sottoprodotti devono essere separati
e rimandati al reattore. Sono presenti inoltre: acidi grassi liberi, acqua ed il
catalizzatore alcalino in eccesso. Per ottenere un biodiesel che rispetti le
specifiche imposte dagli standard internazionali sono necessari complicati
processi di purificazione.
Quando l'acidità della materia prima è elevata, si ha la formazione di sapone
(Figura 3.4b), il quale essendo una sostanza tensioattiva, dà luogo alla
formazione di schiume ed emulsioni che complicano il processo di separazione
tra gli esteri ed il glicerolo. In questa situazione si preferisce utilizzare come
catalizzatore un acido (generalmente H2SO4) (Figura 3.4a e 3.4c). Questo
processo necessita però di temperature, pressioni e tempi di reazione maggiori
rispetto al processo alcalino. A causa dell’uso di catalizzatori omogenei acidi o
basici gli impianti necessitano di reattori ed accessori resistenti a questi agenti
aggressivi; per di più sono necessari elevati standard di sicurezza.
La presenza di questi svantaggi giustifica, come sarà riportato più avanti,
l'elevato interesse scientifico per la ricerca di metodi alternativi per la
produzione del biodiesel.
3.3.2
Materie prime utilizzate per la produzione di biodiesel
3.3.2.1 Oli Vegetali
Le materie prime utilizzate per la produzione di biodiesel variano a seconda
della disponibilità locale e del prezzo sul mercato mondiale. Ad esempio, l’olio
di semi di soia è usato soprattutto negli Stati Uniti, mentre in Europa si usano
gli oli di semi di colza, di semi di girasole e l’olio di palma. Il prezzo di
quest’ultimo è tuttora concorrenziale nonostante sia un prodotto di
importazione proveniente dai paesi tropicali (es. Malesia).
La principale differenza tra questi oli è data dalla loro differente composizione
in acidi grassi i quali determinano le proprietà della miscela finale di biodiesel.
59
La Tabella 3.2 riporta la composizione dei più comuni oli usati per la
produzione di biodiesel. Gli acidi grassi più abbondanti sono l’acido palmitico,
stearico, oleico e linoleico.
Tabella 3.2 - Composizione in acidi grassi dei più comuni oli/grassi utilizzabili per la
produzione di biodiesel.
Olio/grasso
Acido
Acido
Acido
Acido
Problemi
Palmitico
Stearico
Oleico
Linoleico
(C16:0)
(C18:0)
(C18:1)
(C18:2)
Olio di soia
8
4
28
53
Stabilità
all’ossidazione
Olio di
42
5
41
10
Basse
palma
temperature
Olio di colza
4
1
60
20
Olio di
6
4
28
61
Stabilità
girasole
all’ossidazione
Sego
26
18
37
10
Basse
temperature
Olio di
12.8
7.3
44.8
34
Jatropha
Le principali proprietà fisiche e chimiche di un olio/grasso dipendono dalla
struttura chimica degli acidi grassi dei quali sono costituiti (Figura 3.5). A
questo riguardo, un problema frequente del biodiesel è la stabilità
all’ossidazione. L’ossidazione dei composti insaturi procede a diverse velocità a
seconda del numero e della posizione dei doppi legami [135]. Negli oli di semi
di colza, girasole e soia l’elevato contenuto di acido linoleico conferisce bassa
stabilità all’ossidazione a causa della presenza di due doppi legami.
Palmitic acid (C16:0)
O
C OH
Stearic acid (C18:0)
O
C OH
Oleic acid (C18:1)
O
C OH
Linoleic acid (C18:2)
O
C OH
Figura 3.5 - Struttura chimica dei più comuni acidi grassi che compongono oli e grassi.
60
L’olio di palma ed i grassi animali (sego) contengono percentuali elevate di
acidi grassi saturi (acido palmitico e stearico) che conferiscono una maggiore
stabilità all’ossidazione alla miscela finale di biodiesel. D’altro canto, questi
stessi acidi grassi sono responsabili delle scarse proprietà alle basse
temperature, quali l’elevato punto di intorbidimento (cloud point) e di
scorrimento (pour point), del biodiesel [136]. Ciò può costituire un problema
nelle regioni del centro e nord Europa nei periodi invernali.
In realtà il problema principale è che l’uso dei soli oli vegetali nella produzione
dei biocarburanti non consente di soddisfare gli obiettivi dell’UE a causa dei
costi elevati di produzione e della limitata disponibilità delle materie prime.
Inoltre, il fatto che si utilizzino colture alimentari (mais, soia) sta portando ad
un aumento dei prezzi dei prodotti alimentari e ad una conseguente non
accettazione dei biocarburanti da parte dell’opinione pubblica. Per questi
motivi, in accordo con quanto già riportato nei paragrafi precedenti, si sta
cercando di diversificare le fonti di approvvigionamento di materie prime per la
produzione del biodiesel. Tra queste, alcune sono già utilizzate nei processi
produttivi (es. oli/grassi di scarto, oli non commestibili), per altre invece si sta
ancora operando a livello di ricerca (microalghe).
3.3.2.2 Oli e grassi alimentari di scarto
Gli oli e grassi di scarto costituiscono un’importante alternativa per la
produzione di biodiesel. Fra gli oli vegetali esausti di origine alimentare che
possono essere recuperati per la valorizzazione energetica, vanno annoverati
quelli provenienti dalle lavorazioni industriali (da forni e friggitrici) e dalle
utenze domestiche (oli di frittura e oli per la conservazione degli alimenti). Essi
offrono il vantaggio di essere poco costosi inoltre il loro utilizzo apporta
benefici ambientali risolvendo il problema dello smaltimento. Si ha infatti una
riduzione della produzione di rifiuti e un alleggerimento del carico inquinante
in ingresso negli impianti di depurazione delle acque reflue civili.
Nye et al. furono i primi ad utilizzare oli di frittura per produrre metil- etil- e
butil-esteri [137]. Il problema principale associato al loro utilizzo è la necessità
di un trattamento preliminare per rendere l’olio o il grasso adatto al processo di
transesterificazione. L’olio di scarto purificato costa circa la metà dell’olio
vegetale vergine, quindi l’uso di questi materiali ha un senso dal punto di vista
economico. E’stato dimostrato che la transesterificazione può servire come
mezzo di purificazione tanto che il biodiesel prodotto risulta qualitativamente
uguale a quello ottenuto da oli vergini e mostra un miglioramento per quanto
riguarda l’emissione di gas [134]. Particolare attenzione è stata rivolta agli scarti
dei ristoranti [138], agli oli di scarto non commestibili [139] e ai grassi animali
61
quali il sego [140]. Negli Stati Uniti, i ristoranti producono circa 13.6 milioni di
litri di olio di scarto all'anno [134] mentre, ad esempio, solo in Italia si
consumano annualmente 39 miliardi di litri di carburanti (gasolio e benzina). Si
deduce che la produzione di biodiesel da oli/grassi di scarto non potrebbe
sostituire totalmente il gasolio di origine fossile ma sicuramente potrebbe
fornire un valido contributo.
3.3.2.3 Oli non commestibili
Un’altra via per ridurre i costi di produzione del biodiesel sembra essere quella
di sostituire gli oli vegetali con oli non commestibili. Esistono diverse piante che
producono oli che contengono sostanze nocive per l’uomo, in alcuni queste
sostanze possono essere rimosse mediante opportuni metodi, tuttavia la
rimozione dei componenti tossici non è necessaria nel caso in cui queste specie
siano utilizzate nella produzione di biodiesel. Sono state considerate alcune
specie oleaginose come la Jatropha (euphorbiaceae): una pianta che cresce in
terreni aridi, i cui semi producono 40-60% (m/m) di olio e che non può essere
usata per scopi alimentari perché il suo olio contiene sostanze tossiche [141,
142]. In India si è deciso di promuovere fortemente l'impiego dei biocarburanti
puntando decisamente sulla Jatropha [134].
Gli esteri etilici dell’olio di ricino in Brasile sono considerati una valida
alternativa ai combustibili tradizionali [143]. L’olio di ricino viene ricavato dai
semi della Ricinus communis i quali contengono l’acido ricinoleico, che ha
un’azione purgativa intensa e irritante e la ricina, una tossina pericolosa che
può provocare gravi intossicazioni.
3.3.2.4 Microalghe
Le microalghe sono microrganismi fotosintetici che convertono luce solare,
acqua e biossido di carbonio in biomassa. Possono crescere sia in ambiente
marino che in acqua dolce. Alcune microalghe sono estremamente ricche in olio
tanto da poter essere usate per produrre biodiesel con le tecnologie attuali.
L’olio contenuto in alcune microalghe supera l’80% del peso secco della
biomassa [144, 145]. Nella Tabella 3.3 si osserva che il contenuto di olio in
media è compreso tra il 20-50% di massa secca.
62
Tabella 3.3 - Contenuto in oli di alcune microalghe
Microalga
Contenuto in oli
(% massa secca)
Botryococcus braunii
25–75
Chlorella sp.
28–32
Crypthecodinium cohnii
20
Cylindrotheca sp.
16–37
Dunaliella primolecta
23
Isochrysis sp.
25–33
Monallanthus salina
>20
Nannochloris sp.
20–35
Nannochloropsis sp.
31–68
Neochloris oleoabundans
35–54
Nitzschia sp.
45–47
Phaeodactylum tricornutum
20–30
Schizochytrium sp.
50–77
Tetraselmis sueica
15–23
L’importanza dell’uso di microalghe per la produzione di olio rispetto alle
colture oleaginose tradizionali si evince dai dati riportati in Tabella 3.4. In essa
sono riportate le superfici di territorio necessarie alle diverse colture per
soddisfare il 50% delle esigenze nel settore dei trasporti negli USA tenendo
conto della resa in olio per ettaro [144]. Negli Stati Uniti, al fine di sostituire
completamente i combustibili derivati dal petrolio con biodiesel (530 milioni di
m3/anno), occorrerebbero 111 milioni di ettari coltivati con specie oleaginose
corrispondenti a circa il 60% della superficie dedicata all’agricoltura [146]. Nel
caso delle microalghe invece tale superficie sarebbe decisamente inferiore.
Tabella 3.4 – Confronto tra diverse fonti per la produzione di biodiesel
Colture
Resa in olio (L/ha)
Aree necessarie
(Mha)a
Mais
172
1540
Soia
446
594
Canola
1190
223
Jatropha
1892
140
Cocco
2689
99
Palma
5950
45
Microalghe b
136,900
2
c
Microalghe
58,700
4.5
a Per soddisfare il 50% delle esigenze nel settore
biomassa. c 30% olio nella biomassa.
% di aree esistenti
dedicate alle
colture negli USAa
846
326
122
77
54
24
1.1
2.5
dei trasporti negli USA. b 70% olio nella
63
Ulteriori incoraggiamenti alla produzione di microalghe arrivano dal fatto che il
terreno più adatto alla loro crescita avrebbe caratteristiche di tipo desertico a
forte irraggiamento solare, quindi con basso valore economico per qualunque
altro utilizzo. Inoltre si potrebbero utilizzare gli scarti agricoli e l'eccesso di CO2
prodotto dalle industrie per velocizzare la crescita delle alghe stesse.
Esistono due metodi di produzione di microalghe su vasta scala: i raceway ponds
e i fotobioreattori tubolari (Figura 3.6).
(a)
(b)
Figura 3.6 – Impianti di produzione di microalghe. (a) Vista dall’alto di una vasca raceway.(b)
Fotobioreattore tubolare con tubi paralleli orizzontali.
I “raceway ponds”o “vasche raceway” sono laghetti artificiali aperti costituiti
da canali nei quali vengono coltivate le alghe. In ogni canale un braccio rotante
garantisce il flusso d’acqua in modo continuo ed impedisce la sedimentazione
[144].
I fotobioreattori sono sistemi chiusi costituiti da tubi solari paralleli orizzontali
che sfruttano la luce per produrre alghe. Il flusso d’acqua all’interno del
fotobioreattore è garantito da particolari pompe che evitano un’agitazione
turbolenta. A differenza dei sistemi aperti forniscono un prodotto
incontaminato da agenti esterni, non si hanno variazioni di salinità in seguito
alle piogge né perdite di ingenti quantitativi d’acqua in seguito ad
evaporazione. Richiedono però una periodica pulizia e sterilizzazione e una
zona di degasaggio per allontanare l’ossigeno ed i gas prodotti dal brodo algale
[144].
Studi sull’utilizzo di vasche raceway sono stati finanziati dal Dipartimento
dell’Energia degli USA. Questo metodo è sicuramente il più economico, anche
se dà luogo all’ottenimento di basse rese di biomassa. In Italia il Dipartimento
di Biotecnologie Agrarie dell’Università di Firenze ha attivato linee di ricerche
sulla produzione di combustibili da microalghe mediante fotobioreattori.
64
Particolare attenzione è stata rivolta all’efficienza fotosintetica e ai sistemi di
coltura [147].
Figura 3.7 - Schema del processo di sintesi del biodiesel da oli estratti da microalghe.
Nella Figura 3.7 viene mostrato lo schema di un impianto per la produzione di
oli da microalghe. Il processo consta di due fasi: la produzione di biomasse da
alghe e l’estrazione dell’olio dalla biomassa. La produzione di biomassa da
microalghe è generalmente più costosa di quella ottenuta da colture vegetali.
Infatti necessita di luce, biossido di carbonio, sostanze nutrienti inorganiche
quali nitrati, fosfati, ferro e alcuni elementi in tracce. Spesso viene usata acqua
di mare integrata con nitrati e fosfati per la produzione di microalghe marine.
Circa la metà del peso secco della biomassa algale è costituita da carbonio che in
genere deriva dalla CO2; pertanto la produzione di 100 tonnellate di biomassa
algale fissa circa 183 tonnellate di CO2. La CO2 deve essere fornita alle alghe in
modo continuo durante il giorno perciò diventa importante il collegamento con
centrali che producono energia dalla combustione di fonti fossili. La biomassa
rimasta dopo l’estrazione dell’olio può essere usata per l’alimentazione animale
(alto contenuto proteico) e per la produzione di fertilizzanti. Ma la maggior
parte della biomassa residua subisce processi di digestione anaerobica per la
produzione di biogas che viene utilizzato in parte come fonte di energia nello
stesso processo di produzione delle biomasse algali e in parte venduta alla rete
di distribuzione dell’energia elettrica [148, 149].
Con un semplice impianto di coltivazione di microalghe in acqua costituito da:
i. vasche di coltivazione delle alghe esposte al sole, ii. impianto di spremitura a
freddo delle alghe, iii. impianto di macinatura degli scarti da spremitura delle
alghe - si possono effettuare contemporaneamente i seguenti processi [146]:
• produzione di olio per biocarburanti;
• produzione di fertilizzanti naturali;
• trattamento acque inquinate.
65
Due impianti pilota con caratteristiche simili sono stati implementati in Olanda
a cura del Kluyvercentre [103]. Con un impianto del genere, localizzato per
esempio allo sbocco delle acque reflue in mare, sarebbe possibile trattare acque
di scarto da impianti industriali (metalli pesanti), acque di scarto da coltivazioni
agricole a concimazione chimica (i composti azotati velocizzano la crescita delle
alghe) ed acque di scarto da impianti di allevamento bestiame (es. deiezioni di
maiali e pollame). Le stesse alghe, arrivate al termine del processo di crescita,
verrebbero spremute in loco e come risultato si avrebbe olio e biomassa di
scarto che, opportunamente triturata, si potrebbe usare come fertilizzante
naturale.
In Nord Carolina è stato costruito un impianto da 140 milioni di dollari, in cui si
fanno crescere le alghe in enormi fermentatori, si estrae l'olio, lo si purifica e lo
si vende per essere usato in molte produzioni, compreso il biodiesel. Le sue
proteine, gli acidi grassi ω 3, ed altri componenti possono essere usati per
produrre sostanze nutrizionali [104].
La produzione di biodiesel da microalghe è tecnicamente possibile però alcuni
aspetti vanno migliorati quali:
• l’economicità del processo;
• l’aumento della produzione di olio da alghe ricorrendo all’ingegneria
genetica;
• l’innovazione tecnologica dei fotobioreattori;
• sviluppo di metodi più efficaci per il recupero della biomassa e per la
estrazione degli oli.
Spesso i risultati di laboratorio non sono applicabili a produzioni su vasta scala
soprattutto per quanto riguarda la crescita delle alghe. Inoltre i singoli impianti
produttivi vanno dimensionati e studiati a seconda della zona geografica
tenendo conto dell’irraggiamento solare.
In un documento del "National Renewable Energy Laboratory" (NREL)
americano sono stati riportati alcuni inconvenienti relativi all’utilizzo delle
microalghe come la necessità di fare gorgogliare la CO2 nelle vasche ed il
problema di riscaldare le vasche di coltura nel deserto durante la notte [150].
Comunque la produzione di olio e quindi di biodiesel è ottima e si ottiene una
quantità decisamente superiore rispetto alle comuni specie oleaginose (Tabella
3.4). Anche se per il momento la produzione di biodiesel da microalghe è
piuttosto bassa, è ipotizzabile che questa acquisterà una grandissima
importanza nel prossimo futuro.
3.3.2.5 Etanolo ed altri alcoli
Il metanolo è l’alcol più usato nel processo di transesterificazione
principalmente per ragioni di natura economica, sebbene ci siano delle
66
eccezioni in alcuni Paesi. In Brasile, ad esempio, dove l’etanolo è disponibile in
grandi quantità, il biodiesel è costituito dagli esteri etilici degli acidi grassi
(FAEE) [130].
L’etanolo proviene in gran parte, come sarà descritto nei paragrafi seguenti, da
processi di fermentazione alcoolica di sostanze zuccherine o amidacee. Per cui,
essendo prodotto da biomasse, quindi da fonti rinnovabili, viene attualmente
denominato ‘bioetanolo’ per distinguerlo da quello prodotto dall'idratazione
dell’etilene, proveniente a sua volta dal cracking di idrocarburi di origine
fossile. Per contro, il metanolo viene prodotto principalmente da sorgenti di
origine fossile, quindi l’utilizzo di bioetanolo per la transesterificazione dei
trigliceridi, permetterebbe di produrre un biodiesel interamente da fonti
rinnovabili [127].
Altri vantaggi nell’utilizzo dell’etanolo rispetto al metanolo derivano dalla sua
minore tossicità che rende la produzione del biodiesel meno pericolosa per gli
addetti ai lavori e dal fatto che abbia un atomo di carbonio in più che aumenta
leggermente il potere calorifico ed il numero di cetano del combustibile
prodotto [151].
