Download Analisi dello stato dell`arte della ricerca scientifica nel settore della
Transcript
Università degli Studi di Cagliari FASE B Definizione delle attività di R&S Energia da Biomasse e Biocombustibili in Sardegna Analisi dello stato dell’arte della ricerca scientifica nel settore della produzione di energia da biomasse Daniele Cocco1, Antonio Lallai2, Giampaolo Mura2, Marcella Pinna3, Maria Cristina Pinna3, Andrea Salis3 e Vincenzo Solinas3 1Dipartimento di Ingegneria Meccanica, 2Dipartimento di Ingegneria Chimica Piazza D’armi, 09100 – Cagliari (CA) 3Dipartimento di Scienze Chimiche, Complesso Universitario SS 554 bivio Sestu, 09042 Monserrato (CA) 1 Indice 1 LE FILIERE DI CONVERSIONE ENERGETICA DELLE BIOMASSE ................................................................................................. 4 2 I PROCESSI DI CONVERSIONE TERMOCHIMICA ............... 9 2.1 PROBLEMATICHE COMUNI ALLE TRE FILIERE TERMOCHIMICHE ................................................................................................. 10 2.2 PROCESSI DI COMBUSTIONE DELLE BIOMASSE ............................. 17 2.2.1 Produzione di energia termica ............................................................... 19 2.2.2 Produzione di energia elettrica .............................................................. 21 2.3 I PROCESSI DI GASSIFICAZIONE DELLE BIOMASSE ....................... 32 2.3.1 La sezione di gassificazione.................................................................... 33 2.3.2 La sezione di condizionamento del syngas .......................................... 38 2.3.3 La sezione di utilizzo del syngas ........................................................... 40 2.4 I PROCESSI DI PIROLISI DELLE BIOMASSE ........................................ 46 2.4.1 Produzione di energia ............................................................................. 49 3 I BIOCARBURANTI........................................................................ 52 3.1 LO SCENARIO DEI CONSUMI ENERGETICI NELL’UNIONE EUROPEA: L’IMPORTANZA DEI BIOCARBURANTI..................................... 52 3.1.1 I Biocarburanti: Biodiesel, bioetanolo, oli vegetali .............................. 54 3.2 OLI VEGETALI ............................................................................................ 56 3.3 IL BIODIESEL ............................................................................................... 57 3.3.1 Processi industriali per la produzione di biodiesel ............................ 57 3.3.2 Materie prime utilizzate per la produzione di biodiesel.................... 59 3.3.3 Metodi innovativi di produzione del biodiesel ................................... 67 3.4 IL BIOETANOLO ......................................................................................... 75 3.4.1 Processi di produzione di bioetanolo.................................................... 76 3.4.2 Bioetanolo di seconda generazione ....................................................... 84 4 LA DIGESTIONE ANAEROBICA ............................................... 87 4.1 IL PROCESSO DI DIGESTIONE ANAEROBICA ................................... 88 4.1.1 Generalità sul processo ........................................................................... 88 4.1.2 Parametri di processo .............................................................................. 88 4.1.3 Parametri di gestione del reattore. ........................................................ 89 4.1.4 Parametri di stabilità del processo. ....................................................... 89 4.1.5 Produzione potenziale di metano.......................................................... 92 4.1.6 Requisiti per la digestione anaerobica .................................................. 93 4.1.7 Vantaggi e svantaggi del trattamento anaerobico............................... 94 4.2 REATTORI ANAEROBICI ......................................................................... 96 4.2.1 Impianti Semplificati ............................................................................... 96 4.2.2 Reattori a Crescita Sospesa ..................................................................... 97 4.2.3 Reattori Ibridi ......................................................................................... 101 4.2.4 Altri tipi di reattori ibridi ...................................................................... 103 4.3 SUBSTRATI UTILIZZABILI PER LA DIGESTIONE ANAEROBICA 105 4.4 Classificazione Biomasse .......................................................................... 105 4.5 FRAZIONE ORGANICA DEI RIFIUTI SOLIDI URBANI (FORSU) .. 107 2 4.5.1 Composizione dei rifiuti ....................................................................... 107 4.5.2 Pre-trattamento ...................................................................................... 108 4.5.3 Problemi specifici per la digestione anaerobica nei RSU ................. 108 4.5.4 Vantaggi della digestione anaerobica nei RSU .................................. 109 4.5.5 Effetto del Calore e della Microaerazione nella Digestione Anaerobica della FORSU .................................................................................. 109 4.5.6 Modellazione del Processo ................................................................... 110 4.6 CODIGESTIONE ........................................................................................ 111 4.6.1 Modello Matematico Applicato alla Codigestione ........................... 112 4.7 DIGESTIONE ANAEROBICA DI COMPOSTI TOSSICI e EFFETTID’INIBIZIONE ....................................................................................................... 114 4.7.1 Composti Recalcitranti e Xenobiotici .................................................. 114 4.7.2 Effetto di Composti Tossici in un Reattore UASB ............................. 116 4.7.3 Biodegradazione Anaerobica e Tossicità di Clorofenoli Trattati con Reattori Anaerobici a Letto Fluidificato ......................................................... 117 4.7.4 Altri Inibitori e Composti Tossici ........................................................ 118 4.8 PRODUZIONE DI IDROGENO .............................................................. 120 4.8.1 Tipi di fermentazione ............................................................................ 121 4.8.2 Enterobacter, Bacillus, e Clostridium per la Produzione di Idrogeno 121 4.9 TRATTAMENTI COMBINATI ................................................................ 123 5 Bibliografia ...................................................................................... 