L’uso di altri alcoli C3-C5 lineari o ramificati, come quelli presenti nell’olio di
flemma - miscela di alcoli pesanti ottenuto dai residui della distillazione alcolica
- potrebbe contribuire ad abbassare ulteriormente il prezzo del biodiesel nonché
a trovare un utilizzo energetico per questo materiale di scarto. Dal punto di
vista del processo produttivo recenti studi hanno mostrato che tali materie
prime possono essere più facilmente utilizzate se si utilizzano processi
enzimatici [152]. Inoltre, il biodiesel così ottenuto ha migliori prestazioni alle
basse temperature [136].
3.3.3 Metodi innovativi di produzione del biodiesel
Come già riportato nel paragrafo 3.3.1, i metodi produttivi attuali, basati sulla
catalisi omogenea (basica o acida), presentano diversi svantaggi che vanno in
parte a ridurre i benefici che si hanno dall’impiego dei biocarburanti. Per questo
motivo, la ricerca scientifica sta effettuando grandi sforzi per mettere a punto
processi innovativi che migliorino l’efficienza energetica del processo di
transesterificazione. I processi in studio utilizzano catalizzatori eterogenei, che
possono essere quindi recuperati e riutilizzati per diversi cicli produttivi.
Inoltre, essi consentono di operare in processi continui con reattori PFR o CSTR.
Fondamentalmente due tipi di catalizzatori eterogenei sono in fase di studio:
solidi inorganici (basici o acidi) e biocatalizzatori (lipasi immobilizzate).
67
3.3.3.1 Solidi Inorganici
In letteratura è riportato un gran numero di solidi inorganici, quali: zeoliti,
argille, ossidi e resine a scambio ionico, per la produzione di biodiesel. Alcuni
risultati riguardanti il loro utilizzo sono riportati in Tabella 3.3.
Tabella 3.3 – Catalizzatori eterogenei (solidi inorganici) nella produzione di biodiesel.
Catalizzatore
Olio/grasso
Alcol
Condizioni
Resa %(r)
di reazione
Conversione % (c)
CaO
Olio di soia
MeOH
T=65°C
93 (r)
Ca(OH)2
12
0
CaCO3
CaO-Air
10
CaO
Olio di frittura
99
Mordenite (NaM)
Olio di girasole
MeOH
T=60°C
95 (r)
Zeolite beta (Naβ)
Zeolite X (NaX)
Olio di guscio di MeOH
T=60°C
>93(r)
LiNO3/Al2O3
palma
NaNO3/Al2O3
Olio di noce di
cocco
KNO3/Al2O3
94
Ca(NO3)2/Al2O3
Mg(NO3)2/Al2O3
bassa
MeOH
Ossido di zirconio Tricaprilina
T=120°C
84 (c)
EtOH
solfato (SZ)
p=6,8atm
45
2nBuOH
SO4 /ZrO2
37
WO3/ZrO2
Acido oleico
MeOH
T=75°C
65 (c)
Rif.
[153]
[154]
[155]
[156]
[157]
LiNO3/CaO
Olio di colza
MeOH
T=60°C
90(c)
soprattutto
LiNO3/CaO
[158]
NaNO3/CaO
KNO3/CaO
LiNO3/MgO
La2O3 (10%)-MCM-41,
Na2O-SiO2
CaO
CaO 14%w su SBA-15
Olio di soia
MeOH
T=70°C
[7]
Olio girasole
Olio di ricino
Olio di girasole
+ 10%w di acido
palmitico
MeOH
MeOH
MeOH
T=333K
81 (c)
76
67
95 (c)
65
80 (c)
SAC-13 (Nafion/SiO2)
T=60°C,
p ambiente
[159]
[160]
I catalizzatori eterogenei basici più usati sono gli ossidi, gli idrossidi e i
carbonati dei metalli alcalini e alcalino terrosi (Na2CO3, NaHCO3, K2CO3,
KHCO3, K2O, CaCO3, CaO, BaO, Ba(OH)2). Tra questi il CaCO3 sembra essere
68
molto promettente visto che risulta facilmente reperibile e di basso costo. La
transesterificazione dell’olio di soia con etanolo in presenza di carbonato di
calcio a 260°C ha fornito conversioni superiori al 95% dopo 18 min di reazione.
E’ stato osservato che questo catalizzatore non subisce riduzione della sua
attività neanche dopo alcune settimane di utilizzo [161]. Anche l’idrossido di
bario si è mostrato particolarmente efficace dando rese del 96% dopo 1h di
reazione a 65°C con un rapporto molare olio di colza:MeOH=1:6 [162].
L’utilizzo di CaO con olio di soia e metanolo ha fornito rese elevate in esteri
metilici dopo 1h di reazione [153]. L’utilizzo di oli di frittura esausti nelle stesse
condizioni operative ha prodotto rese elevate (99% dopo 2h). In questo caso
però in presenza di acidi grassi liberi una parte del CaO ha dato luogo alla
formazione di saponi, con conseguente perdita di catalizzatore e un
peggioramento nella separazione dei prodotti. Infine, si è osservato che l’attività
catalitica decresce lungo la serie: CaO > Ca(OH)2 >> CaCO3 [153].
L’utilizzo di CaO o MgO come supporti per LiNO3, NaNO3, KNO3 ha permesso
di ottenere dei catalizzatori eterogenei che nelle reazioni di metanolisi dell’olio
di colza portano a conversioni >90% dopo 3h di reazione a 60°C [158].
In un recentissimo studio, l’utilizzo di zeoliti (mordenite, zeolite beta, o zeolite
X) nella metanolisi dell’olio di girasole a 60°C - in presenza o meno di bentonite
di sodio come legante - ha fornito rese superiori al 90%. La zeolite X ha
manifestato maggiore attività catalitica rispetto alle altre zeoliti [154].
L’utilizzo di Al2O3 come supporto per sali dei metalli alcalini (LiNO3, NaNO3,
KNO3) e alcalino-terrosi (Ca(NO3)2) ha portato a rese > 93% in esteri metilici. La
resa è invece inferiore (circa 10%) se si usa un catalizzatore a base di
Mg(NO3)2/Al2O3 [155].
Va sottolineato il fatto che tutti i catalizzatori precedenti (zeoliti, ossidi di
zirconio, ossidi di calcio e di alluminio, nitrati dei metalli alcalini, ecc.) devono
essere attivati prima dell’utilizzo mediante calcinazione ad elevate temperature
(>400°C). Un’ eccezione è rappresentata dalla resina Nafion® supportata su
silice (SAC-13) che non necessita di attivazione e dopo 30h di reazione fornisce
conversioni dell’80% [160].
E’ stato studiato il comportamento di alcuni catalizzatori a base di ossidi misti
(ZrO2-SiO2, KOH/ZrO2-SiO2, Co2O3-SiO2, Mo2O5-SiO2, Na2O-SiO2, La2O3-MCM41, MgO-MCM-41, BaO-MCM-41, CaO e MgO) nella reazione di metanolisi
dell’olio di soia. Le reazioni sono state condotte con un rapporto ponderale pari
a 4.5 : 6.0 : 0.3 (metanolo : olio di soia : catalizzatore) a 70°C per 8 ore. I risultati
migliori sono stati ottenuti con La2O3 (10%)-MCM-41, Na2O-SiO2 e CaO, con
conversioni rispettivamente pari a 81%, 76% e 67% [163].
I catalizzatori acidi più usati per le reazioni di alcolisi sono resine a scambio
cationico contenenti preferibilmente gruppi solfonici liberi [164]. E’ stato
69
dimostrato che con questi catalizzatori in condizioni blande di reazione si
ottengono bassi valori di conversione. Sono stati utilizzati a questo scopo anche
gli orto-fosfati di alluminio, gallio o ferro che però danno buoni risultati solo ad
alte temperature e dopo alcuni giorni di reazione [165].
3.3.3.2 Lipasi immobilizzate
Gli enzimi, catalizzatori delle reazioni chimiche negli organismi viventi,
operano in condizioni blande di temperatura e pressione con un’elevata
selettività. Il loro utilizzo come catalizzatori biotecnologici offre una valida
alternativa ai processi catalitici tradizionali [166, 167].
Le lipasi (triacilglicerol acilidrolasi; EC 3.1.1.3) sono enzimi (Figura 3.5) che in
natura catalizzano l’idrolisi dei trigliceridi. Esse conservano la loro attività
catalitica anche in mezzi non convenzionali (a basso contenuto d’acqua) come
solventi organici, liquidi ionici, sistemi solvent-free e fluidi supercritici.
L’importanza dell’utilizzo di lipasi nei mezzi non convenzionali è dovuta alla
possibilità che questo enzima ha di catalizzare la reazione inversa all’idrolisi
(l’esterificazione) nonché la reazione di transesterificazione (alcolisi) coinvolta
nella produzione del biodiesel [168, 169].
I vantaggi della biocatalisi rispetto alla catalisi omogenea ed eterogenea
tradizionale sono dovuti alla possibilità di operare con elevate attività
catalitiche in condizioni blande (pressione atmosferica e temperature prossime
a quella ambiente). Si ha quindi un processo più efficiente dal punto di vista del
risparmio energetico ed un impianto meno costoso. Il processo enzimatico,
inoltre, non porta alla formazione di sottoprodotti. Infine, in presenza di
materie prime di scarto con elevati valori di acidità, le lipasi sono in grado di
catalizzare anche la reazione di esterificazione diretta tra gli acidi grassi liberi e
l’alcol [170].
La produzione di biodiesel mediante biocatalisi fu descritta per la prima volta
da Mittlebach nel 1991 [171]. Da allora diversi gruppi di ricerca sparsi per il
mondo hanno sperimentato questa biotecnologia per la produzione del
biodiesel. La Figura 3.8 mostra il numero di pubblicazioni scientifiche per anno,
dal 1996 al 2007 in questo campo che, come si vede, sta avendo una crescita
esponenziale.
70
Figura 3.8 – Numero di pubblicazioni scientifiche per anno riguardanti la produzione di
biodiesel da biocatalisi.
Tabella 3.4 - Produzione di biodiesel a partire da diverse materie prime (trigliceridi e alcoli),
utilizzando differenti lipasi in processi continui o discontinui.
Lipasi da
Olio/
Alcol
Tipo
di Conversione (c) o Rif.
Grasso
processo
resa (r) (mol% o
m%)
Pseudomonas
Etanolo
Batch
82 (r)
[171]
fluorescens
Pseudomonas
[172]
Metanolo
Batch a tre >90
fluorescens
stadi
Olio di girasole
Metanolo
Candida antarctica
Etanolo
Etanolo
Metanolo
Mucor miehei
Porcine pancreatic
Rhizomucor miehei
Metanolo
Pseudomonas
cepacia
Candida antarctica
Metanolo
Olio di soia
Metanolo –
Etanolo
Metanolo
Metanolo
Thermomyces
lanuginosa
Thermomyces
lanuginosa
Pseudomonas
cepacia
Rhizopus oryzae
Candida antarctica
Metanolo
Candida antarctica
Metanolo
Metanolo
Olio di soia
raffinato
Miscela di oli di
soia e colza
Reattore a
Membrana
Batch
Batch
Batch a tre
stadi
Batch
97 (c)
[173]
83 (r)
81 (r)
> 80 (c)
[174]
[175]
[176]
~ 60 (r)
[177]
Batch a tre
stadi
Batch
continuo
Batch a tre
stadi
Batch
97 (r)
[178]
80-90 (r)
[179]
94 (r)
[180]
67 (r)
[181]
Batch
Batch a tre
stadi
Batch a tre
stadi
80 (r)
93.8 (c)
[182]
[183]
98.4 (c)
[184]
71
Trioleina
Olio di guscio di
palma e di noce
di cocco
Olio di ricino
Olio di semi di
cotone
Olio di crusca di
riso
Olio di Jatropha
Metanolo
Candida antarctica
Miscela di
alcoli
superiori
Pseudomonas
cepacia
Etanolo
1-butanolo
Etanolo
Alcoli
primari
e
secondari
Metanolo
Metanolo
Metanolo
Etanolo
Olio alimentare
di scarto
Metanolo
Sego
Alcoli
primari
Metanolo
Grasso
ristorazione
Lardo
da
Metanolo
Etanolo
Metanolo
3 reattori a
letto
impaccato
Batch
93 (r)
[185]
100 (c)
[152]
Pseudomonas
cepacia
Pseudomonas
cepacia
Rhizomucor miehei
Candida antarctica
Batch
72 (c)
[186]
Batch
40 (c)
Batch
Batch
98 (c)
91.5
(metanolo)
[143]
[187]
Rhizomucor miehei
Batch
> 90 (c)
[188]
Cryptococcus spp.
S-2
Candida antarctica
Chromobacterium
viscoum
Candida antarctica
Batch
80.2 (r)
[189]
Batch
Batch
98 (c)
92 (5)
[190]
[141]
Reattore a
letto
impaccato
Batch
90 (5)
[139]
>90 (r)
[140]
Batch
98 (r)
[138]
Batch
Reattore a
letto
impaccato
Batch
96 (c)
> 96 (r)
[191]
[192]
58 (c)
[191]
Mucor Miehei
Pseudomonas
cepacia
Candida antarctica
Burkholderia
cepacia
Candida antarctica
La ricerca in questo settore ha attraversato quattro fasi. Nelle prime due i
ricercatori hanno effettuato accurati ‘screening’ al fine di verificare la fattibilità
del processo a partire da diverse fonti di trigliceridi e alcoli.
Contemporaneamente sono state ricercate le lipasi microbiche più adatte a
catalizzare la reazione di transesterificazione dei trigliceridi. Successivamente si
è passati dallo studio dei processi discontinui a quello dei processi in continuo,
solitamente più convenienti dal punto di vista economico. Un elenco sintetico
dei principali risultati ottenuti da questi studi è riportato in Tabella 3.4.
Recenti studi hanno mostrato che le lipasi prodotte da ceppi batterici di
Pseudomonas (Pseudomonas cepacia e Pseudomonas fluorescens) sono le più adatte a
72
catalizzare la reazione di alcolisi dei trigliceridi, in quanto questi enzimi
sembrano essere i più resistenti all’azione inibitoria degli alcoli (principalmente
metanolo) [142, 181, 193]. Il motivo di queste migliori perfomance catalitiche va
ricercato nella particolare struttura di questi enzimi (Figura 3.9), anche se allo
stato attuale, nessuno studio è riuscito a razionalizzare i risultati sperimentali.
Figura 3.9 - Struttura della lipasi proveniente dalla Pseudomonas cepacia.
Nella quarta fase, attualmente in corso, i ricercatori stanno studiando l’effetto di
diversi supporti per l’immobilizzazione delle lipasi. I primi studi hanno
utilizzato preparazioni enzimatiche liofilizzate sospese nel mezzo di reazione.
Infatti, la sintesi enzimatica del biodiesel avviene in un mezzo non acquoso
costituito da trigliceridi e alcool (solvent free). In questo mezzo l’enzima non è
solubile e l’aggiunta di piccole quantità di acqua, al fine di aumentare l’attività
catalitica, favorisce l’aggregazione dell’enzima con conseguente perdita di
efficienza catalitica. La dispersione dell’enzima su materiali porosi aventi
elevate aree superficiali permette ad un maggior numero di molecole di enzima
di funzionare in modo efficace. Molti studi sono stati effettuati utilizzando la
lipasi B della Candida antarctica immobilizzata su una resina acrilica e
commercializzata dalla ‘Novozymes’ col nome Novozym 435 [139, 140, 143, 173,
178, 183-185, 187, 190, 194-197]. E’ stata ampiamente usata per lo stesso scopo
anche la lipasi da Mucor miehei (Lipozyme IM60 - Novozymes) immobilizzata
su una resina macroporosa a scambio anionico [140, 143, 171, 174, 198, 199].
Studi attualmente in corso sono indirizzati alla ricerca di nuovi supporti in
grado di influenzare positivamente l’attività e la stabilità delle lipasi. Infatti, il
supporto utilizzato per l’immobilizzazione deve presentare determinate
caratteristiche in termini di proprietà meccaniche (tendenza alla rottura,
compressibilità), morfologiche (dimensioni delle particelle, diametro dei pori,
area superficiale specifica) e chimiche (interazioni coi substrati, ripartizione
dell’acqua, tipo di interazione con gli enzimi).
Sono stati descritti molti metodi per immobilizzare le lipasi su supporti solidi
[200, 201]. Tra questi, il migliore sembra essere quello basato
sull’intrappolamento dell’enzima su matrici idrofobiche sol-gel [202] oppure
73
sull’adsorbimento su supporti idrofobici come il polipropilene [203]. Altri
metodi sviluppati sono quelli basati sull’immobilizzazione su aerogel di silice
[204], su celite [142], su idrotalciti [205] e diversi tipi di zeoliti [205, 206].
La Tabella 3.5 riporta un elenco non esaustivo di alcuni lavori scientifici
concernenti l’uso di lipasi immobilizzate nella produzione di biodiesel.
Tabella 3.5 - Lipasi immobilizzate utilizzate per la produzione di biodiesel
Lipasi
Nome
Produttore
Supporto
Commerciale
SP435
Novo
Resina acrilica
Candida antarctica
Novozym 435
Novo
Resina acrilica
Chromobacterium
viscoum
Porcine pancreatic
Pseudomonas cepacia
Rif.
[140]
[184]
-
Asahi
Celite-545
[141]
PS
Sigma
Amano
Resina a scambio ionico
Matrice sol-gel
[175]
[181]
PS-D
Amano
Terra di diatomee
[152]
Mucor Miehei
AK
AK
AK
Lipozyme IM60
Amano
Amano
Amano
Novo
[193]
[207]
[172]
[140]
Thermomyces lanuginosa
Lipozyme TL IM
Novo
Accurel MP1004
Porous kaolinite
Polipropilene EP100
Resina a scambio
anionico
Resina acrilica
Pseudomonas fluorescens
[179]
74
3.4 IL BIOETANOLO
Il bioetanolo è un combustibile derivato da materie prime rinnovabili, quali
barbabietola o canna da zucchero, mais, frumento, paglia e legno. Esso presenta
delle caratteristiche chimico-fisiche che lo rendono un carburante affine alla
benzina, alla quale può essere miscelato o, mediante opportuni accorgimenti
tecnici, sostituto nell’alimentazione degli autoveicoli. Nella Tabella 3.6 sono
poste in evidenza le principali caratteristiche energetiche del bioetanolo in
confronto a quelle della benzina.
Tabella 3.6 - Confronto tra le proprietà del bioetanolo e della benzina [115, 116].
Parametri
Unità di misura
Bioetanolo
Benzina
p.c.i.