126 3 1 LE FILIERE DI CONVERSIONE ENERGETICA DELLE BIOMASSE Come ben noto, con il termine biomassa si definisce una categoria di composti, di natura anche molto diversa fra loro, caratterizzati da una matrice di tipo organico, prodotti da organismi viventi (vegetali o animali) e pertanto direttamente derivanti, attraverso il processo di fotosintesi clorofilliana, dall’energia solare. A seconda della provenienza, le biomasse possono essere essenzialmente classificate in biomasse residuali e in biomasse derivanti da apposite coltivazioni energetiche. Appartengono alla prima categoria i residui e gli scarti di origine forestale, agricola e agro-industriale, nonché la frazione umida dei rifiuti solidi urbani. Il recupero energetico delle biomasse residuali appare doppiamente vantaggioso in quanto da un lato riduce la dipendenza dai combustibili fossili mentre dall’altro contribuisce ad alleggerire le problematiche ambientali legate allo smaltimento finale di tali residui (per esempio, è noto che i processi naturali di degradazione delle sostanze organiche liberano metano, un composto che contribuisce all’aumento dell’effetto serra in una misura di oltre 20 volte superiore a quella della CO2). Le biomasse derivanti da coltivazioni energetiche sono a loro volta classificabili in colture oleaginose (come colza, soia, girasole, palma, ecc.) dalle quali si producono oli vegetali e biodiesel, colture alcoligene (come la canna da zucchero, il sorgo zuccherino, la barbabietola da zucchero, il mais, ecc.) dalle quali si produce l’etanolo, e da colture ligno-cellulosiche (che includono specie legnose come il pioppo, la robinia, l’eucaliptus, ecc., specie erbacce poliennali come la canna comune e il miscanto, oppure specie erbacee annuali come il sorgo da fibra) impiegate per produrre sostanza secca combustibile. Per quanto i possibili e auspicabili contributi energetici derivanti dalle biomasse residuali possano risultare apprezzabili, appare del tutto evidente che un contributo significativo al bilancio energetico mondiale può provenire solamente dalla diffusione di coltivazioni energetiche dedicate. Le motivazioni alla base del recente impulso impresso alle attività di valorizzazione energetica delle biomasse sono di diversa natura. Infatti, potendo essere accumulate in maniera relativamente facile, le biomasse non soffrono dei problemi di aleatorietà e discontinuità che invece penalizzano la produzione di energia da altre fonti rinnovabili come l’eolico, il solare e l’idroelettrico ad acqua fluente. Le biomasse, inoltre, in relazione alle loro caratteristiche possono essere impiegate per produrre una vasta gamma di combustibili solidi (cippato, pellets, bricchette), liquidi (etanolo, oli vegetali, biodiesel) e gassosi (biogas, gas di sintesi), a loro volta utilizzabili come vettori energetici per produrre energia elettrica e/o termica o come sostituti dei combustibili fossili nel settore dei trasporti. I benefici ambientali consistono 4 essenzialmente in una riduzione delle emissioni inquinanti e di gas serra, nonché dei quantitativi di residui avviati a discarica. In relazione all’incremento dei costi delle fonti fossili convenzionali, l’utilizzo delle biomasse porterà anche benefici sul fronte economico attraverso la riconversione di una parte del settore agricolo, la riduzione dei costi di approvvigionamento energetico dall’esterno e la valorizzazione di residui, rifiuti e sottoprodotti. A seconda delle caratteristiche intrinseche delle biomasse (composizione chimica, umidità, densità, ecc.) e della tipologia di utilizzo finale (combustibile per autotrazione, per la produzione di energia termica, di energia elettrica, ecc.), le filiere di conversione energetica possono presentare configurazioni anche molto diverse fra loro. Come schematicamente mostrato nello schema di figura 1, la composizione delle biomasse ha una influenza fondamentale sulla scelta del processo di conversione. Infatti, nel caso di biomasse ricche di sostanze nutritive azotate (rapporto carbonio/azoto, C/N, minore di 30) e con elevata umidità (superiore al 30% circa) i processi di conversione più adatti sono quelli di tipo biochimico come la fermentazione alcolica (nel qual caso è di fondamentale importanza il contenuto di zuccheri o di amidi), la digestione anaerobica e la digestione aerobica, nei quali le trasformazioni chimiche sono attivate dall’azione di microrganismi originariamente presenti nei vegetali in presenza di opportune condizioni di temperatura, pressione, etc. Viceversa, nel caso di biomasse con minori tenori di umidità (inferiori del 30%) ed elevata presenza di composti a base di carbonio (rapporto C/N superiore a 30), i processi di conversione più adatti sono quelli di tipo termochimico come la combustione, la gassificazione e la pirolisi, nei quali le trasformazioni chimiche avvengono in presenza di elevati valori di temperatura, con significativi scambi termici. Tipologia del Processo Biochimico C/N Umidità <30 >30% Termochimico >30 <30% Fisico-chimico - - PROCESSO DI CONVERSIONE Fermentazione Digestione anaerobica Digestione aerobica Combustione Gassificazione Pirolisi Estrazione di oli Transesterificazione Compattazione Prodotto principale Bioetanolo Biogas Energia termica Energia termica Gas di sintesi Gas di pirolisi, olio Olio vegetale Biodiesel Pellets Figura 1.1 – Classificazione dei processi di conversione energetica delle biomasse. Nel caso poi di specie vegetali o residui ricchi di oli (che nel caso dei semi più largamente utilizzati è dell’ordine del 35-50%), si impiegano processi di 5 conversione di tipo chimico-fisico finalizzati all’estrazione degli oli vegetali grezzi e poi, eventualmente, alla loro trasformazione chimica mediante esterificazione in biodiesel. Appartengono alla medesima categoria anche i processi di macinazione, agglomerazione e compattazione (produzione di pellets e bricchette) cui vengono sottoposte le biomasse solide al fine di facilitarne il trasporto, lo stoccaggio e l’impiego. Zuccherine (Canna, Sorgo, Estrazione Succo Amidacee (Mais, Patate, Frumento) Oleaginose (Colza, Soia, Girasole) Estrazione e Depurazione Compattazione, essiccazione Combustione Gassificazione Pirolisi frazione umida RSU, Reflui Trasporti, energia termica, Esterificazione Biodies oli vegetali Trasporti, energia Liquefazione e Saccarificazione Idrolisi Lignocellulosiche (Pioppo, Etanol Fermentazione e distillazione Zuccheri Energia termica, energia Oli vegetali Zuccheri Fermentazione e distillazione Pellet, Cippato, ecc. Energia termica Trasporti, energia termica, Trasporti, energia Ciclo a vapore, Stirling, ORC Energia elettrica e termica Turbina a gas, fuel cell, etc. Energia elettrica e termica Turbina a gas, fuel cell, etc. Energia elettrica e termica Syngas Olio, Syngas, Char Digestione anaerobica Etanol Biogas Energia termica, energia Figura 1.2 – Principali filiere di conversione energetica delle biomasse. In relazione alle caratteristiche intrinseche delle specie vegetali considerate (composizione chimica, umidità, densità, etc.) ed alla tipologia di utilizzo finale (combustibile per autotrazione, per la produzione di energia termica, di energia 6 elettrica, etc.), le filiere di conversione energetica delle biomasse possono presentare configurazioni anche molto diverse fra loro. La figura 1.2 riporta in maniera molto schematica le principali filiere di conversione energetica delle biomasse in combustibili disponibili per l’utilizzatore finale, ovvero in vettori energetici impiegabili in sostituzione dei combustibili fossili convenzionali nel settore dei trasporti e per la produzione di energia elettrica e/o di energia termica. In particolare, le filiere di maggiore interesse sono essenzialmente quelle che si originano da specie vegetali ad elevato contenuto di zuccheri o di amidi, a partire dalle quali è possibile produrre l’etanolo impiegabile come sostituto della benzina nei motori a combustione interna per autotrazione, oppure anche per la produzione di energia elettrica e/o termica in sistemi di generazione elettrica ad alta efficienza e basso impatto ambientale come turbine a gas, motori alternativi a combustione interna e celle a combustibile. Tale filiera può essere implementata ricorrendo a tecnologie convenzionali e disponibili da tempo sul mercato, essendo il bioetanolo già prodotto in consistenti quantitativi in Paesi come il Brasile e gli Stati Uniti. Un’altra filiera già disponibile a livello industriale, e quindi facilmente implementabile, è quella di produzione del biodiesel (o anche dei meno raffinati oli vegetali grezzi) a partire da colture oleaginose. Anche in questo caso esiste un’ampia esperienza in Europa e in molti altri Paesi, con consistenti produzioni di biodiesel destinato soprattutto alla sostituzione del gasolio nei motori a combustione interna e nelle caldaie per riscaldamento. Tuttavia, ai fini della produzione di energia elettrica possono essere facilmente impiegati anche i più semplici oli vegetali grezzi per l’alimentazione di motori a combustione interna a ciclo Diesel, motori che possono peraltro operare efficacemente anche in cogenerazione. L’impiego di specie vegetali ligno-cellulosiche appare invece più variegato e origina diverse filiere di produzione di combustibili derivati. La filiera più diffusa prevede un più o meno complesso trattamento meccanico ed eventualmente termico delle biomasse grezze (legna da piantagioni a ciclo breve, colture fibrose come il miscanto, la canna, il sorgo, etc.) al fine di alimentare un convenzionale impianto di generazione elettrica a vapore, oppure per produrre combustibili solidi per uso riscaldamento (pellet). Le filiere di conversione basate sulla produzione di combustibili gassosi e liquidi mediante processi di gassificazione e di pirolisi, così come quella di produzione dell’etanolo attraverso processi di idrolisi e fermentazione, pur se molto interessanti in una prospettiva futura non hanno ancora raggiunto un sufficiente livello di maturità industriale. 7 Infine, un’altra importante filiera di conversione energetica delle biomasse è quella basata sull’impiego di reflui di tipo zootecnico e della frazione umida dei rifiuti solidi urbani per alimentare processi di digestione anaerobica con produzione di combustibili gassosi utilizzati poi per produrre energia elettrica e termica in motori a combustione interna o in turbine a gas. La scelta del processo di conversione più conveniente dipende pertanto essenzialmente dalla composizione delle biomasse (soprattutto in termini di contenuto di acqua, carbonio, azoto, cloro, zolfo e ceneri, nonché eventualmente zuccheri, amidi e oli), dalle loro proprietà fisiche (caratteristiche fisiche di notevole interesse sono il volume specifico e il potere calorifico) e anche dalla loro disponibilità (la densità energetica territoriale è un parametro che influenza moltissimo la taglia dell’impianto e quindi anche la sua redditività economica). I diversi processi di conversione delle biomasse presentano differenti livelli di maturità industriale e di diffusione commerciale. In ogni caso, l’auspicato aumento della produzione di energia da biomasse è fortemente condizionato ai progressi nel campo delle prestazioni degli impianti, dell’affidabilità di esercizio e del costo, cosicché questo settore vede impegnata una notevole quantità di risorse economiche ed umane nelle attività di ricerca e sviluppo. Nel prosieguo si approfondirà lo stato dell’arte della ricerca nel settore dei processi termochimici per la produzione di energia da biomasse. 8 2 I PROCESSI DI CONVERSIONE TERMOCHIMICA La famiglia dei processi termochimici rappresenta senza dubbio una delle opzioni di maggiore interesse ai fini della produzione di energia da biomasse soprattutto in relazione all’elevata efficienza ad alla ampia versatilità, risultando in grado di fornire sia energia elettrica e/o termica sia combustibili di sintesi di pregio (soprattutto gassosi e liquidi). Come anticipato, la conversione termochimica delle biomasse include sostanzialmente tre diversi processi: la combustione, la gassificazione e la pirolisi. Il principale elemento di caratterizzazione di questi tre processi è relativo all’apporto di ossigeno. La combustione richiede infatti un apporto di ossigeno in quantità almeno pari a quella stechiometricamente necessaria per la completa ossidazione del carbonio, dell’idrogeno e dello zolfo (nella pratica si utilizzano eccessi del 10-30% rispetto allo stechiometrico). La gassificazione si realizza invece attraverso una serie di reazioni che si sviluppano in carenza di ossigeno rispetto ai quantitativi stechiometrici (è pertanto una sorta di combustione parziale), cosicché i prodotti finali sono costituiti da una miscela gassosa composta principalmente da CO, H2, CO2, H2O, CH4, etc. (il cosiddetto syngas). La pirolisi, infine, è un processo che avviene in assenza di ossigeno attraverso il semplice riscaldamento della biomassa (con fornitura di calore dall’esterno) e la sua decomposizione in una frazione gassosa, una liquida e una solida. Fra i processi termochimici, la combustione tramite caldaie e generatori di vapore in sostituzione di combustibili fossili convenzionali ha raggiunto da tempo la maturità industriale e commerciale. Ai fini della produzione di energia elettrica, le realizzazioni industriali sono finora concentrate essenzialmente su impianti di taglia dell’ordine di 10-20 MWe basati su cicli a vapore, dal momento che tale impianto mal si presta ad essere realizzato con taglie molto inferiori a causa di problemi tecnici ed economici. Per questo motivo, le attività di ricerca nel settore della combustione sono finalizzate, oltre che al miglioramento delle prestazioni degli impianti a vapore, soprattutto verso lo sviluppo di sistemi di generazione elettrica di piccola taglia basati su cicli termodinamici diversi da quello a vapore d’acqua (come i motori a ciclo Stirling, gli impianti a ciclo Rankine con fluidi organici, ORC, le turbine a gas a combustione esterna, etc.). L’impiego dei processi di gassificazione e di pirolisi appare molto interessante in una prospettiva futura, in quanto la disponibilità di combustibili gassosi e liquidi di buona qualità può consentire l’utilizzo di sistemi di generazione elettrica di piccola taglia e ad alta efficienza come le turbine a gas, i cicli combinati e le celle a combustibile. Tuttavia, ad oggi tali tecnologie non hanno ancora raggiunto un adeguato livello di maturità 9 industriale e commerciale per cui moltissime attività di ricerca e sviluppo si concentrano proprio in questo settore nel tentativo di superare le maggiori criticità. Indipendentemente dal tipo di processo termochimico impiegato, numerose attività di ricerca si occupano delle problematiche relative al reperimento delle biomasse (coltivazione o semplice raccolta), al trasporto, allo stoccaggio ed al pretrattamento, dal momento che questi aspetti possono condizionare moltissimo l’effettiva fattibilità di un impianto alimentato con biomasse. Analogamente rappresentano problematiche comuni le valutazioni sui bilanci energetici globali, sulle emissioni inquinanti e di gas serra estese all’intero ciclo di vita, l’analisi delle prospettive di redditività, e altre simili. 