Flashpoint
Temperatura
ebollizione
di
kcal/kg
°C
°C ad 1 atm
6.500
13
78
10.500
21
105
In Brasile, negli Stati Uniti e in Svezia, per citare solo i principali paesi,
circolano da anni auto flexfuel, che possono essere utilizzate, virtualmente, con
qualunque miscela di etanolo e benzina. L’utilizzo del bioetanolo nei motori a
benzina ha diverse importanti motivazioni [208].
Innanzitutto possiede una forte valenza ambientale in quanto riduce
l’emissione di gas serra in percentuali che variano dal 25% (etanolo da mais) al
90% (etanolo da canna da zucchero).
Una produzione significativa di etanolo potrebbe inoltre contribuire, a ridurre
la dipendenza dalle importazioni petrolifere. Il prezzo europeo dell’etanolo è
ancora più alto di quello della benzina. Tuttavia è prevedibile che il prezzo
dell’etanolo sia destinato a scendere con il progressivo affinarsi dei processi
produttivi, mentre quello dei carburanti fossili sia in continua crescita.
Nel contesto europeo, il principale fattore limitante alla produzione di etanolo è
la ridotta disponibilità di terra per la coltivazione di biomasse convertibili. I
processi produttivi oggi possibili su scala industriale mettono, di fatto, in
competizione la produzione di biocarburanti con quella tradizionale finalizzata
all’alimentazione umana e animale. In Europa ad esempio, al fine di garantire,
la disponibilità di una miscela benzina/etanolo di tipo brasiliano (E22)
occorrerebbe dedicare circa il 50% della produzione cerealicola alla produzione
di etanolo, a cui si devono aggiungere le superfici lasciate libere dalla riforma
dello zucchero e quelle coltivabili ma attualmente non utilizzate [209].
Oggi tutti i nuovi veicoli prodotti in Europa sono compatibili con l’E5. È
possibile, mediante opportune modifiche, raggiungere una compatibilità fino
all’E10 [127]. Miscele contenenti anche piccole percentuali di etanolo producono
un incremento della tensione di vapore della benzina e richiedono quindi un
75
diverso tipo di serbatoio in grado di evitare perdite di carburante. Questa
modifica è certamente applicabile ai veicoli nuovi, ma non al parco circolante.
La soluzione tecnica più semplice al problema è l’utilizzo dell’etanolo sotto
forma di ETBE (ethyl tert-butyl ether), un additivo della benzina ottenuto da
etanolo e isobutilene (Figura 3.10). La normativa europea vigente sulle benzine
consente una quantità massima di ETBE nella misura del 15%, che equivale alla
presenza di circa il 7% di etanolo nella benzina. Le miscele che contengono
percentuali elevate di etanolo richiedono invece maggiori modifiche dei motori
[127].
3.4.1
Processi di produzione di bioetanolo
Il bioetanolo (etanolo o alcool etilico) è un liquido limpido e incolore ottenuto
mediante un processo di fermentazione di carboidrati semplici (glucosio,
saccarosio, mannosio) o di polisaccaridi (amido, cellulosa, emicellulosa). La
Figura 3.10 mostra lo schema di processo di produzione del bioetanolo e
dell’ETBE a partire da diverse biomasse.
Figura 3.10 - Processo di produzione del bioetanolo e dell’ETBE da diverse biomasse.
3.4.1.1 Materie prime
Secondo la loro natura, le materie prime possono essere classificate in tre
tipologie distinte:
• Materiali zuccherini: sostanze ricche di saccarosio come la canna da
zucchero, la barbabietola, il sorgo zuccherino, ecc.
76
• Materiali amidacei: sostanze ricche di amido come il grano, il mais,
l'orzo, il sorgo da granella e la patata.
• Materiali lignocellulosici: sostanze ricche di cellulosa come la paglia, lo
stocco di mais, gli scarti legnosi, ecc.
Per quanto riguarda le coltivazioni ad hoc, quelle più sperimentate e diffuse
sono la canna da zucchero, il grano ed il mais. Ci sono poi altre colture, quali il
sorgo zuccherino, il topinambur ed altre, che rimangono ancora in fase
sperimentale.
La quantità di etanolo che si può ricavare con le tecnologie standard per ettaro
di coltura sono riportate in Tabella 3.7
Tabella 3.7 - Quantità di etanolo ottenibile per ettaro di coltura mediante tecnologie standard
[210]
Coltura
t onn. etanolo/ha all’anno
Canna da zucchero
7
Mais
3
Barbabietola da zucchero
4
Patata
3
3.4.1.2 Bioetanolo da materiali zuccherini
Il bioetanolo può essere prodotto da una gran varietà di carboidrati di formula
(CH2O)n. Dal punto di vista tecnologico il processo prevede l’estrazione degli
zuccheri da barbabietola o canna da zucchero, la loro fermentazione e la
distillazione dell’etanolo.
La reazione coinvolge l’idrolisi enzimatica del saccarosio ad opera dell’enzima
invertasi presente nel lievito Saccharomyces cerevisiae con formazione di glucosio
e fruttosio:
C12H22O11 + H2O → C6H12O6 + C6H12O6
Successivamente l’enzima zymasi presente nel lievito trasforma il glucosio ed il
fruttosio in etanolo [211].
C6H12O6 → 2C2H5OH + 2CO2
La fermentazione viene effettuata in bioreattori riproducendo le condizioni
ideali per favorire il metabolismo anaerobico: temperatura tra i 5 e 25°C e pH
tra 4,8 e 5,0 [212]. In seguito alla distillazione si ottiene etanolo al 95% in peso
con un contenuto residuo di acqua del 5%.
Sono stati effettuati diversi studi per trovare un valido sostituto del lievito
Saccharomyces cerevisiae. Alcuni lieviti, come Schizosaccharomyces pombe,
77
presentano il vantaggio di tollerare pressioni osmotiche elevate (alta quantità di
sali) e alto contenuto di solidi [213, 214]. Un processo di fermentazione che
utilizza questo tipo di lievito è stato già brevettato [215]. Tra i batteri, il più
promettente è il microrganismo Zymomonas Mobilis, che dà una resa elevata di
etanolo (fino al 97%) anche se, la gamma di substrati che può fermentare è
ristretta a glucosio, fruttosio e saccarosio [216]. Altri svantaggi derivanti
dall'uso di questo batterio nella fermentazione della canna da zucchero è la
formazione del polisaccaride a base di fruttosio (levan gum), che aumenta la
viscosità del brodo di fermentazione, e di sorbitolo (ottenuto dalla riduzione del
fruttosio) che diminuisce l'efficienza della conversione del saccarosio in etanolo
[217].
3.4.1.3 Bioetanolo da materiali amidacei
L'amido è un polisaccaride complesso (Figura 3.11) composto da due polimeri:
l'amilosio (che ne costituisce circa il 20%) e l’amilopectina (circa l'80%). In
entrambi i casi si tratta di polimeri del glucosio che si differenziano l'uno
dall'altro per la struttura. L'amilosio è un polimero lineare che tende ad
avvolgersi ad elica, in cui le unità di glucosio sono legate tra loro con legami
glicosidici α (1→4). Una macromolecola di amilosio può contenere sino a 1000
residui di glucosio. L'amilopectina è invece un polimero ramificato che presenta
catene di base simili a quelle dell'amilosio ma che si dispongono a formare una
struttura ramificata. Ogni 24-30 unità di glucosio, infatti, si innestano catene
laterali attraverso legami α (1→6).
78
Figura 3.11 - Confronto fra la struttura dell’amido e quella della cellulosa.
Quando si utilizza un cereale amidaceo come materia prima per produrre
bioetanolo, il processo inizia con la selezione e macinatura dei semi, poi si ha la
conversione degli amidi in zuccheri fermentabili ad opera dell’enzima α-amilasi
ottenuto da batteri termoresistenti come il Bacillus licheniformis [218]. Il processo
viene condotto a 60°C e la resa in zuccheri fermentabili è dell’80%. Dopo
l’idrolisi enzimatica si effettuano nell’ordine: la fermentazione, la distillazione e
la disidratazione per ottenere il bioetanolo anidro. Il mais (60-70% di amido) è
la materia prima principale per la produzione industriale del bioetanolo a
livello mondiale.
Il principale sottoprodotto del trattamento dei materiali amidacei è costituito da
residui ricchi di olio, proteine e fibre noti come DDGs (Dried Distiller’s Grain
with Soluble) che sono destinati alla preparazione di mangimi zootecnici [218].
3.4.1.4 Bioetanolo da materiali lignocellulosici
I materiali lignocellulosici sono costituiti principalmente da cellulosa,
emicellulosa e lignina. Soltanto la cellulosa e l’emicellulosa sono costituite da
zuccheri fermentabili e quindi possono essere usate per produrre bioetanolo. Le
lignocellulose vengono sottoposte a processi di separazione della lignina dalla
cellulosa ed emicellulosa (es. steam explosion), idrolisi della cellulosa ed
79
emicellulosa e fermentazione degli zuccheri così ottenuti a bioetanolo (Figura
3.12) [219-222].
Figura 3.12 - Produzione di bioetanolo da lignocellulosa.
La cellulosa è un polimero organico costituito esclusivamente da unità di
glucosio anidro legate insieme da legami β (1→4) in una gigantesca catena
lineare (Figura 3.11). L'emicellulosa è un polisaccaride a basso peso molecolare
di composizione irregolare (Figura 3.13), scarsamente solubile in acqua,
strettamente associato alla cellulosa dalla quale può essere estratta. A differenza
della cellulosa, le emicellulose sono costituite sia da esosi (mannosio, glucosio,
galattosio) che da pentosi (xilosio, arabinosio). Hanno una struttura ramificata e
non fibrosa. Attualmente si conoscono tre tipi di emicellulose: i. gli xilani
(tegumento dei chicchi dei cereali, crusca); ii. i galattani/arabinolattani; iii. I4/5
mannani/glucomannani [211].
Figura 3.13 - Struttura dell’emicellulosa
80
Cellulosa ed emicellulosa sono i costituenti delle fibre vegetali, sostanze
commestibili di origine vegetale che di norma non vengono idrolizzate dagli
enzimi secreti dall'apparato digerente umano. Il processo di produzione di
bioetanolo da cellulosa ed emicellulosa prevede prima la loro idrolisi ad opera
di funghi o batteri, poi gli zuccheri prodotti vengono fatti fermentare mediante
lieviti o altri microbi [223].
I processi industriali attuali fanno costare il bioetanolo da cellulosa tre volte
quello ottenuto da canna da zucchero [218]. Il costo non è dovuto alla materia
prima ma al suo processo di trasformazione in bioetanolo.
Uno dei punti critici di questo processo è la separazione fisica di cellulosa ed
emicellulosa dalla lignina. Ciò può essere effettuato mediante:
• trattamenti chimico-fisici (steam explosion) con vapore saturo a 180-290°C
e 0,69-4,85MPa (Figura 3.14) [224, 225],
• trattamenti chimici con acidi [226],
• trattamenti meccanici con sistemi di presse,
• trattamenti biologici con funghi [227].
Figura 3.14 - Schema di produzione di bioetanolo da cereali o paglia dopo pre-trattamento con
steam-explosion.
In seguito al pretrattamento è opportuno effettuare una purificazione per
eliminare tutte quelle sostanze - come acido acetico, acido formico,
cinnamaldeide, p-idrossibenzaldeide, furfurolo - che possono interferire nelle
fasi successive. Anche in questo caso si possono usare metodi fisici, chimici o
biologici a seconda degli interferenti che si vuole eliminare [218].
81
A questo punto si procede con l’idrolisi dell’emicellulosa e della cellulosa per
ottenere la formazione degli zuccheri fermentabili (pentosi ed esosi) [219, 222].
I metodi più comuni impiegati possono essere divisi in due gruppi [211]:
• idrolisi acida (acidi concentrati o diluiti);
• idrolisi enzimatica.
Nell’idrolisi acida, il pre-trattamento e l’idrolisi possono essere eseguiti in un
solo passaggio. Ci sono due tipi di idrolisi acida, una con acido concentrato
l’altra con acido diluito.
Nel primo processo l’alimentazione, formata da cellulosa ed emicellulosa,
preventivamente essiccata ad un’umidità del 10%, viene decristallizzata
aggiungendo acido solforico al 70%-77%. Si ha la rottura dei legami idrogeno
presenti nella struttura cristallina ordinata delle catene cellulosiche ad opera di
un acido concentrato ottenendo una sostanza amorfa. Successivamente si opera
la diluizione dell’acido con acqua sino ad una concentrazione del 20%-30%,
quindi si esegue un riscaldamento per circa un’ora che provoca il rilascio degli
zuccheri. Il gel ottenuto viene pressato per separare la soluzione di acido e
zuccheri dal residuo solido, il quale viene sottoposto ad ulteriore idrolisi.
Quindi, si separa la lignina e si ottiene una nuova soluzione di acido e zuccheri
che verrà mescolata alla precedente. La soluzione viene sottoposta a
distillazione per separare gli acidi dagli zuccheri. L’acido viene concentrato in
un evaporatore a triplo effetto, mentre gli zuccheri, principalmente xilosio e
glucosio, sono convertiti in etanolo tramite processi fermentativi ottenendo una
conversione prossima all’85% e 92% rispettivamente [226].
Nel secondo processo l’idrolisi con acido diluito avviene in due stadi per
idrolizzare selettivamente l’emicellulosa e la cellulosa. Nel primo stadio si
lavora in condizioni operative blande (acido solforico 0,7% , temperatura di
190°C, tempo di permanenza di 3 minuti) per massimizzare la resa nel
trattamento dell’emicellulosa che è più facilmente idrolizzabile. Nel secondo
stadio avviene l’idrolisi della cellulosa, che è più resistente (con acido solforico
0,4%, temperatura di 215°C, tempo di permanenza di 3 minuti).
Le soluzioni zuccherine ottenute dal processo di idrolisi sono inviate ai
fermentatori per la produzione dell’etanolo. La fase solida residua nei reattori
di idrolisi, contenente cellulosa e lignina viene usata come combustibile nelle
caldaie per produrre energia elettrica e vapore. Il National Renewable Energy
Laboratory ha riportato i risultati relativi all’idrolisi con acido diluito di legno
dolce nelle condizioni operative sopra elencate. I risultati più rimarchevoli
sono: resa dell’89% per il mannosio, dell’82% per il galattosio e del 50% per il
glucosio; la fermentazione con Saccharomyces cerevisiae garantisce una resa in
etanolo del 90% [226].
82
L’idrolisi enzimatica rappresenta l’innovazione tecnologica più recente nel
processo di produzione dell’etanolo da biomassa. Infatti, mentre la sintesi degli
zuccheri da sostanze legnose con metodi chimici vanta 200 anni di ricerca e 100
anni di sviluppo processistico, l’uso degli enzimi per l’idrolisi della biomassa è
iniziato circa 50 anni fa. Attualmente, nonostante il processo sia piuttosto lento,
l’idrolisi enzimatica è molto utilizzata in quanto non si ottengono prodotti di
degradazione del glucosio. L’idrolisi avviene ad opera dell’enzima cellulasi
ottenuto dal fungo Trichoderma viride (noto anche come Trichoderma reesei) [228,
229]. Il Trichoderma reesei rilascia una miscela di cellulasi: 2 cellobioidrolasi, 5
endoglucanasi, beta-glucosidasi e emicellulasi, le quali agiscono in modo
diverso sulla cellulosa.
Sono stati utilizzati anche altri ceppi microbici tra cui alcuni batteri anaerobici
(Clostridium spp. e Ruminococcus spp.), alcuni attinomiceti (Cellulomonas spp. e
Thermobifida spp.) e alcuni funghi (Humicola insolens) [230].
La fermentazione degli zuccheri avviene ad opera dell’enzima presente nel
lievito Saccharomyces cerevisiae che agisce sugli esosi ma non sui pentosi
derivanti dall’emicellulosa. Questo rappresenta uno dei principali problemi
legati alla produzione di bioetanolo da materiali lignocellulosici. Infatti la resa
complessiva in bioetanolo con questo processo chiamato SHF (Separate
Hydrolysis and Fermentation) è un elemento di elevata criticità. Sono previsti
reattori diversi per la produzione della cellulasi, l’idrolisi enzimatica della
cellulosa ed emicellulosa (saccarificazione), la fermentazione degli esosi e quella
dei pentosi. Una caratteristica importante dei SHF è che ogni singolo stadio può
essere effettuato nelle condizioni ottimali. Per migliorare il processo sono in
fase di studio alcuni microrganismi da utilizzare in alternativa al tradizionale
Saccharomyces cerevisiae, tra cui Thermoanabacter mathranii ed Escherichia coli.
Valide soluzioni possono essere fornite dall’ingegneria genetica [218].
La complessità di questi stadi ha portato gli studiosi a cercare di ottimizzare
alcune soluzioni e semplificarli dal punto di vista impiantistico. Le principali
soluzioni studiate sono le seguenti:
• SSF (Simultaneous Saccharification and Fermentation), processo brevettato
dalla Gulf Oil Company e la University of Arkansas. L’SSF riduce il
numero di reattori (3) usando un unico reattore per l’idrolisi enzimatica
di cellulosa ed emicellulosa e per la fermentazione degli esosi e
soprattutto superando il problema legato all’inibizione degli enzimi
dovuta ai prodotti [231]. In presenza di glucosio, viene inibita l’idrolisi
del cellobiosio ad opera della ß-glucosidasi, per cui viene bloccata la
degradazione della cellulosa [232, 233].
83
• SSCF (Simultaneous Saccharification and CoFermentation). Si utilizzano 2
reattori, uno per la produzione di cellulasi e l’altro per l’idrolisi
enzimatica e la fermentazione degli zuccheri [208].
• Con la DCM (Direct Microbial Conversion) l’intero processo produttivo è
realizzato in un unico reattore ed è caratterizzato da una completa
simultaneità tra la produzione delle cellulasi, l’idrolisi della cellulosa e
dell’emicellulosa e la fermentazione degli zuccheri [208, 230].
3.4.2
Bioetanolo di seconda generazione
Gli sviluppi futuri nella produzione di bioetanolo sono indirizzati alla costante
diminuzione di colture alimentari per le produzioni energetiche passando ai
cosiddetti biocarburanti di seconda generazione. Il bioetanolo di seconda
generazione sarà prodotto a partire da biomassa lignocellulosica derivante da
coltivazioni specifiche (vedi tabella 3.8) o da prodotti di lavorazione
scarsamente utilizzati e disponibili in grande quantità, quali [227]:
• residui di raccolto (bagassa di canna da zucchero, paglia di grano, paglia
di riso, paglia di orzo, bagassa di sorgo zuccherino, noccioli e pasta di
olive, stocchi, lolle, sarmenti, paglie e residui delle potature in genere);
• legno duro (pioppo);
• legno dolce (pino, abete rosso);
• rifiuti di cellulosa (carta di giornale, rifiuti di carta per ufficio, fanghi di
carta riciclata);
• biomassa erbacea;
• rifiuti solidi urbani (RSU).