2.1 PROBLEMATICHE COMUNI ALLE TRE FILIERE TERMOCHIMICHE Nel settore delle coltivazioni energetiche, una grossa parte delle attività di ricerca è attualmente concentrata sulla valutazione degli aspetti agronomici delle colture energetiche ai fini della fattibilità tecnico-economica della intera filiera [1-11]. In quasi tutte le regioni italiane, per esempio, sono in atto progetti di ricerca che attraverso la messa a dimora e la coltivazione di campi sperimentali sono volti a confrontare differenti specie di biomassa da energia. Progetti simili sono in corso anche in numerosi altri paesi, specie in quelli europei. In generale, queste attività di ricerca sono finalizzate ad implementare le conoscenze relativamente a: • metodi di coltivazione delle diverse specie in funzione dell’areale; • adattabilità dei diversi cloni alle condizioni climatiche e alle caratteristiche dei suoli; • produzione di materiale sufficiente per l’avvio di sperimentazioni e coltivazioni su larga scala; • controllo delle malattie e delle infestanti; • ottimizzazione delle operazioni di taglio, raccolta e stoccaggio; • valutazione dei bilanci energetici e ambientali della filiera; • realizzazione di studi di fattibilità economica della filiera in diverse condizioni Nel settore delle biomasse ligno-cellulosiche, le sperimentazioni più diffuse sono quelle che riguardano la canna comune (Arundo Donax), il panico (Panicum Virgatum), il miscanto (Miscanthus Giganteus), il sorgo da fibra (Sorghum spp.), il pioppo (Populus spp.), il salice (Salix a.), l’eucapipto (Eucaliptus spp.), la robinia (Robinia p.), ed altre. Campi sperimentali di alcune fra queste specie (in particolare la canna comune) sono stati allestiti anche da Agris, l’agenzia regionale per la ricerca in campo agricolo, e dal gruppo Sadam, nell’ambito del progetto di riconversione dell’ex zuccherificio di Villasor. Gli 10 obiettivi fondamentali di queste attività sono rappresentati dalla individuazione delle specie più adatte ai diversi contesti, al fine di massimizzare la produzione Figura 2.1 – Colture da energia. netta di energia, tenendo anche conto dei costi energetici ed economici, di coltivazione, trasporto e stoccaggio. Dalle attività condotte fino a questo momento, le specie più interessanti sembrano il miscanto, la canna, il pioppo, il sorgo e il panico, anche se le prime tre presentano costi di impianto molto elevati ma produttività maggiore delle ultime due. In Figura 2.1 e 2.2 sono riportati i risultati di sintesi relativamente alle principali biomasse erbacee e legnose. Fra i principali aspetti da approfondire sono inclusi la durata economica delle colture poliennali, gli aspetti qualitativi delle biomasse prodotte (contenuti di umidità, ceneri, cloro, zolfo, etc.) e il miglioramento delle tecniche agronomiche per ridurre i costi di produzione. In particolare, uno degli aspetti agronomici più studiati è relativo alla ottimizzazione della produzione netta di energia in relazione all’apporto di fertilizzanti e di acqua di irrigazione. In effetti, in molti casi la massimizzazione della produzione netta di energia si ottiene con ridotti apporti di fertilizzanti e di acqua. Un altro importante aspetto da approfondire 11 nei riguardi delle specie energetiche poliennali è relativo all’epoca ottimale di raccolta. Infatti, una raccolta ritardata consente di ridurre il tenore di umidità delle biomasse (riducendo così i costi di trasporto, le problematiche di stoccaggio a lungo termine e il rendimento energetico dei processi di conversione energetica). D’altra parte, una raccolta troppo ritardata determina anche maggiori perdite sul campo di sostanza secca. L’altro importante filone di ricerca in questo settore riguarda il miglioramento della meccanizzazione agricola, specie per quanto concerne la messa a dimora delle piantine e la raccolta della biomassa. Altre importanti aree di ricerca e sviluppo si occupano dei diversi trattamenti meccanici e/o termici delle biomasse, finalizzati a ridurne ed omogeneizzarne le dimensioni ed eventualmente a ridurne l’umidità [12, 13]. In particolare, i trattamenti più complessi sono riservati alle biomasse utilizzate in impianti di riscaldamento di piccola taglia (che utilizzano preferibilmente combustibili addensati come pellet e bricchette), mentre minori trattamenti sono richiesti per le biomasse utilizzate nei generatori di vapore di medio-grande taglia (che utilizzano in genere cippato oppure, nel caso delle biomasse erbacee, trinciato o balle). In ogni caso, ai fini dell’impiego in un processo di combustione le caratteristiche chimico-fisiche delle biomasse più importanti sono l’umidità e il potere calorifico, per quanto possano essere di non trascurabile importanza anche i tenori di ceneri, cloro, azoto e zolfo e il volume specifico. 12 L’umidità e il potere calorifico, oltre ad essere strettamente correlati fra loro, assumono anche un ruolo determinante ai fini della effettiva valorizzazione Figura 2.2 – Tecniche agronomiche. energetica ed economica delle biomasse dal momento che condizionano fortemente i costi di raccolta, trasporto e movimentazione da un lato e il rendimento del processo di combustione dall’altro. Infatti, il componente utile dal punto di vista energetico è costituito dalla sostanza secca (l’unico caratterizzato da un suo potere calorifico) mentre l’acqua rappresenta di fatto un componente indesiderato. Per esempio, in corrispondenza di un’umidità del 50-55% (tipico valore dell’umidità alla raccolta di molte specie legnose) il rapporto fra la massa della biomassa tal quale e la massa di sostanza secca è circa pari a 2, mentre per una umidità dell’ordine dell’80% (tipico valore alla raccolta di molte biomasse erbacee), tale rapporto è pari a 5. Analogamente, il potere calorifico inferiore di una biomassa, ovvero l’energia termica effettivamente recuperabile a seguito di un processo di combustione, diminuisce linearmente con l’aumento della sua umidità, fino ad annullarsi del tutto per valori dell’umidità dell’ordine dell’88-90%. In pratica, la combustione 13 di biomasse con valori di umidità superiori al 65-70% non è in grado di sostenersi. Ai fini della combustione delle biomasse assume notevole importanza anche il tenore di ceneri, ovvero la frazione sul tal quale di materiale inorganico (cioè la sostanza non combustibile) che si ritrova come residuo alla fine del processo di combustione. Elevati valori del tenore di ceneri determinano una diminuzione del potere calorifico, un aumento dei costi di smaltimento delle ceneri e maggiori problemi legati alla possibile formazione di incrostazioni, corrosioni ed erosioni nella caldaia. Il contenuto di ceneri su base secca è solitamente compreso fra lo 0,5 % e l’1,5 %, anche se talvolta, come nel caso delle paglie, può arrivare a valori del 10-15%. Risulta