Nella tabella 3.8 sono riportate le principali specie di materie lignocellulosiche
da coltivazioni specifiche, il loro ciclo di produzione e i prodotti di
trasformazione.
84
Tabella 3.8 - Specie utilizzabili per la produzione di biomassa lignocellulosicaa.
Specie
Ciclo di
Prodotto
Prodotto
produzione intermedio trasformato
Erbacea
Fibra
Kenaf
annuale
(Hibiscus
cannabinus L.)
lignocellulose
Canapa
Erbacea
Fibra
Legno e
annuale
fibre
sminuzzate
Miscanto
Erbacea
Fibra
(chips)
poliennale
Canna comune
Erbacea
Fibra
Fascine di
poliennale
residui
Sorgo da fibra
Erbacea
Fibra
annuale
Cardo
Erbacea
Fibra
poliennale
Panico
Erbacea
Fibra
poliennale
Robinia
Legnosa
Legno
poliennale
Ginestra
Legnosa
Legno
poliennale
Eucalipto
Legnosa
Legno
poliennale
Salice
Legnosa
Legno
poliennale
Pioppo
Legnosa
Legno
poliennale
aITABIA, 2004, “Le biomasse per l’energia e l’ambiente”, Rapporto 2003, Ministero
dell’Ambiente e della Tutela del Territorio, www.itabia.it [234].
Uno studio, condotto dall’ENEA in collaborazione con l’Università degli Studi
dell’Aquila evidenzia come, nell’ipotesi di utilizzare in Italia il bioetanolo come
biocarburante in sostituzione dei combustibili fossili, si dovrebbero destinare
alle colture alcoligene 60.000-70.000 km2 di terreno agricolo, pari al 40% della
SAU (Superficie Agricola Utilizzata) e al 20% dell’intero territorio nazionale
[208, 235].
Si deduce che la maggior parte delle specie lignocellulosiche, a differenza delle
colture alcoligene, avendo una crescita piuttosto rapida e bassi costi di
produzione, possono essere ottenute facilmente senza interferire con la
produzione alimentare [228]. Infatti l’utilizzo di biocarburanti liquidi, in
85
alternativa ai derivati del petrolio, sarà praticabile solo se ne sarà aumentata la
disponibilità ed abbassato il costo.
Attualmente i costi maggiori derivano dalle materie prime e dalla
trasformazione di esse. La biomassa da lignocellulosa è la materia prima più
economica e potrebbe sostenere la crescita del mercato del bioetanolo a livello
internazionale.
Per quanto riguarda la disponibilità di biomassa ci sono notevoli differenze nei
Paesi dell’Unione Europea dovute alle caratteristiche territoriali e alle
condizioni climatiche; infatti mentre nel Nord dominano le foreste, al CentroSud prevalgono i “seminativi”. Quindi un’attenta analisi porterebbe a
diversificare le fonti tenendo conto delle realtà locali [127].
Le ricerche attuali mirano al miglioramento sia del trattamento della materia
prima che delle tecnologie di processo [218]. Particolare interesse riveste la
scelta e lo sviluppo di microrganismi in grado di massimizzare la produzione di
glucosio e quindi di bioetanolo, oppure di particolari specie in grado di
risolvere il problema della fermentazione degli zuccheri pentosi. E’ stato
osservato che lieviti come Pichia stipitis, Candida shehatae e Pachysolen tannophilus
possono assimilare i pentosi, ma la produzione di bioetanolo da essi è di
almeno cinque volte inferiore a quello osservato per S. cerevisiae. Inoltre, la loro
tolleranza dell’ossigeno e dell’etanolo durante il processo è di 2-4 volte inferiore
[216].
Gli impianti di produzione esistenti di bioetanolo da lignocellulose hanno tutti
una capacità di circa 10-45MW, si tratta di impianti pilota di piccole dimensioni.
Per soddisfare il bisogno interno dovrebbero avere una capacità di 100-500MW.
Occorre quindi migliorare le tecnologie e sviluppare nuovi sistemi. Una
soluzione potrebbe essere quella di utilizzare diverse materie prime nello stesso
stabilimento per la produzione del biocarburante oppure utilizzare i prodotti di
scarto per produrre biogas come fonte di energia interna [127].
Tra le ricerche in corso vi è quella dell’ENEA, presso il Centro Ricerche Trisaia,
finalizzato all’ottimizzazione dei processi di pretrattamento delle biomasse via
steam explosion, dell'idrolisi enzimatica e della fermentazione per rendere
competitiva la produzione di etanolo mediante processi biologici [208].
86
4
LA DIGESTIONE ANAEROBICA
L’obiettivo che tradizionalmemente si intende conseguire con
l’applicazione dei processi biotecnologici ambientali al trattamento dei reflui
consiste nell’eliminazione delle sostanze inquinanti in modo da generare un
residuo liquido, gassoso o solido che possa essere reintegrato nell’ambiente
naturale senza provocare effetti dannosi. Dato l’interesse crescente nell’uso
efficace delle risorse naturali, col trattamento può essere conveniente
conseguire anche un secondo obiettivo: il recupero di nutrienti specifici (ad es.
azoto, fosforo, ecc..) o la produzione di prodotti organici specifici (metano,
solventi organici, ecc..).
L’aggiunta di un secondo obiettivo varia lo status dei differenti reflui
generati dall’agroindustria: il rifiuto che diventa materia prima per la
produzione di specifiche sostanze chimiche o addirittura un vettore energetico.
Da qui nasce un settore di ricerca che combina gli elementi tradizionali della
biotecnologia ambientale in termini di decontaminazione dei reflui con la
biotecnologia industriale che mira alla massimizzazione del prodotto.
La digestione anaerobica è il classico esempio di un processo che combina
gli obiettivi della eliminazione dei composti organici da un refluo con la
generazione di un prodotto di valore sotto forma di biogas contenente metano.
Lo sviluppo della tecnologia della digestione anaerobica è stata attuata in
Europa per i residui di cibo (food residuals) da oltre 30 anni, sotto la spinta del
problema della graduale diminuzione dello spazio per le discariche controllate.
Tre diverse fasi dello sviluppo della tecnologia sono avvenute durante queste
tre decadi. Primo, i governi europei hanno finanziato la ricerca per dare inizio
alla promozione della tecnologia della digestione anaerobica, con la
conseguenza di ampia attività di sperimentazione durata circa dieci anni.
Secondo, negli anni ’80 e ’90 sono stati sviluppati impianti pilota e dimostrativi.
Terzo, questo lavoro ha portato alla fase di commercializzazione che, iniziata
negli anni ’90, è ancora in atto. Nel corso degli ultimi 10 anni lo sviluppo della
tecnologia della digestione anaerobica è stato notevole in molti paesi europei,
tra cui l’Italia. Ha ottenuto crescente credibilità in seguito al successo della sua
applicazione sia in campo industriale che in altri settori. In relazione all’uso
tradizione della digestione anaerobica per il trattamento dei reflui acquosi,
sussistono evidenti vantaggi del trattamento anaerobico rispetto a quello
aerobico per la degradazione dei substrati organici.
87
4.1 IL PROCESSO DI DIGESTIONE ANAEROBICA
4.1.1 Generalità sul processo
La digestione anaerobica è un processo biologico che avviene in assenza di
ossigeno in cui il materiale organico è decomposto dai batteri in una
componente gassosa (biogas) ed in una solida (digestato). Nella Figura 4.1 è
illustrato il processo di digestione anaerobica. Esso avviene in tre fasi successive
per l’azione di diversi gruppi batterici che operano in serie. Nella prima fase
(idrolisi) i batteri idrolitici decompongono i composti organici complessi (ad es.
carboidrati, proteine e grassi) in sostanze più semplici. Nella fase successiva
(fermentazione), i batteri acidificanti (acetogeni ed omoacetogeni) trasformano
tali sostanze, dapprima, in acidi organici e quindi in acetato, anidride carbonica
e idrogeno. Nell’ultima fase, quella più delicata (metanogenesi), i batteri
metanigeni trasformano i prodotti formatisi nella fase precedente in metano
(CH4) ed anidride carbonica (CO2), i principali costituenti del biogas.
Complessivamente quindi la componente organica viene degradata liberando
l’energia chimica in essa contenuta sotto forma di biogas, in misura variabile
dal 30 all’85%.
Figura 4.1 - Fasi del processo di digestione anaerobica
4.1.2 Parametri di processo
Data la complessità delle reazioni biochimiche che avvengono nel processo
di digestione anaerobica risulta di grande importanza nella pratica di
progettazione dei digestori fare ricorso a numerosi parametri che influenzano il
comportamento dei microrganismi. Analogamente è fondamentale, per una
88
corretta gestione degli impianti in larga scala, poter effettuare il controllo di
diversi parametri di processo. Pertanto qui di seguito si prende in esame questo
aspetto della digestione anaerobica.
I parametri utilizzati per dimensionare, valutare e gestire il processo di
digestione anaerobica si possono suddividere in: parametri di gestione del
reattore e parametri di stabilità del processo.
4.1.3
Parametri di gestione del reattore.
I parametri di gestione definiscono il funzionamento in termini di tempo di
permanenza della massa introdotta nel reattore, di concentrazione dei
microrganismi, di resa di produzione di biogas in relazione al volume del
reattore ed alle caratteristiche del substrato organico trattato. Quest’ultimo
parametro può essere espresso in diversi modi: in termini di contenuto di solidi
(o di sostanza secca) nelle loro componenti totali, ad es. solidi totali (TS) o
sostanza secca totale (TSS), o nella componente volatile ad es. solidi volatili (VS)
oppure sostanza organica (OS), o ancora in termini di domanda chimica di
ossigeno (COD) o di domanda biologica di ossigeno (BOD5). I parametri di
gestione del reattore sono:
9 Tempo medio di residenza idraulico (HRT), definito come il rapporto tra
il volume del reattore considerato e la portata di alimentazione al
reattore.
9 Tempo medio di residenza dei fanghi (SRT), è il tempo medio di
residenza dei fanghi all’interno del reattore; è espresso col rapporto tra la
massa totale di solidi volatili presenti nel reattore e la portata di solidi
estratta dal reattore.
9 Carico organico riferito alla biomassa o ai solidi volatili nel reattore (CF)
9 Produzione specifica di gas (SGP), rappresenta la quantità di biogas che
viene prodotta per quantità di sostanza volatile alimentata al reattore;
viene quindi espressa in termini di m3biogas/kgsubstratoalimentato. Questo
parametro, molto utilizzato per definire le rese dei processi di digestione
anaerobica, è strettamente correlato alla biodegradabilità del substrato
trattato piuttosto che alle proprietà del processo adottato.
9 Efficienza di rimozione del substrato. Tra i diversi modi di esprimere
l’efficienza di rimozione del substrato durante il processo di digestione
anaerobica i più utilizzati fanno riferimento alla rimozione in termini di
sostanza secca totale (o della sua frazione volatile), e alla rimozione in
termini di COD utilizzato.
4.1.4
Parametri di stabilità del processo.
La strategia di controllo del processo mira al mantenimento di condizioni
operative ottimali e stabili. Nel caso del processo di digestione anaerobica, la
89
maggior attenzione è riposta sul controllo della fase di metanogenesi che è la
fase limitante dell’intero processo anaerobico dal momento che risulta molto
sensibile alle variazioni ambientali del mezzo di reazione.
Particolarmente importanti sono i parametri quali pH, concentrazione di
acidi grassi volatili (VFA), alcalinità, rapporto tra acidi grassi volatili ed
alcalinità, produzione e composizione del biogas e temperatura e il rapporto
C/N.
Va comunque messo in evidenza che l’analisi di questi parametri deve
essere vista nella loro insieme, cioè la variazione registrata in un singolo
parametro risulta difficilmente interpretabile, se non accompagnata da un
monitoraggio complessivo degli altri parametri.
9 pH: fornisce un’indicazione della stabilità del mezzo di reazione. Infatti,
una sua variazione viene associata oltre che alla capacità tamponante del
sistema (dovuto al mezzo di reazione) anche a variazioni dell’equilibrio
tra le specie che partecipano alla catena trofica dei microrganismi
coinvolti nel processo. Il processo di digestione è generalmente
considerato stabile quando il pH è compreso tra 6,5 e 7,5.
Il valore del pH in un digestore è determinato essenzialmente dalla
presenza di CO2 nel mezzo liquido (che è in relazione alla sua pressione
parziale nel biogas e quindi dipende dalla composizione di quest’ultimo)
e dai valori di concentrazioni degli acidi volatili grassi e dell’ammoniaca.
Va rilevato che il pH è in grado di indicare condizioni di squilibrio del
sistema, ma solo con un certo ritardo rispetto all’evoluzione dell’effetto
tampone del mezzo.
9 Alcalinità (effetto tampone): rappresenta la capacità di un sistema di
neutralizzare l’acidità; viene espressa generalmente in termini di
concentrazione di carbonato di calcio. Valori di alcalinità dell’ordine di
3000-5000mg CaCO3/L sono tipici per i digestori anaerobici operanti in
condizioni stabili (Stafford et al., 1980).
9 Acidi grassi volatili: vengono rappresentati dalla formula generale: RCOOH dove R è un gruppo alchilico del tipo: CH3(CH2)n. Il livello di
concentrazione degli acidi volatili, generalmente espresso in termini di
acido acetico (Ac), dipende dal tipo di substrato trattato, e varia da circa
200 fino a 2000mg Ac/L. In relazione alla stabilità del processo di
digestione, non è tanto il valore di concentrazione registrato a dare un
indicazione assoluta, ma piuttosto la variazione di concentrazione. In
generale un aumento degli acidi volatili è conseguente ad un incremento
del carico di substrato dell’influente; questo determina l’accelerazione
dei fenomeni idrolitici ed acidogenici che a loro volta sbilanciano la
catena trofica e la variazione del sistema verso valori di pH bassi in
90
conseguenza dell’esaurimento della capacità tamponante del mezzo. Il
valore di concentrazione degli acidi grassi volatili va interpretato
assieme ai dati di produzione e composizione del biogas, oltre che dai
dati di pH ed alcalinità.
9 Produzione e composizione del biogas: Il monitoraggio della quantità del
biogas prodotto e della sua composizione (in termini di CH4 e CO2) è
essenziale per il controllo del processo di digestione anaerobica (Stafford
et al., 1980). Infatti, la costanza di produzione e la sua composizione si
manifestano in corrispondenza della stabilità del processo. Viceversa, sia
la diminuzione della produzione complessiva di biogas che della
percentuale di CH4 a favore della CO2 possono indicare fenomeni di
inibizione a danno dei microrganismi metanigeni provocati, ad esempio,
dall’eccessiva concentrazione di acidi grassi volatili. E’ questo il motivo
principale per cui, nella gestione degli impianti anaerobici, l’analisi di
produzione e di composizione del biogas deve associarsi al controllo di
altri parametri quali la concentrazione degli acidi grassi volatili e
l’alcalinità del mezzo.
9 Temperatura: l’attività biologica di tipo anaerobico può avvenire in un
ampio intervallo di temperatura, tra –5 e +70°C. La classificazione più
comunemente adottata per le differenti specie di microrganismi, in base
all’intervallo termico ottimale di crescita, è la seguente: psicrofili
(temperature inferiori a 20°C), mesofili (temperature comprese tra 20°C e
40°C) e termofili (temperature superiori a 45°C). Poiché la biomassa
attiva all’interno del bioreattore è costituita da una popolazione
eterogenea di microrganismi, variazioni di temperatura anche limitate
(2-3 °C) possono determinare una selezione tra popolazioni batteriche
che vanno a detrimento del processo anaerobico. Ne deriva l’esigenza di
adottare sistemi di controllo della temperatura che garantiscano il
mantenimento dei valori di tale parametro che si sono rivelati ottimali. Si
è riscontrato che i processi di digestione anaerobica che operano in
regime mesofilo evidenziano le migliori produzioni di biogas tra 30 e
35°C, mentre l’intervallo si allarga tra 40 e 60°C nel regime termofilo.
9 Tossicità dell’ambiente di crescita: tra i fattori che possono influire sul
processo microbico, nel senso di inibire o limitare la crescita dei
microrganismi e la resa di trasformazione del substrato organico in
biogas sono da citare oltre che lo stesso substrato, anche eventuali
elementi inibenti quali metalli pesanti, sali, azoto ammoniacale (NH4+),
residui di pesticidi e prodotti farmaceutici, detergenti e disinfettanti,
solventi, inibitori da trattamenti chimici per la conservazione di cibi, ecc.
Questi fattori possono esplicare i loro effetti negativi, in particolare, sui
91
batteri metanigeni, quelli comunemente considerati più sensibili di tutto
il consorzio batterico deputato alla conversione anaerobica delle sostanze
organiche a metano, in quanto caratterizzati da una bassa velocità di
crescita.
9 Il rapporto C/N: è un altro importante parametro che stabilisce la
relazione tra la quantità di carbonio e azoto presente nei materiali
organici.
Un rapporto C/N di 20-30 è considerato essere ottimale per le condizioni
di digestione anaerobica. Se il rapporto C/N è molto alto, l’azoto sarà
consumato rapidamente dai batteri metanigeni per soddisfare il loro
fabbisogno di proteine e non reagiranno più sul contenuto di carbonio
presente nei materiali. Come conseguenza di ciò, la quantità di gas
prodotta sarà bassa.
Se il rapporto C/N è molto basso, l’azoto verrà liberato e accumulato
nella forma di ammoniaca, aumentando il pH del materiale.
4.1.5 Produzione potenziale di metano
Il COD (Chemical Oxygen Demand) viene usato per quantificare la quantità
di materiale organico presente nel refluo e predire il potenziale per la
produzione del biogas. L’ossigeno equivalente del materiale organico che può
essere ossidato viene misurato usando un forte agente ossidante in un mezzo
acido.
Durante la digestione anaerobica il COD biodegradabile presente nel
materiale organico lo si ritrova nei prodotti finali, cioè il metano e la massa
batterica formata.
Nel caso di un composto organico (CnHaObNd) che venga biodegradato
completamente per via anaerobica, esso sarebbe completamente convertito dal
microorganismo (nell’ipotesi di resa di fango pari a zero) in CH4, CO2 e NH3, la
quantità teorica di gas prodotto può essere calcolata secondo l’equazione di
Buswell (1):
CnHaObNd + (n-a/4 - b/2 +3d/4) H2O
dNH3
(n/2 +a/8 -b/4 -3d/8) CH4 + (n/2-a/8+b/4+3d/8) CO2 +
(1)
La quantità di CO2 presente nel biogas è di solito significativamente
inferiore a quanto previsto dalla citata equazione. Questo è dovuto alla
relativamente alta solubilità della CO2 in acqua e parte di essa può diventare
chimicamente legata nella fase acquosa.
Un altro parametro ampiamente usato per valutare l’inquinamento
organico è il BOD5 (Biological Oxygen Demand). Questo metodo implica la
misura dell’ossigeno disciolto usato dai microorganismi aerobici
nell’ossidazione biochimica del materiale organico durante i 5 giorni della
durata del test alla temperatura di 20 °C.
92
Un parametro molto utile per valutare i substrati da avviare alla digestione
anaerobica è la constante di biodegradabilità anaerobica e d’idrolisi. La
biodegradabilità anaerobica totale viene misurata dalla quantità totale di
metano prodotto durante un tempo di ritenzione di almeno 50 giorni.
La resa in biogas dipende da diversi fattori quali digestibilità del materiale
organico, cinetica di digestione, tempo di ritenzione nel digestore e temperatura
di digestione. Il processo può essere ottimizzato mediante il controllo delle
condizioni di temperature, umidità, attività microbica e proprietà del rifiuto.
4.1.6 Requisiti per la digestione anaerobica
A differenza dei sistemi di trattamento aerobico delle acque di scarico, il
carico (loading rate) dei reattori anaerobici non è limitato dall’alimentazione di
un reagente, ma dalla capacità dei microrganismi di decomporla. È importante,
quindi, che una massa sufficientemente elevata di batteri venga ritenuta
all’interno del reattore. Per sistemi a basso tasso (low rate) ciò è ottenuto
applicando tempi di ritenzione sufficientemente lunghi. Per sistemi ad alto
tasso (high rate) la ritenzione della biomassa viene aumentata rispetto al tempo
di ritenzione del liquido. Le seguenti condizioni sono essenziali per reattori
anaerobici ad alto tasso:
9 In condizioni di alto carico organico (>10 kg/m3/die) e alto carico
idraulico (>10 m3/m3/die) deve essere ritenuta un’alta concentrazione di
fango batterico anaerobico.
9 Tra l’alimentazione in ingresso e la massa batterica deve realizzarsi il
massimo contatto.
9 Anche i minimi problemi di trasporto dovrebbero essere verificati
sperimentalmente in relazione ai composti alimentati, ai prodotti
intermedi ed a quelli finali.
Alla base del progetto di un sistema di digestione anaerobica c’è lo stadio
più lento della digestione, di solito costituita dalla conversione dei solidi
organici biodegradabili in composti solubili. Questo processo comunemente,
descritto come idrolisi, è fortemente dipendente dalla temperatura.
Il tempo di ritenzione del fango, Sludge Retention Time (SRT) è un parametro
molto importante. Quando è troppo breve, la metanogenesi non avviene e il
contenuto del reattore tenderà ad acidificarsi. Un SRT di almeno 15 giorni è
necessario per assicurare sia la metanogenesi che una sufficiente idrolisi e
acidificazione dei lipidi a 25 °C. Temperature di digestione più basse richiedono
SRT più lunghi, dal momento che la velocità di crescita dei metanigeni e la
constante d’idrolisi diminuiscono con la temperatura. Nei sistemi
completamente miscelati, l’SRT è eguale all’HRT, mentre nei sistemi con
ritenzione insita del fango, l’SRT è maggiore dell’HRT. Per il particolare sistema
anaerobico UASB (Upflow Anaerobic Sludge Bed), il volume del reattore richiesto
93
per assicurare un sufficiente SRT viene calcolato in accordo alla equazione (2).
Quest’equazione viene applicata per acque di scarico con alta concentrazione di
solidi sospesi, e per i sistemi che non sono idraulicamente limitati [236]:
HRT = (CODSSin/X)*R*(1-H)*SRT
(2)
in cui:
CODSSin = COD dei solidi sospesi nell’influente (g/L)
X = concentrazione del fango nel bireattore (g VSS/L); (1 g VSS=1.4 g COD)
R = frazione di CODSS rimossa
H = frazione di CODSS rimossa, che viene idrolizzata col SRT fisso.
4.1.7
Vantaggi e svantaggi del trattamento anaerobico
4.1.7.1 I vantaggi del trattamento anaerobico sono numerosi e possono essere così
riassunti:
9 disponibilità di una fonte d’energia per effetto del recupero del metano;
9 bassi consumi di energia (nel pompaggio e nel riciclo dell’effluente); a
temperatura ambiente la richiesta di energia è dell’ordine di 0,05-0,1
kWh/m3;
9 riduzione dei solidi da trattare; infatti la produzione dell’eccesso di
fango è in relazione alla frazione di COD biodegradabile, e nei
trattamenti anaerobici è decisamente inferiore rispetto ai processi
aerobici;
9 facilitazione nella disidratazione del fango;
9 stabilizzazione del rifiuto grezzo;
9 prodotti finali praticamente privi di odore;
9 recupero, quasi completo, dei nutrienti nel digestato (azoto, fosforo e
potassio) per la fertirrigazione
9 operativitàdei sistemi anaerobici con carichi organici molto elevati:>30 g
COD/l/day a ca. 30 °C e sino a 50 g COD/l/day a ca. 40 °C per acque di
scarico di media intensità con sostanze organiche per lo più solubili;
9 i fanghi anaerobici possono essere conservati per periodi prolungati
senza l’esigenza di alcuna alimentazione;
9 costi di costruzione relativamente bassi;
9 le esigenze di spazio per i trattamento anaerobici sono più bassi di quelli
dei sistemi convenzionali.
In conseguenza dei trattamenti anaerobici i composti biodegradabili sono
effettivamente rimossi, rilasciando nel digestato composti ridotti quali
ammoniaca, altri composti azotati, solfuri, composti organici del fosforo e
patogeni. Quindi in relazione all’uso che si deve fare del digestato può essere
indispensabile che esso venga sottoposto ad un trattamento a valle [237].
94
4.1.7.2 Gli svantaggi del trattamento anaerobico
9 alta sensibilità dei batteri metanogenici ad un ampio numero di composti
chimici. Va però detto che, in molti casi, gli organismi anaerobici sono
capaci di adattarsi a questi composti;
9 il primo start-up di un’installazione anaerobica, senza l’utilizzo di un
inoculo adeguato, può comportare lunghi periodi di latenza dovuti alla
bassa resa in biomassa dei batteri anaerobici;
9 nel caso in cui l’acqua di scarico contenga composti solforosi, i
trattamenti anaerobici possono portare alla produzione di sostanze
odorigene per la formazione di solfuri. Un’efficace soluzione a questo
problema è l’impiego di un post-trattamento con uno step micro-aerophilic,
per convertire il solfuro a zolfo elementare [237].
95
4.2 REATTORI ANAEROBICI
I reattori di processo impiegati nella digestione anaerobica sono di
moltissimi tipi e si differenziano per forma, dimensioni, processo utilizzato,
materiali ed accessori utilizzati. Una prima distinzione riguarda i reattori
tradizionali da quelli di tipo avanzato. La differenza sostanziale consiste negli
accorgimenti o dispositivi, di cui sono dotati i secondi, tali da ridurre al minimo
la fuoriuscita della biomassa dal reattore in modo da avere una separazione tra
HRT (tempo medio di resistenza idraulica) e SRT (tempo medio di ritenzione
dei fanghi), risolvendo così due dei principali problemi della digestione
anaerobica ovvero la ridotta velocità di crescita della biomassa ed il,
relativamente lungo, tempo di digestione. Verranno descritte le principali
tipologie impiantistiche dei reattori anaerobici più diffusi e frequentemente
applicati per il trattamento di reflui zootecnici e la stabilizzazione dei fanghi
provenienti da impianti di trattamento delle acque di fogna urbana e
industriale. Seguono poi le tipologie ad elevato contenuto tecnologico, che
meglio si prestano al trattamento di reflui industriali (filtri anaerobici, reattori
UASB, ecc.).
Secondo la modalità di crescita della biomassa si possono distinguere i
reattori: reattori a crescita sospesa, reattori a crescita supportata, e reattori
ibridi.
Nei primi la crescita della biomassa avviene in sospensione nella fase
liquida, mentre nei secondi la crescita della biomassa avviene in film sottili,
detti "biofilm", su un supporto posto all'interno del reattore stesso. Anche in
questo caso il tempo di ritenzione della biomassa è decisamente superiore al
tempo di ritenzione idraulico e quindi i reattori a biomassa adesa appartengono
alla categoria dei reattori avanzati. I reattori ibridi sono una combinazione dei
due.
4.2.1 Impianti Semplificati
Queste tipologie di impianto trovano frequente applicazione nel settore
zootecnico, grazie alla semplicità costruttiva e gestionale. Essi infatti sono
costituiti da una vasca di stoccaggio, dotata di copertura gasometrica.
I sistemi più semplici sono quelli psicrofili che sono caratterizzati da
rendimenti variabili in relazione alla stagione dell’anno e da tempi di
permanenza elevati (intorno a 60 giorni o più). Indicativamente per un liquame
suino le produzioni annuali di biogas sono circa 25 m3/100 kg di peso vivo.
Invece i bioreattori dotati di sistema di riscaldamento consentono di
mantenere la condizione di mesofilia (35-37°C) e di ottenere rendimenti più
elevati e costanti durante tutto l’arco dell’anno, con tempi di ritenzione intorno
96
a 20 giorni. Le produzioni annuali di biogas da liquame suino, in questo caso, si
aggirano intorno ai 35 m3/100 kg di peso vivo.
Le coperture gasometriche che hanno il compito di trattenere e di stoccare il
biogas possono essere del tipo:
- Copertura a cupola semplice: non è pressurizzata ed è costituita da un telone
di materiale flessibile ancorato sul perimetro della vasca. Il gas, essendo a
pressione molto bassa, viene estratto e inviato agli utilizzi per mezzo di una
soffiante.
- Copertura a cupola a doppia o tripla membrana: è realizzata con due o tre strati
sovrapposti di membrane che sono fissate al bordo della vasca. Le membrane
più esterne costituiscono una camera d’aria che agisce da elemento di spinta
pneumatica sulla membrana più interna, quella che racchiude il biogas.
L’evacuazione del biogas è realizzata con valvole di sovrappressione, regolate
da appositi sensori.
- Copertura galleggiante: è costituita da membrane dotate di un sistema di
zavorra realizzato con tubi flessibili riempiti con acqua, per garantire la
pressione di accumulo del biogas (Figura 4.2).
Figura 4.2 - Copertura gasometrica galleggiante (fonte CRPA)
4.2.2
Reattori a Crescita Sospesa
4.2.2.1 Reattori miscelati
Questi rappresentano la tipologia classica di digestori Figura 4.3. Sono
realizzati in cemento armato o in acciaio, a forma di silos. Questi reattori sono
predisposti per funzionare in condizioni mesofile o termofile, infatti sono
coibentati e riscaldati mediante scambiatore di calore.
Il liquame che si trova all’interno del digestore può essere miscelato in
diversi modi che si possono raggruppare in tre categorie: sistemi ad agitazione
meccanica (facendo ricorso ad un albero rotante a cui sono calettate delle pale:
turbine o mixer a bassa velocità), sistemi ad iniezione di gas (il biogas
recuperato dalla parte alta del bioreattore viene inviato all’esterno, compresso
ed immesso ad alta velocità nella massa del liquido all’interno del bioreattore) e
97
sistemi meccanici di pompaggio (il liquido all’interno del bioreattore viene
prelevato con delle pompe e riciclato all’interno). A seconda della modalità
dell’agitazione e dell’intensità, il reattore può essere completamente o
parzialmente miscelato.
Si va affermando sempre più la tendenza di posizionare sulla sommità di
questo tipo di reattore una calotta gasometrica, generalmente costituita da un
telo polimerico che ha il compito di trattenere il biogas.
Questi bioreattori miscelati consentono il trattamento di liquami con un
contenuto in sostanza secca mediamente inferiore al 10%, con tempi di
permanenza medi di 15-35 giorni, in relazione alla composizione del substrato e
alla temperatura di processo. I bioreattori miscelati sono generalmente utilizzati
negli impianti di codigestione.
Le configurazioni impiantistiche più diffuse sono quelle a flusso continuo,
preferite a quelle a flusso discontinuo (batch).
Figura 4.3 - Schema di reattore a miscelazione completa.
4.2.2.2 Reattori con flusso a pistone (plug-flow)
Questi digestori sono caratterizzati dal flusso orizzontale del liquame, essi
sono dotati di sistema di riscaldamento, di agitatori e gasometro. In questo tipo
di processi una delle dimensioni del reattore è maggiore dell’altra: si potranno
quindi avere reattori sviluppati di più lungo l’asse orizzontale o lungo quello
verticale. Nella Figura 4.4 è riportata una rappresentazione schematica del
reattore con flusso a pistone.
Il processo ideale prevede una alimentazione (con flusso continuo o semicontinuo) da un lato del reattore con successivo avanzamento lungo uno degli
assi del reattore verso l’uscita, senza che avvenga mescolamento lungo questa
direzione; l’unico mescolamento possibile è quello in direzione ortogonale
rispetto all’asse di avanzamento della corrente in ingresso. Il tempo di
residenza di ogni elemento di liquido corrisponde effettivamente al tempo di
residenza idraulico e la concentrazione dei composti lungo l’asse di
98
avanzamento sarà quindi variabile. Motivi di natura tecnica ed economica ne
limitano la taglia a 300-400 m3 di volume.
Figura 4.4 - Schema di reattore con flusso a pistone.
Processo in reattore con ricircolo (o reattori per contatto)
Nelle tipologie impiantistiche già descritte, il tempo di permanenza
idraulico risulta pari al tempo di permanenza della biomassa attiva (i
microrganismi) all’interno del reattore. Se invece si ricircola al bioreattore parte
della biomassa presente nell’effluente si riesce ad aumentare il tempo di
permanenza della biomassa attiva del reattore, il che consente di realizzare più
elevate efficienze di degradazione della sostanza organica. La separazione
solido/liquido sull’effluente viene di norma realizzata con dei semplici
sedimentatori.
BIOREATTORE
SEPARAZIONE
SOLIDO LIQUIDO
EFFLUENTE
CHIARIFICATO
INGRESSO
LIQUAME
FANGO DI
SUPERO
Figura 4.5 - Schema di reattore biologico con ricircolo.
4.2.2.3 Reattori a Crescita Supportata o Biomassa Adesa
Sono reattori in cui la biomassa cresce adesa a supporti inerti di vario tipo
formando una pellicola sottile ma densa. Questo permette al reattore di
trattenere efficacemente la biomassa che si forma nel suo interno anche in
presenza di flussi notevoli di gas e di liquido. Inoltre sono dotati di una
maggiore stabilità dovuta al formarsi nell'ambito del biofilm di un
microambiente avente caratteristiche ottimali, di difficile perturbabilità, per i
microorganismi. Tra i principali inconvenienti di questo tipo di reattori
ricordiamo l'intasabilità, dovuto ad un abnorme sviluppo della biomassa che
occlude gli spazi destinati alla circolazione del liquido e del gas, e la
99
"canalizzazione", ovvero la formazione di canali di deflusso preferenziali per il
liquame con l'esclusione quindi di una frazione della superficie di biofilm che
rimane inattiva.
4.2.2.4 Reattori a Letto Fisso
I rettori stazionari a letto fisso, sono costituiti da un contenitore in cui
vengono inseriti dei mezzi di riempimento che fanno da supporto per
l’immobilizzazione della biomassa che crea un biofilm.
Il refluo può essere alimentato con flusso ascendente (Upflow Anaerobic
Filter, UAF) o discendente (Downflow Anaerobic Filter, DAF). Il primo è
caratterizzato dall'ingresso dell'influente dal basso e dalla fuoriuscita
dell'effluente in alto, il secondo ha un funzionamento idraulico opposto.
Un'altra distinzione tra filtri anaerobici può essere fatta a seconda del tipo
di riempimento utilizzato: alla rinfusa o modulare. E ancora si possono fare
classificazioni a seconda della natura, forma e caratteristiche del materiale di
riempimento, un tempo costituito da pietrisco, oggi costituito da pacchi
lamellari di materiale plastico o appositi corpi plastici da disporre alla rinfusa,
da carbone attivo o da anelli in ceramica. I materiali plastici presentano una
minore attitudine all'adesione rispetto al pietrisco, ma hanno superfici
specifiche e indici del vuoto di gran lunga superiori. Le differenti
caratteristiche, come la forma, gli spazi e le canalizzazioni del materiale di
riempimento, influenzano il comportamento idrodinamico del reattore [238].
I reattori a letto fisso hanno il vantaggio di una semplice costruzione,
inoltre sono particolarmente indicati per reflui con elevato contenuto di
sostanza organica solubile e sono particolarmente indicati per funzionare ad
alto carico organico [239] volumetrico (anche 20 KgCOD.m-3.d-1) con tempi di
ritenzione che possono arrivare a solo qualche ora. Inoltre sono in grado di
sopportare un elevato carico tossico [240].
I difetti di questi reattori sono quelli tipici dei reattori a film fisso, cioè
l'intasamento dovuto all’aumento dello spessore del biofilm e/o l’elevata
concentrazione di solidi sospesi nelle acque reflue e la canalizzazione
riducendone così l'efficenza. Al fine di ridurre questi inconvenienti molti
impianti sono dotati di dispositivi che permettono la circolazione ad alti flussi
in senso contrario a quello di alimentazione in modo da eliminare le ostruzioni
che la biomassa può formare.
Il limite principale di questo rettore risulta essere il volume occupato e al
costo elevato dovuto alla grande quantità di materiale di riempimento
necessario.
100
4.2.2.5 Reattori Anaerobici a Letto Espanso e Fluidificato
I reattori a letto espanso e a letto fluidizzato sono particolari tipi di reattori
a biomassa adesa, in cui il materiale di supporto è costituito da fini particelle di
materiale inerte, (0.11 mm di diametro) in sospensione nello stato fluidificato e
aventi una elevata area superficiale. Il materiale di supporto permette la
formazione di biofilm e la sua crescita. L’elevata area superficiale consente di
ottenere un elevato carico di biomassa e favorisce l’ottenimento di un sistema
efficiente e stabile. Questo sistema è particolarmente utile nel caso di più elevate
velocità di carico e offre una maggiore resistenza agli inibitori [241].
Il materiale di supporto può essere costituito da sabbia, granuli di carbone,
particelle di materiale plastico, zeoliti, sepiolite, etc.. Al fine di permettere la
crescita del biofilm attorno alle particelle ed evitare la sedimentazione e
l'impaccamento delle stesse è indispensabile un flusso idraulico sufficiente a
mantenere le particelle del materiale in sospensione.