inoltre importante valutare la temperatura di fusione delle ceneri, che di solito risulta inferiore a quella delle ceneri da carbone (1200-1250°C contro 1350-1450°C). Uno fra gli argomenti di maggiore attualità nell’ambito delle attività di ricerca e sviluppo nel settore della produzione di energia da biomasse riguarda la valutazione sulle migliori opzioni di filiera [14-21]. Come noto, tale scelta non può basarsi esclusivamente su criteri di tipo economico (aspetto tuttora estremamente critico, soprattutto sul fronte della remunerazione per gli agricoltori e pertanto anch’esso oggetto di numerosi studi e approfondimenti), ma dovrebbe anche considerare gli aspetti ambientali (le minori emissioni inquinanti o di gas serra) ed energetici (la maggiore produzione di energia per unità di superficie coltivata o il maggiore rapporto fra output e input energetici). Infatti, se è vero che l’energia chimica delle biomasse rappresenta una sofisticata forma di accumulo dell’energia solare, è altrettanto vero che per coltivare, raccogliere e trasformare tale biomassa in una forma adatta all’utilizzatore finale (combustibile, energia elettrica, energia termica) occorre impiegare un quantitativo più o meno elevato di energia e di materiali e quindi emettere anche sostanze inquinanti nell’ambiente. Appare infatti evidente che un bilancio energetico di filiera chiuso in attivo rappresenta l’irrinunciabile presupposto ai fini della effettiva garanzia di sostenibilità ambientale. A tal proposito si possono reperire in letteratura un gran numero di lavori aventi per oggetto analisi di tipo LCA (Life Cycle Analysis) più o meno dettagliate delle filiere di conversione energetica delle biomasse. Come è noto la LCA è una metodologia che quantifica gli impatti ambientali potenziali di un prodotto o un servizio lungo l'intero ciclo della sua vita, dall'estrazione delle materie prime a tutte le fasi di produzione, uso e manutenzione fino alla dismissione del prodotto stesso. Attraverso un inventario dei flussi in entrata ed in uscita dal sistema (input di materia, energia, uso del suolo, emissioni in acqua, aria, suolo, ecc.) la LCA permette di quantificarne le performance ambientali, mediante l'uso di opportuni indicatori di impatto (effetto serra, 14 diminuzione dello strato di ozono, acidificazione, consumo di energia primaria, ecc.). In termini del tutto generali, nell’ambito di una determinata filiera gli studi LCA considerano le seguenti voci di input: 9 i combustibili direttamente consumati dalle macchine agricole, dai mezzi di trasporto e dall’impianto di trasformazione dei prodotti agricoli, in ogni caso riportati sotto forma di energia primaria (ovvero includendo la spesa energetica per l’estrazione delle fonti primarie, il trasporto e la trasformazione in combustibili commerciali); 9 l’energia elettrica direttamente consumata dagli impianti di pompaggio dell’acqua di irrigazione e dall’impianto di trasformazione dei prodotti agricoli (riportata come energia primaria utilizzata dalle centrali termoelettriche); 9 l’energia primaria richiesta per produrre i fertilizzanti, le sementi, gli antiparassitari e gli altri eventuali mezzi di produzione (compresa l’energia consumata per produrre e installare i macchinari agricoli e industriali). 9 Analogamente, vengono valutati i flussi energetici resi disponibili dalla filiera, rappresentati da: 9 l’energia utile in uscita, equivalente all’energia primaria della fonte fossile sostituita (che pertanto include anche le perdite di estrazione, di trasporto e di conversione); 9 il credito energetico degli eventuali residui e sotto-prodotti. Dall’esame di numerosi studi LCA disponibili emerge che, in linea di massima, i bilanci energetici ed ambientali di filiera evidenziano i migliori risultati nel caso di produzione di energia elettrica da biomasse erbacee o arboree, con rapporti output/input nell’intorno di 8-10 ed emissioni specifiche di gas serra dell’ordine del 10-15% rispetto a quelle derivanti dai combustibili fossili. Meno performanti risultano invece le filiere basate sull’utilizzo degli oli vegetali (colza, girasole, etc.) per produrre energia elettrica mediante motori a combustione interna di grande taglia, che comunque appaiono di poco preferibili alla produzione di biodiesel. In merito alla filiera di produzione dell’etanolo gli studi LCA evidenziano, in generale, la scarsa convenienza dell’impiego della barbabietola da zucchero e del mais, mentre potrebbe essere interessante l’implementazione di una filiera basata sulla coltivazione del sorgo zuccherino (molto simile a quella della canna da zucchero). Tuttavia, occorre evidenziare il fatto che dall’analisi dei risultati degli studi LCA non è sempre possibile stabilire in assoluto se una categoria di combustibile (rinnovabile o fossile) sia più o meno vantaggiosa dell’altra, in particolare se si vuole compiere una valutazione su base scientifica. Le difficoltà 15 metodologiche e la frequente mancanza di indicatori affidabili richiedono un ulteriore sforzo di ricerca per approfondire l’applicazione della LCA al caso delle biomasse per energia e fornire ulteriori strumenti di valutazione al decisore pubblico. 16 2.2 PROCESSI DI COMBUSTIONE DELLE BIOMASSE La combustione diretta è stata la prima modalità di utilizzo delle biomasse a fini energetici. Altre tecnologie di conversione termochimica delle biomasse, come la pirolisi e la gassificazione, sono certamente note ed utilizzate da tempo, ma oltre a rappresentare un’opzione minoritaria (si stima che oltre il 96-97% della produzione di energia da biomasse derivi attualmente da processi di combustione) necessitano ancora di consistenti attività di ricerca e sviluppo per affermarsi commercialmente. I processi di combustione delle biomasse possono essere finalizzati alla produzione di energia termica per usi diretti (riscaldamento di ambienti o di fluidi di processo) o per la successiva conversione in energia meccanica (e quindi in energia elettrica) mediante cicli termodinamici [22-25]. La combustione delle biomasse in stufe, caldaie e forni rappresenta fondamentalmente una tecnologia ormai matura e consolidata dal punto di vista industriale e commerciale. Pertanto, le attività di ricerca e sviluppo nel settore della combustione delle biomasse sono fondamentalmente indirizzate verso l’ulteriore miglioramento delle prestazioni (il rendimento di combustione), specie nel caso di combustibili non convenzionali o di miscele di differenti combustibili, e nella riduzione delle emissioni inquinanti (in termini soprattutto di particolato, NOX, CO e HC). Limitatamente agli impianti di riscaldamento di piccola taglia, si lavora ovviamente moltissimo per aumentare il livello di automazione e il confort di impiego, oltre che per ridurre i costi. Se la combustione in sé presenta tutto sommato limitati margini di miglioramento, risultano invece molto più ampi gli spazi nel settore della produzione di energia elettrica, laddove si deve intervenire essenzialmente nei confronti del ciclo termodinamico. Come noto, in un qualunque impianto motore termico l’anello più debole di tutta la catena dei processi di conversione dell’energia è