La differenza fra letto espanso e letto fluidizzato sta nell'intensità di
espansione del letto. Nel letto espanso il diametro delle particelle è leggermente
più grande rispetto a quello usato nei letti fluidificati, nei primi è pari a 1.2-1.25
volte il volume del letto a riposo, mentre per i secondi è maggiore di 1.3 volte il
volume a riposo. Per mantenere un flusso idraulico è indispensabile un forte
riciclo con conseguente dispendio energetico per il funzionamento delle pompe.
Questo tipo di reattori per la grande concentrazione di biomassa e la grande
superficie esposta del biofilm consentono di operare con carichi organici
volumetrici rilevanti (anche fino a 100 KgCOD/(m3.d) in condizioni di
laboratorio) con tempi di ritenzione idraulica di poche ore. Inoltre sono adatti al
trattamento di reflui a basso e medio contenuto di solidi sospesi.
La tecnologia dei letti fluidificati risulta più efficace rispetto alla tecnologia
del filtro anaerobico poichè in essa è favorito il trasporto delle cellule
microbiche dal bulk alla superficie con conseguente miglioramento del contatto
tra i microrganismi e il substrato [242]. Rispetto ai filtri anaerobici, presentano
diversi vantaggi:
9 l’eliminazione dell’intasamento del letto;
9 una minore perdita della testa idraulica combinata con una
migliore circolazione idraulica [243];
9 una più grande area superficiale per unità di volume del
reattore;
9 un costo inferiore per via del ridotto volume dello stesso.
4.2.3 Reattori Ibridi
I reattori ibridi: incorporano un sistema a biomassa sospesa con uno a
biomassa adesa, avendo il vantaggio di eliminare i possibili problemi di
101
intasamento e distribuzione dello scarico dei reattori a letto fisso, e di
mantenere i vantaggi delle due configurazioni.
Questo tipo di reattori nacque in seguito alla scoperta di diversi ricercatori
dell'attività effettiva della biomassa adesa e della biomassa sospesa nei filtri
anaerobici. Infatti, è noto che la maggior parte dell'attività di digestione è
prodotta dalla frazione di biomassa sospesa, localizzata tra gli spazi di
riempimento, e sopratutto nella parte basale del reattore, priva del riempimento
stesso, destinata alla distribuzione dell'influente. Si pensò quindi di ridurre il
volume di impaccamento fino agli attuali 1/4-1/2 del volume totale.
4.2.3.1 Reattore UASB
L’Upflow Anaerobic Sludge Blanket (UASB) è un impianto anaerobico,
sviluppato nei Paesi Bassi a partire dagli anni ’70 da Lettinga e collaboratori. La
degradazione viene effettuata in prevalenza nella parte inferiore del reattore,
nella quale è inserito anche il sistema di alimentazione.
L’influente attraversa il letto di fango espanso, che è formato da fiocchi o
granuli facilmente sedimentabili. Il buon funzionamento di un impianto UASB
è determinato dalla formazione di aggregati batterici, fiocchi o granuli,
sufficientemente densi da rimanere all'interno del reattore nonostante il
trascinamento causato dal flusso di liquido e di gas. Le condizioni ottimali
consistono nella formazione di aggregati batterici, fiocchi o granuli con densità
elevate (1030-1050 Kg/m3) e che quindi sedimentino facilmente e rimangono
all’interno del reattore nonostante il trascinamento causato dal flusso dei liquidi
e del gas. Si forma un letto ad alta concentrazione di biomassa, separato dalla
fase sovrastante, blanket, costituita da una fase liquida con una modesta
concentrazione di solidi sospesi. Non sono presenti sistemi di agitazione
meccanica, che avrebbero il difetto di rimuovere il letto di fango. La turbolenza
e la miscelazione necessaria vengono garantite dalla risalita del fluido e dal
biogas, che esercitano anche una pressione selettiva sulla flora batterica, in
modo da selezionare le specie che formano i granuli.
I solidi sospesi rimasti nell’effluente, possono essere recuperati in una zona
di calma in testa al reattore, e riciclati nel sistema [244].
Il principale problema di questo tipo di reattore è che non si conosce ancora
l'esatto meccanismo di formazione dei granuli, i quali si formano e si
mantengono con difficoltà, eccetto che usando particolari tipi di influente. Ne
consegue che sono predisposti, in particolari condizioni:
9 carichi idraulici elevati
9 elevate produzioni di gas.
Un’altro problema è la perdita per "wash-out" della biomassa se questa non
è ben aggregata e soprattutto nella fase iniziale del processo.
102
Tra gli svantaggi, il lungo periodo di start-up necessario per avere la giusta
quantità di granuli necessari all’avvio del processo
Da non trascure inoltre il fatto che l'abbattimento degli inquinanti non è tale
da permettere lo scarico diretto dell'acqua depurata: l'UASB richiede
solitamente uno stadio finale di affinamento biologico della depurazione.
In compenso questo tipo di reattore, particolarmente indicato per il
trattamento di substrati solubili, in presenza di buona granulazione è in grado
di operare con tempi di ritenzione idraulica estremamente ridotti con carichi
organici volumetrici rilevanti. Il massimo potenziale di carico nel sistema a letto
di fanghi flocculanti è nel range 1-4 kgCOD/m3 al giorno [241].
I reattori UASB sono stati ampiamente usati per effluenti derivati da
diverse sorgenti quali, distillerie, processi di trasformazione alimentare,
concerie, reflui urbani.
Inoltre essa risulta essere più conveniente rispetto ai filtri anaerobici o ai
sistemi a letti fluidificati.
4.2.3.2 Reattore EGSB
Un altro esempio di digestore ad elevata velocità, è l’EGSB, che rappresenta
una forma modificata del reattore UASB nel quale la velocità di flusso applicata
al liquido superficiale è leggermente superiore (5-10 m/h per reflui solubili e 11,25 m/h per reflui parzialmente solubili, rispetto a 3m/h per il reattore
UASB.[245]. A causa dell’elevata velocità di flusso, i principali granuli di fango
saranno trattenuti nel sistema EGSB, invece una notevole parte del letto di
fango granulare sarà ampliata o potrebbe trovarsi in uno stato fluidificato nelle
immediate vicinanze del letto. Come risultato il contatto tra le acque reflue e i
fanghi è eccellente. Inoltre, il trasporto del substrato negli aggregati di fango è
molto migliore se comparato alle situazioni dove l’intensità della miscelazione è
più bassa.[245] La velocità di carico massima realizzabile col sistema EGSB è
leggermente superiore rispetto a quella del sistema UASB, specialmente quando
nelle acque reflue è presente una debole concentrazione di acidi grassi volatili
(VFA) e si opera a una temperatura inferiore a quella ambiente [241].
4.2.4
Altri tipi di reattori ibridi
Altri reattori che appartengono alla classe dei "reattori ibridi" sono: UASF
(Upflow Anaerobic Sludge Filter) e SBAF (Sludge Bed Anaerobic Filter).
Questo tipo di reattori può essere identificato come un UASB con la parte
superiore dotata di impaccamento. In effetti il materiale di riempimento non
contribuisce in maniera significativa alla attività di digestione contenendo
infatti quantitativi modesti di biomassa; l'azione del riempimento è piuttosto
quella di separare le fasi gas/liquido/solido (i fiocchi di biomassa dalle bolle
del gas) consentendo il loro trattenimento all'interno del reattore.
103
Si può affermare quindi, che il reattore SBAF è un reattore di tipo UASB in
cui il sistema di separazione gas/liquido/solido è costituito da materiale di
riempimento usualmente impiegato nei filtri anaerobici. Dal punto di vista delle
prestazioni, queste sono assimilabili a quelle dei reattori UASB, salvo che tali
performances vengono mantenute anche in assenza di biomassa granulare.
Recentemente sono in fase sperimentale alcuni tipi di reattori ibridi in cui il
materiale di riempimento è costituito da materiale spugnoso in grado di offrire
un buon supporto ai microorganismi. In questo caso anche la zona impaccata
diviene attiva dal punto di vista della digestione. Un'applicazione di questo tipo
di reattori è stato fatto a livello sperimentale per il trattamento combinato
digestione anaerobica/denitrificazione in un impianto di trattamento misto
anaerobico/aerobico. In questo caso il riempimento posto nella parte alta del
reattore offre supporto ai batteri denitrificanti che trattano il refluo proveniente
dall'impianto aerobico il quale viene introdotto nel reattore subito al di sotto
dell'impaccamento [246].
104
4.3 SUBSTRATI
UTILIZZABILI
PER
LA
DIGESTIONE
ANAEROBICA
Secondo il decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 con il termine
biomassa si indica: “la parte biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui provenienti
dall’agricoltura (comprendente sostanze vegetali ed animali) e dalla silvicoltura e dalle
industrie connesse, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali ed urbani”.
La definizione di biomassa, riunisce un’ampia categoria di materiali di origine
vegetale e animale, compresa la parte biodegradabile dei rifiuti [247].
Da una prima distinzione abbiamo le materie prime (colture dedicate arboree
ed erbacee, ecc.) e i prodotti di scarto derivanti da molteplici attività che
interessano: il comparto agricolo-forestale, il comparto industriale, ed infine il
settore dei rifiuti solidi urbani.
4.4 Classificazione Biomasse
Nello specifico le biomasse, possono essere suddivise per comparto di
provenienza nei seguenti settori:
1. Comparto Forestale e Agroforestale:
9 Residui delle operazioni selvicolturali o delle attività agroforestali,
utilizzazione di boschi cedui, ecc;
o Comparto Agricolo:
ƒ Residui colturali provenienti dall’attività agricola e
dalle colture dedicate di specie lignocellulosiche, piante
oleaginose, per l’estrazione di oli e la loro
trasformazione in biodiesel, piante alcoligene per la
produzione di bioetanolo;
ƒ Colture energetiche (erba, mais, sorgo, ecc.)
o Comparto Zootecnico:
ƒ Reflui zootecnici per la produzione di biogas;
ƒ Reflui dagli Allevamenti di Animali (Suini, Bovini,
Avicoli)
2. Comparto Industriale:
9 Residui provenienti dalle industrie del legno o dei prodotti in legno e
dell’industria e della carta,
9 Residui dell’industria agroalimentare;
9 Reflui dell’agroindustria (scarti vegetali, fanghi ed effluenti acquosi da
distillerie, birrerie, lavorazione delle uve, lavorazione del latte,
produzione di lieviti, acque di vegetazione, lavorazione del caffe, ecc)
9 Reflui di macellazione
105
9 Reflui industriali di provenienza diversa dall’agroalimentare
3. Rifiuti Urbani:
9 Residui delle operazioni di manutenzione del verde pubblico
9 Frazione umida di rifiuti solidi urbani
9 Fanghi dagli impianti di trattamento acque di scarico urbane.
Si comprende quindi che nel termine biomassa sono raggruppati materiali che
possono essere anche molto diversi tra loro per caratteristiche chimiche e
fisiche. Di conseguenza anche le loro utilizzazioni, per fini energetici, possono
essere molteplici [247].
106
4.5 FRAZIONE ORGANICA DEI RIFIUTI SOLIDI URBANI
(FORSU)
I rifiuti “solidi” organici vengono normalmente intesi come la frazione
organico-biodegradabile avente una percentuale di umidità inferiore all’85-90%.
Anche se il termine “solido”non è molto preciso, ci sono molti meeting sui
rifiuti agricoli e industriali che applicano questo criterio, ma il contributo più
rilevante è dato dalla frazione organica dei rifiuti solidi urbani (FORSU) [248].
E’ ormai noto l’effetto negativo che la discarica diretta dei rifiuti solidi
urbani crea nell’ambiente. I maggiori problemi associati alle discariche sono le
conseguenti emissioni nell’atmosfera, idrosfera, e pedosfera; i rischi nella
stabilità della discarica; e la scarsità di terra [249].
In Europa, l’evoluzione della legislatura ha imposto la chiusura di molte
discariche per via del loro forte impatto ambientale. In concomitanza di ciò si è
avuto un incremento notevole della raccolta differenziata dei rifiuti solidi
urbani. I trattamenti biologici sono la giusta alternativa per la frazione
differenziata dei rifiuti putrescenti. Questa tecnologia può essere massimizzata
riciclando e recuperando i componenti dei rifiuti.
Tra i trattamenti biologici, la digestione anaerobica è quella che possiede il
miglior rapporto costo/efficienza, dovuto all’elevato recupero di energia legato
al processo e al limitato impatto ambientale. La produzione di biogas nell’intera
Europa, potrebbe raggiungere oltre i 15 milioni di m3 di metano [250].
In letteratura la diversità degli articoli sulla digestione anaerobica dei rifiuti
solidi, riflette l’elevato numero di argomenti relativi a questo settore [248].
4.5.1 Composizione dei rifiuti
Solo i rifiuti di origine organica possono essere processati in un digestore
anaerobico. Essi costituiscono il 30-60% dei rifiuti domestici e per questo motivo
un loro dirottamento dalle discariche costituisce un grosso beneficio per
l’ambiente [251].
Una prima classificazione suddivide i rifiuti in:
Frazione organica digeribile: materiale organico facilmente biodegradabile,
per es. scarti di cucina, residui di cibo, tagli d’erba, rami di alberi, etc.
Frazione combustibile: materiale organico scarsamente digeribile come legno,
carta e cartone. Questi sono materiali lignocellulosici che non vengono
facilmente degradati in condizioni anaerobiche ma sono più adatti alla
digestione aerobica, es. composting. Opinioni differenti si hanno per la
digeribilità della carta, che dipende dal contenuto di lignina, perciò alcune
forme di carta risultano molto più digeribili di altre, generalmente solo la carta
che è troppo contaminata da rifiuti organici per essere riciclata, viene usata per
107
la digestione. La frazione combustibile è costituita anche da una parte non
digeribile [251].
Un’altra classificazione distingue i solidi volatili dai solidi volatili refrattari:
I solidi volatili, (VS) nei rifiuti organici sono misurati come solidi totali
meno il contenuto di ceneri, come ottenuto dalla combustione completa dei
rifiuti. I solidi volatili comprendono la frazione di solidi volatili biodegradabili
(BVS) e i solidi volatili refrattari (RVS) [252]. Kayhanian[253] mostra che la
conoscenza della frazione di BVS e RSU aiuta a stimare meglio la
biodegradabilità dei rifiuti, la produzione di biogas, la velocità di carico
organico, e il rapporto C/N. La lignina è un materiale organico complesso che
non è facilmente degradato da batteri anaerobici e rappresenta la parte di solidi
volatili refrattari (RVS) in RSU.
I rifiuti caratterizzati da elevato VS e basso materiale non biodegradabile o
RSW sono più adatti al trattamento di digestione anaerobica.
La composizione dei rifiuti influenza sia la resa del biogas che la qualità del
compost [252].
4.5.2 Pre-trattamento
Separazione alla fonte mediante raccolta differenziata dei rifiuti: i
materiali riciclabili vengono separati all’origine dai rifiuti organici.
Separazione meccanica: essa può essere usata per separare la frazione
organica dei rifiuti qualora essa non sia disponibile.
La frazione ottenuta è più contaminata poiché comprende metalli pesanti,
plastica presenti nel compost digerito. In molti paesi il compost derivato dalla
separazione meccanica non è conforme alle norme necessarie per la produzione
di un suolo certificato [254].
Avendo separato i materiali riciclabili o non voluti, dai rifiuti, il materiale
organico deve essere tritato prima della sua immissione nel digestore. Il
materiale organico è diluito con un liquido, che possono essere acque reflue,
acqua riciclata dal digestato o acqua pulita. In alcuni sistemi un pretrattamento
aerobico permette al materiale organico, di essere parzialmente decomposto in
condizioni aerobiche, prima di entrare nella fase anaerobica [251].
4.5.3
Problemi specifici per la digestione anaerobica nei RSU
9 La natura dei rifiuti organici, potrebbe variare in funzione della zona
e del periodo dell’anno. Nella stagione umida la quantità delle piante
orticole tagliate sono superiori rispetto alla stagione secca. Questo
può portare ad una variazione nel rapporto C/N e pregiudicare la
produzione di gas.
9 L’inadeguata miscelazione di rifiuti e acque reflue possono
influenzare l'efficienza del sistema.
108
9 L’otturazione dei tubi può essere causato dall’ingresso nel sistema di
grossi pezzi di rifiuti, questo causa problemi, in particolare nei
sistemi continui.
4.5.4
Vantaggi della digestione anaerobica nei RSU
9 Rende più semplice la gestione delle discariche, eliminando i
problemi dei rifiuti organici che sono responsabili delle emissioni
liquide e gassose.
9 I sistemi chiusi permettono una raccolta completa del biogas
prodotto, invece nelle discariche, viene raccolto solo il 30-40% del gas
generato. Il metano è un gas a effetto serra che ha un impatto di 20
volte superiore al diossido di carbonio.
9 Viene ottenuto un prodotto finale che può essere usato come
condizionatore di suolo.
4.5.5
Effetto del Calore e della Microaerazione nella Digestione Anaerobica della
FORSU
La digestione anaerobica della FORSU è stata oggetto di studio negli ultimi
decenni, cercando di sviluppare una tecnologia che offre la stabilizzazione dei
rifiuti con il recupero delle risorse. Nel complesso del processo di digestione
anaerobica, l’idrolisi/acidificazione e la metanogenesi, sono considerate come
fasi limite della velocità del processo [249].
E’ stato studiato l’effetto che il flusso di calore e la micro-aerazione hanno
nella fase preliminare del processo e l’effetto della lisciviazione nel
miglioramento della fase metanigena, per mettere a punto un processo
combinato di digestione anaerobica.
L’applicazione di condizioni micro-aerofiliche, durante la fase di
pretrattamento, permette di ottenere un miglioramento nel processo
d’idrolisi/acidificazione. Flussi della breve durata di cinque giorni con ridotti
volumi d’acqua (29,3 L/Kg TS) permettono una vantaggiosa rimozione della
materia organica dal letto di rifiuti in previsione della fase metanigena. E’ stata
ottenuta una resa d’idrolisi di 140g/Kg di TS, che equivale al 30% di C rimosso
dal letto dei rifiuti sottoforma di percolato e una resa di acidificazione di 180
gVFA/Kg TS. L’importanza della percolazione durante la fase metanigena è
stata attribuita all’aumento nella produzione di biogas. La micro-aerazione
durante il pre-trattamento ha un effetto positivo nella fase metanogenica poiché
la fase attiva della fase metanogenica viene raggiunta prima, rispetto ad altri
reattori in cui non viene fatta la micro-aerazione. Questo potrebbe essere il
risultato di una migliore idrolisi/acidificazione durante lo start-up di
metanizzazione, dando un substrato per i metanigeni. Così la micro-aerazione
109
mostra un inequivocabile effetto in termini di miglioramento del processo di
digestione anaerobica.