rappresentato proprio dal ciclo termodinamico. Mentre il rendimento di combustione e il rendimento elettromeccanico assumono valori già molto elevati e pertanto suscettibili solo di miglioramenti marginali (il rendimento di combustione è solitamente dell’ordine dell’85-90% mentre il rendimento elettromeccanico supera facilmente il 90-95%), i noti limiti imposti dal secondo principio della termodinamica spingono verso rendimenti del ciclo termodinamico che solo nel caso degli impianti di maggiori dimensioni (per i quali si giustificano costosi accorgimenti circuitali) superano il 50%. Nel caso dell’impiego di biomasse, le taglie forzatamente ridotte e la necessità di contenere gli investimenti iniziali impongono soluzioni più semplici e con rendimenti decisamente più bassi. Gli attuali impianti di generazione elettrica alimentati con biomasse sono praticamente tutti basati su cicli a vapore d’acqua molto semplici e caratterizzati da rendimenti termodinamici raramente 17 superiori al 30% e rendimenti globali dell’ordine del 25-26% In relazione ai limitati quantitativi di biomasse reperibili entro raggi di raccolta ragionevoli, la potenza elettrica di questi impianti è infatti necessariamente limitata a valori dell’ordine di 10-20 MWe (solo in alcuni impianti realizzati nel Nord Europa o negli Stati Uniti si hanno potenze elettriche dell’ordine di 50-60 MWe). Rendimenti più elevati, confrontabili con quelli delle centrali termoelettriche a vapore alimentate con carbone (40-44%) potrebbero essere conseguiti solo con impianti di taglia molto maggiore (300-400 MW), di fatto improponibili in relazione alla pratica impossibilità di approvvigionamento delle biomasse entro raggi di raccolta ragionevoli. Laddove percorribile, la soluzione migliore per valorizzare le biomasse è attualmente rappresentata dall’utilizzo in centrali termoelettriche di grande taglia in co-combustione con i combustibili fossili convenzionali (carbone), in quanto garantisce vantaggi in termini economici, energetici e logistici. La co-combustione di carbone con biomasse trova diverse applicazioni industriali, in quanto facilmente implementabile anche in impianti esistenti. Su questo fronte, le attività di ricerca sono pertanto tese a individuare le migliori condizioni di alimentazione e di utilizzo delle biomasse (particolarmente importante appare l’individuazione della dimensione ottimale delle biomasse alimentate), dal momento che ci si trova spesso a intervenire su generatori di vapore esistenti e non specificatamente progettati per questo tipo di impiego. Data la natura dispersa delle biomasse sul territorio, la necessità di evitare trasporti di materiali a bassa densità energetica su lunghe distanze porta a preferire soluzioni impiantistiche di piccola taglia (ovvero le cosiddette filiere corte). Gli impianti basati su cicli a vapore d’acqua, per motivazioni di carattere economico ed energetico, mal si prestano ad impianti di piccole dimensioni (orientativamente sotto i 5-7 MWe un impianto a vapore non risulta conveniente). Nell’ambito del panorama scientifico internazionale è possibile rilevare un ampio fronte di attività di ricerca finalizzate ad individuare alternative al classico ciclo a vapore. Le soluzioni più frequentemente proposte sono essenzialmente basate su cicli ORC, su motori Stirling, su cicli di turbina a gas a combustione esterna ma anche su impianti a vapore basati su motori alternativi a vapore in sostituzione delle classiche turbine a vapore. Infine, come in tutti i sistemi di conversione dell’energia basati su cicli termodinamici, la soluzione ottimale per massimizzare l’indice di sfruttamento energetico delle biomasse è rappresentata dall’utilizzo in impianti per la produzione combinata di energia elettrica e termica (impianti di cogenerazione o CHP, Combined Heat and Power). Ovviamente, tale soluzione presuppone la presenza di una contemporanea richiesta di energia elettrica e di energia termica (per usi di riscaldamento, di processo o anche per l’azionamento di 18 macchine ad assorbimento per la produzione di freddo). Anche in questo caso, le attività di ricerca e sviluppo nel settore sono indirizzate verso impianti di cogenerazione di medio-piccola taglia, anche al fine di poter più facilmente incrociare la contemporanea presenza di un carico elettrico e termico. Nel prosieguo verranno approfondite le principali attività di ricerca e sviluppo attualmente in corso nei settori sopra descritti. 2.2.1 Produzione di energia termica Essendo la combustione un processo tecnologicamente ormai maturo e consolidato dal punto di vista industriale e commerciale, le attività di ricerca e sviluppo in questo settore sono fondamentalmente concentrate nell’ulteriore miglioramento delle prestazioni, specie nel caso di impiego di combustibili non convenzionali o di miscele di differenti combustibili e nella riduzione delle emissioni inquinanti Dal punto di vista dell’impiego come combustibile, le biomasse offrono diversi vantaggi come l’elevata volatilità e l’elevata reattività. Di contro, rispetto ai combustibili fossili convenzionali le biomasse sono caratterizzate da un minore rapporto carbonio/ossigeno e, conseguentemente, da un minore potere calorifico. La velocità di combustione delle biomasse è notevolmente più elevata di quella del carbone [26-28]. Le biomasse vengono pertanto diffusamente utilizzate come combustibile primario in sistemi di combustione dedicati come stufe, caldaie per riscaldamento domestico e generatori di vapore. Inoltre, le biomasse possono essere utilmente utilizzate in cocombustione con carbone, realizzando in tal modo importanti vantaggi energetici, economici ed ambientali. Dal punto di vista dell’utilizzo come combustibile, le maggiori difficoltà di impiego delle biomasse risiedono nella variabilità delle loro caratteristiche e soprattutto negli elevati tenori di umidità e ceneri. In relazione a quest’ultimo aspetto, cui è legato anche il ridotto potere calorifico, si possono osservare difficoltà nella realizzazione di combustioni stabili e complete, nonché problemi di ignizione. Inoltre, la bassa temperatura di fusione delle ceneri può causare problemi di sporcamento e corrosione delle apparecchiature. Proprio in relazione a tali inconvenienti, la sperimentazione condotta negli anni recenti ha dimostrato i vantaggi della co-combustione delle biomasse con carbone. I principali settori di indagine nel settore della co-combustione sono relativi alle modalità di alimentazione e di stoccaggio delle biomasse, al potenziale aumento dei fenomeni di corrosione e di sporcamento delle superfici di scambio termico, alla riduzione dell’efficienza di combustione, agli effetti sulle caratteristiche delle ceneri pesanti e delle ceneri leggere, alle prestazioni dei sistemi di controllo delle emissioni al camino [29-34]. 19 Nel settore degli impianti di riscaldamento di piccola taglia (riscaldamento domestico) negli ultimi anni si sono diffuse notevolmente le stufe e le caldaie a pellet, le quali hanno fra i punti di maggiore forza un elevato grado di automazione. Il combustibile utilizzato è abbastanza standardizzato e si lavora soprattutto sul miglioramento delle prestazioni energetiche (anche se il rendimento è oramai paragonabile a quello dei sistemi convenzionali) ed ambientali (per ridurre ulteriormente le emissioni in atmosfera si lavora sullo sviluppo di sistemi di filtrazione dei gas e sistemi catalitici di riduzione delle concentrazioni di NOx, CO e HC). Ovviamente, poi come in tutti i settori, molte attività sono finalizzate alla riduzione dei costi di produzione. Interessanti prospettive in questo settore possono aprirsi con riferimento al possibile impiego di pellets di bassa qualità prodotti non più a partire da segatura di legno ma da residui agricoli e forestali oppure da coltivazioni legnose ed erbacce dedicate (il cosiddetto agri-pellet). Le paglie e i prodotti da coltivazioni erbacee possono essere utilizzati per la produzione di pellet senza grandi difficoltà e con minori consumi energetici rispetto al legno. Peraltro i pellet da colture foraggere sono già prodotti per usi zootecnici. In questo caso il pellet è caratterizzato da una maggiore presenza di ceneri (da meno dello 0,5% del legno a circa il 5%), da un minore potere calorifico (circa il 10% in meno), da una maggiore friabilità e da una maggiore presenza di cloro, potassio azoto e zolfo. I sistemi di combustione di questo tipo di pellet devono essere in grado di adeguare automaticamente le proprie condizioni di funzionamento in relazione al combustibile al fine di mantenere ridotti livelli di emissioni gassose ed elevati rendimenti di combustione. In particolare, si lavora moltissimo sui sensori per misurare in continuo le concentrazioni di CO, HC e O2 al fine di adeguare con continuità l’eccesso d’aria alle caratteristiche del combustibile ed al carico. La maggiore presenza di ceneri e di elementi come il potassio e il cloro possono essere causa di maggiori sporcamenti e corrosioni. Un’altra problematica sulla quale si lavora è data dallo smaltimento dei maggiori quantitativi di ceneri prodotte. Evidentemente, in relazione alle sopracitate problematiche, un pellet di questo tipo può essere ottimamente utilizzato, oltre che in sistemi di piccola taglia, anche in caldaie di maggiori dimensioni, nelle quali gli interventi di adeguamento sono più facilmente implementabili. Attualmente esiste un solo impianto di grande taglia alimentato con pellet prodotti da paglie di cereali (in Danimarca, con un consumo annuo di circa 130000 t). Gli impianti di combustione di media e grande taglia alimentati con biomasse cippate sono ampiamente utilizzati in contesti forestali nei quali vi sia una sufficiente disponibilità di residui a basso costo. Tali impianti sono competitivi anche laddove si riesca a reperire la biomassa appositamente coltivata e a basso costo. Inoltre si osserva una forte attenzione verso lo sviluppo dei sistemi di 20 combustione delle paglie (di frumento, orzo, mais, etc.) e di biomasse erbacee in genere. Le attività di sviluppo in questo settore sono fondamentalmente focalizzate da un lato verso il miglioramento e l’ottimizzazione della catena di approvvigionamento, trasporto e stoccaggio delle balle e dall’altro a migliorare il processo stesso di combustione in relazione soprattutto ad alcune caratteristiche chimico-fisiche di queste biomasse come l’elevato tenore di cloro e di composti alcalini. Anche il problema di minimizzare lo sporcamento delle superfici di scambio termico del generatore di vapore risulta particolarmente importante, specie in relazione al fatto che in questi impianti vengono spesso utilizzate biomasse di differente composizione e differente provenienza e qualità. Da qualche anno è operativo in Spagna nella regione di Navarra un impianto di generazione elettrica da circa 25 MWe alimentato con paglie residuali di frumento, orzo e mais raccolte nella zona (circa 160000 t/anno). In casi come questi i principali problemi da risolvere sono legati alla filiera di raccolta, trasporto e stoccaggio delle biomasse (raccolte a carattere stagionale) ed ai contratti a lungo termine con la componente agricola. La presenza nelle paglie di composti alcalini a base di cloro e potassio comporta diversi problemi di corrosione, riduzione della vita dei catalizzatori impiegati nei sistemi SCR per la riduzione della concentrazione di NOX e anche di qualità delle ceneri leggere recuperate dai sistemi di filtrazione. In questo settore, uno dei fronti di ricerca aperti è legato al pretrattamento delle biomasse al fine del lavaggio delle stesse per la riduzione del contenuto di queste sostanze. In effetti, gli alcali sono fondamentalmente solubili in acqua, anche se tale lavaggio rimuove anche una parte di sostanza organica (e quindi anche del contenuto energetico), richiedendo un trattamento specifico delle acque di lavaggio. In realtà la ricerca in questo settore tende anche a massimizzare l’estrazione di composti organici da impiegare successivamente per la produzione di etanolo. 2.2.2 Produzione di energia elettrica Nell’ambito della produzione di energia elettrica da biomasse, i miglioramenti delle prestazioni energetiche globali richiedono, oltre che l’ottimizzazione del processo di combustione in accordo a quanto precedentemente discusso, soprattutto l’incremento del rendimento di conversione energetica del ciclo termodinamico. Gli impianti di generazione elettrica alimentati con biomasse attualmente operativi sono praticamente tutti basati su cicli a vapore. In relazione ai limitati quantitativi di biomasse reperibili entro raggi di raccolta ragionevoli, la potenza elettrica di questi impianti è necessariamente limitata a valori dell’ordine di 10-20 MWe (solo in alcuni impianti realizzati nel Nord Europa o negli Stati Uniti si hanno potenze elettriche dell’ordine di 50-60 MWe) e rendimenti dell’ordine del 25-28%. Rendimenti più elevati, confrontabili con quelli delle centrali termoelettriche a vapore alimentate con carbone (40-44%) 21 potrebbero essere conseguiti solo con impianti di taglia molto maggiore (300400 MW), di fatto improponibili in relazione alla pratica impossibilità di approvvigionamento delle biomasse entro raggi di raccolta ragionevoli. Laddove possibile, la soluzione ottimale per valorizzare al meglio le biomasse è rappresentata dall’utilizzo in impianti di cogenerazione per la produzione combinata di energia elettrica e termica oppure in centrali termoelettriche di grande taglia in co-combustione con i combustibili fossili convenzionali (carbone), in quanto garantisce vantaggi in termini economici, energetici e logistici. Infatti, in questo caso non risulta necessario realizzare un nuovo impianto dedicato e si trae vantaggio dal maggiore rendimento di conversione. Nel settore degli impianti di generazione elettrica alimentati con biomasse si registra inoltre una intensa attività di ricerca e sviluppo finalizzata alla individuazione di valide alternative al classico ciclo a vapore, soprattutto in relazione alla necessità di realizzare impianti di piccola potenza. Come meglio descritto nel seguito, le soluzioni studiate sono essenzialmente basate su cicli ORC, su motori Stirling, su cicli di turbina a gas a combustione esterna ma anche su impianti a vapore basati su motori alternativi a vapore in sostituzione