Inoltre, gli esperimenti di lisciviazione sulla frazione organica dei RSU
dimostrano che flussi di calore possono aumentare l’idrolisi e l’acidificazione
[255].
La temperatura influenza in maniera significativa il processo di digestione
anaerobica, specialmente la fase metanogenica in cui il tasso di degradazione
aumenta con essa. Le temperature di reazione aventi attività massima sono
mesofiliche (25-40°C) e termofiliche (40-65°C) [256]. I microrganismi che
operano nel range mesofilico, sono più robusti e possono tollerare maggiori
cambiamenti nei parametri ambientali, rispetto alle condizioni termofiliche. La
stabilità del processo mesofilico lo rende più popolare negli impianti di
digestione anaerobica correnti, dovuto al fatto che i batteri termofilici, sono più
sensibili a fluttuazioni tossiche e di temperatura fuori dai range ottimali [257].
Possiamo individuare tre fasi nel processo di digestione anaerobica
combinata.
Fase preliminare: gli acidi grassi volatili (VFA) e gli altri composti organici
disciolti prodotti dai rifiuti freschi vengono flussati nel percolato. Sono stati
utilizzati diversi tipi di flussaggio e micro-aerazioni per ottimizzare il processo
di idrolisi/acidificazione a temperatura ambiente.
Fase metano: la produzione di biogas è stata fatta a temperature
mesofiliche. Lo strat-up è stato fatto aggiustando il pH e con l’aggiunta di
inoculo. Una fase metano attiva, è stata indicata dalla presenza di circa il 50% di
metano nel biogas e un pH attorno a 7. La percolazione durante la fase
metanigna potrebbe portare all’aumento della produzione di biogas.
Fase finale: Una fase matura del reattore viene raggiunta dopo 60 giorni,
dopodichè viene fatta flussare dell’aria per rimuovere il metano e l’ossido di
carbonio ancora intrappolati poi si procede a scaricare il reattore [249].
4.5.6 Modellazione del Processo
Sono stati intrapresi vari studi fondamentali sulla digestione dei rifiuti solidi.
Un settore è la modellazione del processo. La disponibilità di un robusto
modello di digestore anaerobico, permette di lavorare con i migliori parametri
operativi, perchè venga definito un controllo ottimale [248].
Si incontrano molte difficoltà nel definire un modello di digestione
anaerobica della FORSU.
Ci sono molte fasi e tipi di micro-organismi implicati, e inoltre il substrato è
complesso.
Molti dei modelli riportati in letteratura, si riferiscono alla cinetica dei
substrati solubili e così si considera solo la fase della fermentazione,
dell’acetogenesi e metanogenica [258, 259].
110
4.6 CODIGESTIONE
La codigestione è una tecnologia sempre più richiesta per il trattamento di
differenti tipi di rifiuti solidi e liquidi miscelati e trattati assieme in un unico
digestore.
I principali vantaggi di questa tecnologia sono i miglioramenti nelle rese di
metano dovute al contenuto di nutrienti del “co-digested” e un uso più efficiente
delle attrezzature e la ripartizione dei costi di funzionamento dell’impianto di
trasformazione. [260]
In generale, la quantità e qualità dei rifiuti organici generati potrebbe non
essere sufficiente per avere una digestione con rapporto costo/efficienza
favorevole. L’applicazione della codigestione offre molti vantaggi rispetto al
trattamento separato. Negli impianti di biogas, le economie sono spesso
marginali e perciò la codigestione sta diventando largamente addottata come
metodo per migliorare l’economia del trattamento [261].
L’utilizzo della codigestione permette quindi di superare alcuni ostacoli quali la
non disponibilità di substrati adeguati nell’intero anno [262].
Molti impianti di trattamento di rifiuti urbani, nei Paesi industrializzati,
processano attualmente i fanghi di depurazione in un unico grande digestore.
I maggiori problemi sono legati alle caratteristiche fisiche della composizione
dei rifiuti urbani biologici trattati meccanicamente, l’accumulo di metalli
pesanti e di altri contaminanti inerti e l’impatto di entrambi questi fattori sulla
qualità finale dei fanghi.
Su vasta scala potrebbero essere richieste delle prove che permettono di
valutare l’impatto a lungo termine dei rifiuti sulla digestione anaerobica, se
questa dovesse essere perseguita.
Una migliore qualità del materiale di partenza dovrebbe essere in grado di
portare un contributo all’aumento della resa del metano e minori restrizioni nel
riutilizzo del prodotto. I miglioramenti nella raccolta o pre-trattamento sono la
soluzione per ridurre questi ostacoli [263]. Il recupero di metano contribuisce
anche a ridurre le emissioni di gas con effetto serra sull’ atmosfera.
La codigestione di rifiuti organici con i fanghi di depurazione può aumentare la
produzione di gas e permette di risparmiare sui costi di gestione globali
dell’impianto.
E’ stato condotto uno studio sul trattamento di un percolato di discarica
contenente elevate concentrazioni di ammoniaca, utilizzando un reattore
anaerobico di tipo “upflow”. Al fine di evitare l'inibizione di batteri anaerobici di
altissima concentrazione di ammoniaca, l'influente introdotto nei biofiltri è stato
diluito con le acque di vegetazione della molinatura delle olive e con acqua di
rubinetto. Ottenendo una efficiente rimozione del COD di circa il 50% [264].
111
Sempre nell’ambito della codigestione, vengono riportati i risultati ottenuti col
trattamento di AV mediante due filtri anaerobici con alimentazione dal basso.
Come materiale di supporto della crescita microbica sono stati utilizzati anelli
Raschig corrugati in PVC. Sono state ottenute elevate rimozioni del COD (81 e
85%) e la produzione di biogas è risultata prossima al massimo valore teorico.
La misura dei principali parametri ambientali e di esercizio effettuate anche a
diverse altezze del bioreattore consente di ottenere una migliore conoscenza del
funzionamento dei filtri anaerobici [265].
La conoscenza dei parametri funzionali dei reattori utilizzati e una conveniente
miscela dei diversi tipi di rifiuti, costituiscono la base della efficienza del
sistema anaerobico, che richiede una gestione attenta. La capacità di predire
l’esito del processo quando si uniscono nuovi rifiuti è un importante mezzo per
ottimizzare i risultati. A questo proposito negli ultimi 30 anni sono stati
sviluppati molti modelli matematici [266].
4.6.1 Modello Matematico Applicato alla Codigestione
Un modello matematico che descrive la degradazione anaerobica combinata di
materiali organici complessi, come letame, e liquidi contenenti additivi, come
gli effluenti derivati dalle acque di vegetazione (AV) ottenute dalla macinazione
delle olive, è stato sviluppato sulla base di un modello esistente [267].
Il modello è stato usato per simulare la codigestione anaerobica di letame
bovino con le AV, e la simulazione è stata comparata con i dati sperimentali. I
dati della simulazione indicano che la carenza di ammoniaca, necessaria come
fonte di azoto per la sintesi dei batteri della biomassa e per l’ effetto tampone
sul pH, potrebbe essere responsabile dei problemi incontrati nei tentativi di
degradazione anaerobica delle AV. E’ stato dimostrato che la quantità di azoto
necessaria per ottenere una degradazione stabile, delle AV deriva dal letame
durante il processo di codigestione delle AV con il letame.
Gli scarichi acquosi dei frantoi oleari, sono prodotti in grande quantità nell’area
del Mediterraneo. Ogni anno vengono prodotti trenta milioni di metri cubi di
AV [268].
Se non trattati questi rifiuti, costituiscono una grossa minaccia per l’ambiente,
dovuto al forte carico organico e alla forte richiesta chimica di ossigeno (COD). I
trattamenti anaerobici dei rifiuti organici sono spesso i principali metodi di
trattamento: riducono il contenuto organico di COD, distruggono i prodotti
tossici, cedono energia sotto forma di biogas che può essere usato per
l’elettricità e per la produzione di calore. L’utilizzo della degradazione
anaerobica di AV ha portato alla riduzione del COD sino a circa l’ 80% [269].
Il modello mostra inoltre gli effetti dovuti al potere inibitore dei fenoli, alla
carenza di ammoniaca, e alla bassa alcalinità delle AV. Diversi approcci sono
112
stati applicati per superare questi problemi, come la diluizione degli OME con
acqua e l’aggiunta di urea come sorgente di azoto [270] [271].
L’utilizzo dell’acqua per la diluizione delle AV, risulta in un non necessario
aumento del volume dell’effluente, e l’aggiunta di reagenti chimici, non è
economicamente e ecologicamente auspicabile.
La soluzione che viene suggerita è dunque quella di utilizzare la codigestione
delle AV assieme al letame. In questo processo l’alcalinità e l’alto contenuto di
ammoniaca offerto dal letame compensa i bassi valori degli stessi nelle AV,
mentre le AV contribuiscono a una elevata, potenziale, resa di biogas.
I risultati presentati, mostrano che è possibile formulare un modello che può
predire il comportamento dinamico della codigestione con sufficiente
accuratezza da essere un utile strumento d’aiuto per l’ottimizzazione del
processo di codigestione.
La simulazione della codigestione del letame/AV presentata in questo studio
può spiegare le difficoltà osservate quando si prova a degradare le AV da sole. I
risultati indicano che il trattamento delle AV in termini di successo e stabilità
possono essere ottenuti se si aggiunge una relativamente piccola quantità di
letame come fonte di azoto e fattore di stabilizzazione del pH. Altri tipi di rifiuti
animali, come quelli derivati dai polli o lo sterco di cavallo, possono essere
utilizzati come sorgente di azoto più facilmente disponibile [263].
113
4.7 DIGESTIONE ANAEROBICA DI COMPOSTI TOSSICI e
EFFETTI-D’INIBIZIONE
4.7.1 Composti Recalcitranti e Xenobiotici
Gli idrocarburi alifatici clorurati (CAH) sono usati in una grande varietà di
applicazioni [272] e vista la loro tossicità e cancerogenicità, la maggior parte di
essi è inclusa nella “List of the Council directive” 76/464 (EC) e nella lista EPA
(USA) dei principali inquinanti ambientali.
Questo gruppo di composti, vengono trovati di frequente negli scarichi
industriali, e sono citati come inibitori della digestione anaerobica [273] essendo
considerati più tossici per i microrganismi anaerobici che aerobici. Gli
idrocarburi alifatici clorunati, vengono usati come solventi e come intermedi
nelle sintesi chimiche. Se rilasciati nell’ambiente costituiscono un serio rischio
per l’ambiente per via della loro tossicità e elevata stabilità.
I CAH sono considerati composti xenobiotici, benché alcuni, specialmente i
clorometani, sono rilasciati da alghe, funghi, vulcani [274]. Comunque, la
maggior parte dei CAH hanno un’origine antropogenica, e sono considerati
recalcitranti alla biodegradazione. La maggior parte delle informazioni
disponibili, sui composti clorurati, è legata alla degradazione ossidativa, poiché
i processi aerobici sono sempre stati considerati i più efficaci e di più facile
applicazione. Comunque, ora sono disponibili informazioni aggiuntive sulla
biotrasformazione dei CAH. Infatti, è stato provato che i composti xenobiotici
clorurati sono biodegradabili in condizioni anaerobiche [273-275].
La declorazione anaerobica può essere suddivisa in due gruppi di reazioni:
reazione mediata biologicamente e non.
La dealogenazione riduttiva, principalmente idrogenolisi e dicloro
eliminazione, è la via più importante per la biodegradazione anaerobica, e
richiede la donazione di un elettrone. La dealogenazione abiotica, in genere ha
una cinetica di reazione estremamente bassa. Tra i CAH è stato selezionato
l’1,1,1,2-tetracloroetano (1,1,1,2-TeCA) come composto modello, poichè vi sono
scarse fonti letterarie in merito, inoltre viene usato in abbondanza come
solvente nei processi di fabbricazione, ma anche per la sua tossicità verso i
microorganismi nei sistemi metanogenici animali e non [246].
4.7.1.1 Bioderadazione di 1,1,1,2-tetracloroetano in condizioni metanogeniche in un
reattore UASB
E’ stato studiato l’effetto di differenti co-substrati sulla degradazione
anaerobica dell’ 1,1,1,2-tetracloroetano (1,1,1,2-TeCA) in fanghi granulari, ed è
stato ipotizzato il suo percorso degradativo.
114
La biomassa usata come inoculo è una miscela di fanghi anaerobici granulari,
conservata a 4°C .
Il contenuto di solidi sospesi volatili (VSS) è di 9.1% e la sua attività specifica
iniziale è di gDQO/gVSS d.
Nell’esperimento di controllo, fatto con la biomassa sterile, il fango viene
autoclavato (per l’ inattivazione di tutta l’attività microbica) per 30 min a 120°C.
L’incubazione è condotta a 30 °C in condizioni stazionarie.
I differenti esperimenti di biodegradazione, dimostrano che 1,1,1,2-TeCA è
completamente rimosso solo in presenza di microrganismi anaerobici. Le
velocità di biodegradazione sono indipendenti dall’ aggiunta di substrati (acido
lattico, metanolo, saccarosio, acido acetico, o formico) e rimangono costanti in
loro assenza. Il controllo delle attività indica che non c’è degradazione in
assenza di microrganismi (biomassa) e che la degradazione non viene mediata
dai differenti componenti dei mezzi d’incubazione. La presenza o meno di
macronutrienti e tracce di elementi, con o senza lieviti, e Na2S, entrambi come
ipotetici donatori di elettroni, non modificarono la velocità di degradazione del
1,1,1,2-TeCA.
I composti della degradazione sono: 1,1-DCE, 1,1,2-TCA, TCE, e TeCE, ma solo
l’1,1-DCE e l’1,1,2-TCA corrispondono ai prodotti della biotrasformazione.
Esperimenti fatti, a pH 7, con 1,1-DCE dimostrano che la concentrazione di 1,1DCE rimane costante sia in assenza del co-substrato che in presenza di sodio
lattato.
Il 1,1-DCE viene invece eliminato rapidamente in presenza di acido lattico a pH
5, al contrario la sua eliminazione non avviene usando acido fosforico a pH 3 o
5.5. Dagli studi eseguiti risulta che usando diverse concentrazioni di 1,1,1,2TeCA, si forma 0,62 ppm di 1,1-DCE per ppm di 1,1,1,2-TeCA degradato.
Questo significa che il 100% del 1,1,1,2-TeCA è convertito in 1,1-DCE.
In accordo con questi risultati, si possono individuare due vie di
biodegradazione possibili:
9 dicloroeliminazione
9 la declorurazione e la deidroclorazione riduttiva
In accordo con l’assenza dell’intermedio 1,1,2-TCA che non è mai stato trovato,
e che la deidroclorurazione avviene lentamente, si può assumere che la
dicloroeliminazione è la principale via di degradazione che può avere luogo.
Tenendo conto che l’eliminazione di due cloruri, e la formazione di un doppio
legame, richiede l’intervento di una donazione di elettroni, i risultati
suggeriscono che la donazione degli elettroni deriva dalla digestione endogena
dei fanghi.
115
Per confermare questi risultati sono stati usati due reattori UASB, e sono stati
condotti due esperimenti, con e senza cosubstrato. La biotrasformazione dell’
1,1,1,2-TeCA è risultata completa nei due casi.
I risultati mostrano che questo composto è facilmente e rapidamente
biodegradato in condizioni anaerobiche metanogeniche, anche in assenza di
elettron donatori.
L’ 1,1,1,2-TeCA è degradato a 1,1-dicloroetene (1,1-DCE) per
dicloroeliminazione riduttiva. L’ 1,1-DCE viene biodegradato completamente
solo in presenza di acido lattico come co-substrato. Benchè l’ 1,1,1,2-TeCA
potrebbe apparire completamente rimosso dai granuli di fango autoclavati, il
composto non è trasformato, ma trattenuto all’interno dei granuli. La
degradazione primaria dell’ 1,1,1,2-TeCA a 1,1-DCE è un processo biotico
mediato dai batteri anaerobici.
E’ confermato che i fanghi anaerobici sono capaci di biotrasformare 1,1,1,2-TeCa
in presenza o in assenza di donatori di elettroni esterni. E’ stata osservata
un’elevata velocità di degradazione (280umol/g VSS d).
La rimozione di questo composto può essere osservata in presenza di biomassa
sterile per via del meccanismo di adsorbimento o absorbimento. Questi risultati
sono in accordo con la natura idrofobica di 1,1,1,2-TeCa e i fanghi granulari
[276]. E’ importante sottolineare che la scomparsa dei composti idrofobici, come
CAH, in presenza di fanghi granulari inattivi potrebbero essere confusi come
apperente degradazione abiotica, specialmente con un elevato rapporto
biomassa/CAH. La degradazione del 1,1,1,2-TeCA avviene solo in presenza di
fanghi vivi.
4.7.2 Effetto di Composti Tossici in un Reattore UASB
E’ stato fatto uno studio sull’azione dell’ 1,1,1,2-tetracloroetano (1,1,1,2TeCA) su un processo di digestione anaerobica, mediante l’utilizzo di reattori
UASB. Si sono confrontati due reattori UASB, il primo, R1, con carico costante,
mentre il secondo, R2 viene caricato a impulsi.
Il reattore UASB possiede una elevata tolleranza e acclimatazione all’ 1,1,1,2tetracloroetano.
L’attività del reattore R1 sottoposto ad aggiunta continua di 1,1,1,2-TeCA, inizia
ad essere disturbato, per concentrazioni superiori a 100mg/L. L’efficienza è di
circa il 90%.
Da sottolineare che negli esperimenti (in batch) fatti in precedenza l’IC50 era di
18mg/L. Per concentrazioni di 140mg/L, l’efficienza del reattore diminuisce
sino al 40% (determinata come COD rimosso) e sino al 5% (determinata come
CH4 prodotto).
116
Utilizzando il reattore per tre mesi con questa concentrazione, si ha un pieno
recupero dell’attività in 3-4 giorni, in seguito all’eliminazione del 1,1,1,2-TeCA
dall’influente.
Il reattore R2 è stato capace di tollerare “slug” dosi di 1,1,1,2-TeCA, previste
impulsi di 24 ore, ad una concentrazione superiore a 120 mg/L senza effetti
sull’attività. Per “slug” dosi superiori a 250 mg/L la sua efficienza scende al
50% circa, e il recupero si ottiene in soli 1-3 giorni. Per concentrazioni sino a 400
mg/L di 1,1,1,2-TeCA, il reattore è in grado di recuperare completamente la sua
attività in 5-6 giorni.
Visto il recupero dell’attività del reattore, dopo l’eliminazione dei composti
tossici, si può postulare che l’1,1,1,2-TeCA esercita un effetto batteriostatico
sulla popolazione microbica dei granuli anaerobici. I batteri acetogenici e i
metanogeni acetoclastici (archaea) sono i microorganismi maggiormente
minacciati.
Il reattore UASB, aventi biomassa costituita da fanghi granulari, rappresentano
una adeguata tecnologia per il trattamento di reflui industriali che normalmente
contengono concentrazioni medio-alte di 1,1,1,2-TeCA o quelli che soffrono di
sporadici o accidentali discariche di alte concentrazioni di 1,1,1,2-TeCA [277].
4.7.3
Biodegradazione Anaerobica e Tossicità di Clorofenoli Trattati con Reattori
Anaerobici a Letto Fluidificato
I composti clorofenolici sono presenti negli scarichi acquosi delle industrie del
legno (cartiere, segherie) le quali sfruttano le loro proprietà fungicida e
insetticida per la conservazione dei loro prodotti (legno e carta). Altre emissioni
di clorofenoli nell’ambiente si hanno sia dalle Industrie chimiche produttrici di
pesticidi ed erbicidi come anche in seguito all’utilizzo di questi prodotti nelle
attività agricole.
L’uso intenso in ambito industriale ed agricolo ha provocato un accumulo nel
terreno finendo per contaminare falde ed invasi idrici, con gravi danni
all’ecosistema naturale. Sono state rilevate concentrazioni di composti
clorofenolici nelle acque potabili pari a 8-40 mg/l.
Elevate concentrazioni di tali composti si riscontrano anche nelle acque di
scarico civili a causa di elevati usi di pesticidi nei centri urbani.
In passato si riteneva che i clorofenoli fossero tossici per i microrganismi anche
a concentrazioni molto basse, invece è stato dimostrato che colture miste di
batteri, dopo un certo periodo di acclimatazione ai composti fenolici, riescono a
degradarli completamente. La maggior parte degli studi realizzati in passato
sulla decomposizione biologica dei clorofenoli ha riguardato colture batteriche
di tipo aerobico. Anche questo gruppo di ricerca, in passato, ha studiato la
degradazione con batteri aerobici. Più recenti sono i lavori condotti con batteri
anaerobici.
117
4.7.3.1 Biodegradazione Anaerobica e Tossicità di Clorofenoli
In questo lavoro è stata studiata la degradazione di alcuni clorofenoli da parte
di colture microbiche miste non acclimatate che si sviluppavano in condizioni
batch. I clorofenoli presi in esame sono stati il 2-monoclorofenolo (2-MCP) ed il
2,6-diclorofenolo (2,6-DCP) con l’obiettivo di valutarne la cinetica di consumo e
di verificare il possibile schema di degradazione
Nel nostro caso si è osservato che il fenolo è un prodotto intermedio di
decomposizione dei clorofenoli e viene utilizzato come fonte di carbonio. I
risultati hanno dimostrato che colture batteriche miste anaerobiche riescono,
con tempi molto lunghi, a mineralizzare completamente le molecole del 2-MCP
e del 2,6-DCP [278].
4.7.3.2 Trattati con Reattori Anaerobici a Letto Fluidificato
Sono stati individuati diversi composti clorofenolici (pentaclorofenolo (PCP),
2,4,6-triclorofenolo (TCP), 2,4-diclorofenolo (DCP), 4-monoclorofenolo(MCP) e
fenolo), sui quali sono stati fatti studi di tossicità anaerobica e di
biodegradabilità.
L’utilizzo di un reattore a letto fluidificato ha permesso di ottenere, per un
trattamento anaerobico continuo di reflui contenenti composti clorofenolici, una
loro degradazione.
Il pentaclorofenolo e il DCP, rispetto ai composti testati, sono risultati i
composti più tossici per i batteri anaerobici.
L’aggiunta di una sorgente esterna di carbonio permette di stimolare il processo
di declorurazione e di assicurare un apporto sufficiente di biomassa. Dopo un
periodo di circa 75 ore di acclimatazione dei fanghi viene osservata un’elevata
velocità di eliminazione della tossicità e del substrato [279].
4.7.4 Altri Inibitori e Composti Tossici
Oltre alle già citate classi di composti, è possibile citare altre classi di
composti che risultano essere tossici per il processo microbico, limitandone lo
sviluppo o inibendo l’attività. Tra gli altri particolare importanza viene data ai
pesticidi, disinfettanti, i prodotti farmaceutici etc.
4.7.4.1 Antibiotici
In particolare, nell’ambito dei prodotti farmaceutici, consideriamo la classe
degli antibiotici, comunemente utilizzati nel trattamento dei suini, amoxicillin
triidrata, oxytetracyclina cloroidrata e thiamphenicol, sono stati aggiunti con
concentrazioni diverse ai liquami suini e ai fanghi anaerobici. E’ stato poi
valutato l’effetto degli antibiotici sulla produzione di biogas e la concentrazione
di metano sul processo anaerobico. Il thiamphenicol aggiunto alla coltura
anaerobica, ha un notevole effetto sulla produzione di metano, rispetto alla
118
coltura di controllo. L’ amoxicillin ha un minore effetto inibitore sulla
produzione di metano rispetto alla concentrazione dell’antibiotico;
l’oxytetracycline sembra non esercitare nessun effetto sulla produzione di
metano. I risultati costituiscono un’ulteriore conferma sul fatto che la presenza
degli antibiotici nei liquami suini, possono creare un problema nel trattamento
delle acque reflue nella digestione anaerobica, specialmente dove la produzione
di biogas è importante. Inoltre, non è possibile fare una revisione sull’effetto
inibitore che ciascun antibiotico può avere nella produzione di metano. Ancora,
non è possibile stabilire quale stadio della comunità (batteri metanogenici o
acidi) è affetta dall’antibiotico [280].
119
4.8 PRODUZIONE DI IDROGENO
L’idrogeno è un gas prezioso, come fonte di energia pulita e materia prima per
le industrie. Perciò la sua richiesta di produzione è aumentata notevolmente
negli ultimi anni. L’elettrolisi dell’acqua, il reforming degli idrocarburi, e i
processi termici, sono metodi ben noti per la produzione di idrogeno, ma hanno
un costo-effettivo troppo elevato per via della notevole richiesta di energia.
La produzione biologica di idrogeno ha importanti vantaggi, rispetto ai metodi
chimici. I microrganismi decompongono la sostanza organica a CO2 e H2.
L’idrogeno prodotto come gas è generalmente utilizzato direttamente da altri
organismi all’interno dello stesso ecosistema.
La reazione chimica 2H+ + 2e- → H2 viene catalizzata dalla presenza di un
enzima. Molti microrganismi producono Idrogenasi, enzimi, che svolgono la
funzione di ossidare H2 a protoni ed elettroni oppure ridurre i protoni e liberare
idrogeno molecolare.
I principali processi biologici usati per la produzione di idrogeno sono:
9 la biofotolisi dell’acqua utilizzando alghe e cianobatteri;
9 la fotodecomposizione (o fotofermentazione o fermentazione “light”) di
composti organici, solitamente carboidrati, per mezzo di batteri
fotosintetici;
9 la fermentazione di composti organici (fermentazione “dark”)
9 l’utilizzo di sistemi ibridi che uniscono la fotodecomposizione con la
fermentazione.
La bio-produzione di idrogeno, prevede l’utilizzo di diversi tipi di rifiuti,
l’utilizzo di diverse strategie di bio-trasformazione, l’utilizzo di colture
microbiche e bio-condizioni di trasformazione.
Il principale ostacolo nella fermentazione “dark” e “light” è dato dal costo delle
materie prime.
I rifiuti solidi, come l’amido e la cellulosa, ricchi in carboidrati e poveri di azoto,
presenti nei rifiuti agricoli e negli scarti dell’industria alimentare, come per
esempio i formaggi, il siero del latte, gli scarti della macinatura delle olive e il
lievito della panificazione, possono essere usati per la produzione d’idrogeno
per mezzo di opportune bio-tecnologie di processo.
L’utilizzo dei rifiuti, per la produzione di idrogeno, permette di generare
energia a basso costo e un simultaneo trattamento dei rifiuti.
Le microalghe (es. Chlamydomonas reinhardtii) producono idrogeno utilizzando
come substrato principale l’acqua e la luce (in un processo chiamato biofotolisi).
La produzione algale d’idrogeno è piuttosto lenta, ed è inibita dall’ossigeno.
L’idrogeno è prodotto come sottoprodotto durante la fase acetogenica della
digestione anaerobica dei rifiuti organici, nota come fermentazione. La resa per
120
fermentazione “dark” è bassa e così la sua velocità. I composti organici acidi,
prodotti durante la fermentazione “dark”, dai rifiuti ricchi in carboidrati,
possono essere convertiti in H2 e CO2 per mezzo di batteri fotoeterotropici.
Il processo complessivo, richiede l’utilizzo di organismi speciali, luce e uno
stretto controllo delle condizioni ambientali.
Per questo motivo, il processo sequenziale o combinato della fermentazione
“dark” e “light” sembra essere il più efficace, permettendo di ottenere una resa
elevata di idrogeno da rifiuti ricchi di carboidrati. I principali problemi nella
bioproduzione d’idrogeno sono:
9 basse velocità
9 basse rese di formazione
9 reattori con grandi volumi
Questi problemi possono essere superati selezionando e usando degli
organismi più efficaci o miscele di colture, sviluppando uno schema di processo
più efficiente, ottimizzando le condizioni ambientali, migliorando l’utilizzo
dell’ efficienza della luce, e sviluppando bio-reattori più efficienti
L’inibizione della produzione di bio-idrogeno dovuto alla presenza
dell’ossigeno, e dell’ammonio-azoto, si può superare separando la fase della
crescita dei microrganismi da quella di formazione dell’idrogeno, migliorando
così la produzione d’idrogeno [281].
4.8.1
Tipi di fermentazione
Sono noti principalmente tre tipi di fermentazione:
9 all’ acido butirrico,
9 all’ acido propionico
9 all’ etanolo.
Secondo la maggior parte degli studi di fermentazione acidogenica, quando i
prodotti principali del processo sono l’acido butirrico e acetico, il processo è
chiamato fermentazione all’acido butirrico.
Nella fermentazione all’acido propionico, l’acido propionico si converte in
metano e si accumula nel reattore acidogenico nel processo di fermentazione,
acidificando il sistema di trattamento anaerobico e determinando l’esito
negativo del processo di trattamento delle acque reflue (Bhatia et al., 1985;
Hanaki et al., 1994a, b), per questo motivo la fermentazione all’acido
propionico, e l’acido propionico, dovrebbe, sempre, essere evitata. Nell’ultimo
tipo di fermentazione identificata, all’ etanolo, i liquidi prodotti sono etanolo e
acido acetico.[282]
4.8.2 Enterobacter, Bacillus, e Clostridium per la Produzione di Idrogeno
Le colture pure di Enterobacter, Bacillus, e Clostridium sono in grado di produrre
idrogeno a partire da carboidrati.
121
I Bacillus, e i Clostridium sono caratterizzati dalla formazione di spore, come
risposta alla non favorevole condizione ambientale, come la mancanza di
nutrienti o l’aumento della temperatura.
Alcune specie di clostridi, sono capaci di degradare amido insolubile, senza un
pretrattamento, mentre alcuni enterobatteri, possono degradare solo amido in
soluzione. Per avere un processo tecnologico fattibile, è necessario utilizzare
miscele di colture ottenute da fonti naturali, capaci di operare in condizioni
non-sterili.
I fanghi di depurazione trattati termicamente rappresentano una fonte
facilmente disponibile di miscela di microflora per la produzione di idrogeno.
E’ necessario liberarsi della presenza di organismi che utilizzano l’idrogeno.
Questa condizione può essere realizzata per valori di pH bassi e/o con tempi di
ritenzione brevi, dal momento che i metanigeni sono sensibili alla diminuzione
di pH e hanno una crescita più lenta rispetto agli organismi fermentativi.
Gli studi in laboratorio sono stati concentrati su substrati puri come, amido,
cellulosa, in processi in batch.
Se l’inoculo, consiste nella formazione di spore, è possibile che la crescita su
amido puro o cellulosa possa incontrare difficoltà, non presenti con materie
prime complesse, poiché la germinazione di spore, potrebbe richiedere specie di
nutrienti specifici.
Una valida tecnologia in un processo in continuo, necessita di materie prime
organiche fermentabili e non sterili, per es. rifiuti solidi urbani e i rifiuti delle
industrie alimentari.
Le condizioni del processo, incluso l’inoculo, hanno un effetto significativo sulla
resa dell’idrogeno, in quanto influenzano la fermentazione dei prodotti finiti.
La fermentazione di esosi a acetato o butirrato produce H2 e CO2. La
fermentazione a propinato o lattato, non produce idrogeno. I prodotti di
fermentazione ridotti, come l’etanolo, e altri alcoli contenenti H addizionali,
danno basse rese di H2.
E’ importante perciò stabilire il metabolismo dei batteri che danno come
prodotto finale l’acetato e il butirrato. La fermentazione dei prodotti finiti negli
effluenti, per la produzione di idrogeno, necessità di una ulteriore fase. Una
resa elevata può essere ottenuta mediante la fotofermentazione batterica [283].
122
4.9 TRATTAMENTI COMBINATI
L’abbattimento completo di sostanze inquinanti nelle acque reflue può
essere raggiunto con difficoltà qualora si addotti un metodo di trattamento
singolo. La combinazione di un trattamento chimico con un trattamento
biologico permette di ottimizzare il processo globale. La scelta del primo
processo è fatta per facilitare il secondo e per ottenere un trattamento più
efficace dei reflui.
Si possono citare a titolo d’esempio delle situazioni tipo in cui è necessario
procedere al trattamento dei rifiuti in due fasi:
9 presenza di composti recalcitranti;
9 presenza di composti recalcitranti che richiedono una raffinazione
chimica;
9 presenza di inbitori;
9 formazione di composti chimici e biologici di degradazione.
Ciascuno di questi rifiuti deve essere considerato separatamente, per decidere
quale trattamento chimico, o biologico è più opportuno applicare, in quale
ordine e quanto estendere il trattamento prima di passare al secondo.
L’accoppiamento di un trattamento chimico (ozonizzazione) con un trattamento
biologico (digestione anaerobica), è stato fatto per le acque di vegetazione (AV)
ottenute dalla macinazione delle olive. In esse la presenza di inibitori (lipidi e
polifenoli) riducono la sua potenziale biodegradabilità. In seguito a questi
trattamenti, si osserva che sia i fenoli totali che i lipidi insaturi, vengono ridotti
del 50% in tre ore di ozonizzazione e che il COD rimane invariato [284].
Tuttavia, le AV trattate, hanno un effetto inibitorio più alto verso i batteri
metanigeni rispetto alle AV non trattate. Questo effetto non si presenta invece
per i batteri acitogenici.
L’acido oleico è meno inibitorio verso i metanigeni, rispetto ai prodotti della
ozonizzazione (probabilmente legato alla formazione di acido azelaico).
L’effetto inibitorio dell’acido p-idrossibenzoico, e dei suoi prodotti di
ozonizzazione, risulta differente in funzione delle diverse concentrazioni, ad
indicare la diversa natura delle vie di inibizione.
Considerato il complesso sistema delle AV, si può ipotizzare che l’inibizione dei
metanigeni dovuti alla ozonizzazione, è la combinazione di differenti fattori. A
titolo d’esempio si cita la formazione di acido azelaico e nonanoico dalla
degradazione dell’acido oleico.
In conclusione a dispetto delle effettive e selettive ossidazioni dei composti di
inibizione nelle AV, il pretrattamento con l’ozono non può ancora essere usato
per migliorare le performance del processo biologico.
123
In alternativa viene proposto l’utilizzo di un metodo integrato per il
trattamento delle AV. Il metodo prevede una fase di pretrattamento
elettrochimico delle acque , usando la reazione elettro-Fenton seguita dal biotrattamento anaerobico. Questo processo rappresenta una combinazione del
processo elettrochimico e l’ossidazione di Fenton. Il processo elettro-Fenton,
rimuove il 65,8% dei composti fenolici totali, e conseguentemente riduce la
tossicità delle AV dal 100% al 66,9%, il risultato è un complessivo
miglioramento nelle performance di digestione anaerobica [285].
L’ossidazione elettrochimica applicata agli effluenti digestati dei rifiuti lattierocaseari sottoposti a digestione anaerobica sono un altro esempio di trattamento
combinato. Il campione dell’effluente digestato, contenente i solidi sospesi,
viene sottoposto a un pretrattamento di filtrazione, prima del trattamento
elettrochimico. L’influenza della ossidazione anodica diretta o indiretta, viene
valutata con l’utilizzo del DSA (Dimensionally Stable Anode) e Ti/PbO2 come
anodo. La diminuzione del tasso di COD, risulta più alta per l’elettrodo di
biossido di titanio rivestito, piuttosto che per il DSA, anche se il DSA risulta
migliore nel diminuire la quantità di azoto ammoniacale (NH4+-N) dovuto
all’accumulo dell’azoto nitrato (NO3--N). I risultati mostrano che la filtrazione
dei solidi sospesi e l’aggiunta di NaCl migliorano l’efficienza dell’ossidazione
elettrochimica nella rimozione dell’ NH4-N nell’effluente digestato [286].
Un altro esempio di trattamento combinato, prevede l’utilizzo di sistemi
convenzionali aerobici, come i reattori a fanghi attivi (FA), i sistemi SBR
(Sequencing Batch Reactor) e i sistemi aerobici a bio-film come l’RBC (Rotating
Biological Contractor), con sistemi anaerobici, come UASB o filtri anaerobici
ibridi (Fan).
Queste tecnologie permettono di lavorare con velocità di carico più elevate e
evitano il washing-out della biomassa.
Il trattamento anaerobico/aerobico, di acque reflue di vinificazione è un
esempio di trattamento combinato.
Questo tipo di trattamento, si adatta più facilmente ai diversi carichi e flussi di
prodotto durante le diverse fasi dell’ anno. Permette di rimuovere un più
elevato carico di COD (98,5-99,2%) rispetto al trattamento aerobico (96,3-97,9%)
da solo, inoltre ha rapidi tempi di recupero dopo periodi in cui si ha scarsità di
reflui [287].
Sempre nell’ambito del trattamento combinato aerobico/anaerobico, un altro
esempio viene dal trattamento di acque reflue industriali derivate da un
processo Fischer Tropsch. Queste acque di scarico sono caratterizzate da una
elevata concentrazione di COD e in particolare dalla presenza di alcoli a catena
lunga, considerati potenziali inibitori. La combinazione del processo
124
anaerobico/aerobico per elevate tassi di carico organico per entrambe le fasi,
costituisce un efficace sistema di trattamento per questo tipo di reflui [288].
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