delle classiche turbine a vapore. Infine, una recente novità nel settore della produzione di energia elettrica da biomasse è costituita dallo sviluppo, specie in Italia, delle centrali elettriche ad olio vegetale basate sull’uso di grandi motori a ciclo Diesel. Motori volumetrici a vapore. Nei convenzionali impianti a vapore d’acqua a ciclo Rankine, il limite inferiore di potenza è dato soprattutto dalla difficoltà di realizzazione di turbine a vapore efficienti e di piccole dimensioni. Una possibile alternativa alla turbina a vapore è costituita dai motori alternativi a vapore (a pistoni e a vite). In entrambi i casi, si tratta di macchine volumetriche nelle quali il volume della camera di lavoro cambia ciclicamente. Un impianto a vapore di piccola taglia (circa 700 kWe) basato su un motore a vapore a vite è stato realizzato in Austria ad Hartberg nel 2003 come integrazione di una preesistente caldaia a biomasse usata per il teleriscaldamento. Il vapore viene alimentato a circa 25 bar e 255°C ed estratto a 0,5-1,5 bar e 80-110°C. Il rendimento elettrico netto è dell’ordine del 10-12%, mentre quello cogenerativo è dell’80-85%. Peraltro, uno dei vantaggi di questo tipo di motore è che il rendimento non diminuisce di molto a carico parziale. Inoltre, il funzionamento di questo tipo di motore non risente del titolo del vapore e risulta pertanto particolarmente interessante quando l’espansione procede verso titoli molto bassi (che risultano invece deleteri per le convenzionali turbine a vapore). Le attività di ricerca in questo campo sono finalizzate alla standardizzazione ed alla ottimizzazione del motore al fine di ridurre i costi di investimento. 22 Figura 2.3 – Motore a vapore a vite. Analogamente, si lavora per realizzare macchine che possano accettare maggiori temperature del vapore all’ingresso[35]. Cicli Rankine a Fluido Organico. Pur non essendo certamente una scoperta degli ultimi anni, recentemente si è avuto un notevole sviluppo nel settore dei cicli Rankine a fluidi organici (ORC, Organic Rankine Cycle) proprio con riferimento al settore dell’utilizzo energetico delle biomasse [36-38]. Questi impianti sono caratterizzati dal fatto di utilizzare fluidi operativi diversi dall’acqua per realizzare un ciclo Rankine e vengono solitamente proposti con potenze nette da circa 300-400 kWe fino a circa 1,2-1,5 MWe e rendimenti netti dell’ordine del 15-20%. I fluidi organici impiegati sono caratterizzati da temperature critiche inferiori a quelle dell’acqua, cosicché a parità di pressione, si hanno minori temperature di vaporizzazione. La successione delle trasformazioni del fluido è quella solita dei cicli Rankine semplici, ovvero vaporizzazione e surriscaldamento in caldaia (o in uno scambiatore di calore), espansione in turbina, condensazione e compressione. Nel caso, molto frequente, di impianti destinati ad operare in cogenerazione, la condensazione del fluido operativo consente di produrre l’energia termica per le utenze. Le caratteristiche termo-fluidodinamiche dei fluidi organici sono tali da garantire un buon rendimento della turbina anche con ridotte potenze (contrariamente alle turbine a vapore, le turbine a fluido organico mantengono infatti elevati rendimenti anche con ridotte dimensioni ed evitano le perdite energetiche ed i danneggiamenti derivanti dal tratto di espansione nella zona del vapore umido). 23 Figura 2.4 – Impianto ORC. Gli impianti ORC sono utilizzati soprattutto per lo sfruttamento di risorse energetiche a bassa temperatura, dell’ordine di 200-300°C, come per esempio fluidi caldi di processo o fluidi geotermici. L’interesse per il settore delle biomasse è relativo soprattutto alla possibilità di realizzare impianti di piccola taglia piuttosto che alle limitate temperature (la temperatura dei prodotti della combustione delle biomasse è infatti in ogni caso sufficiente a produrre fluidi caldi a temperature superiori a 500°C). I primi impianti ORC alimentati con biomasse sono stati realizzati in Austria, Germania, Svizzera e Italia ed oggi 24 sono operativi oltre 20 unità. Il più importante costruttore di impianti ORC è la bresciana Turboden. Altri costruttori sono localizzati in Germania e Israele. Le attività di ricerca in questo settore sono rivolte alla integrazione del ciclo con la caldaia a biomasse, alla scelta del fluido operativo ottimale ed alla diminuzione dei costi. Tenuto conto del fatto che la temperatura operativa del fluido è più elevata, si lavora anche al miglioramento del rendimento mediante modifiche al ciclo base come il risurriscaldamento e l’introduzione di scambiatori di calore recuperativi. Sempre nel settore della produzione di energia elettrica da biomasse, gli impianti ORC vengono studiati ai fini del recupero dell’energia di scarico dai motori a combustione interna di grande taglia (10-20 MWe) alimentati con oli vegetali. Fra le recenti iniziative in atto in Italia si può citare il progetto FACEB (Filiera Agroforestale per Centrali a Biomassa di piccola taglia), un’iniziativa del Centro Ricerca Biomasse CRB di Perugia. Il progetto prevede l’adozione di un caldaia a griglia ad olio diatermico e di un sistema di generazione elettrica e termica a ciclo ORC. L’impianto è prevalentemente orientato alla produzione di calore per grandi utenze termiche (ad esempio teleriscaldamento), mentre la produzione elettrica (compresa tra 0.5 e 1.5 MW), avente rendimenti peraltro non trascurabili (fino al 15÷18%), rappresenta un introito supplementare che porta la redditività di questa soluzione a valori superiori rispetto a quelli delle centrali di teleriscaldamento realizzate con generatori esclusivamente termici. Parallelamente la compattezza, la semplicità di controllo e l’assenza di circuiti ad elevata pressione fa si che questo tipo di impianti facciano registrare dei costi di gestione ridotti. Motori Stirling. Il motore Stirling rappresenta una alternativa tecnologica molto promettente nel settore dalla produzione di energia da biomasse su piccola scala [39-43]. Una caratteristica molto interessante del motore Stirling è rappresentata dal fatto che viene realizzato con potenze anche molto ridotte (1015 kWe), mantenendo comunque rendimenti interessanti. Il motore opera secondo un circuito chiuso realizzato attraverso due sistemi cilindro-pistone. Il fluido operativo viene alternativamente compresso all’interno del cilindro a contatto con la sorgente fredda e fatto espandere all’interno del cilindro a contatto con la sorgente calda. Nel trasferimento da un cilindro all’altro il fluido attraversa uno scambiatore rigenerativo che incrementa le prestazioni del ciclo. Lo Stirling è pertanto un motore alternativo a combustione esterna internamente rigenerato. A differenza dei motori alternativi a combustione interna, esso può pertanto utilizzare anche combustibili solidi o di bassa qualità, così come altre fonti energetiche (solare a concentrazione per esempio). 25 Nel caso delle biomasse, tali motori sono pertanto integrati con dei convenzionali sistemi di combustione per combustibili solidi. L’energia termica prodotta dalla combustione viene trasferita al fluido operativo ad alta temperatura (700-800°C), mentre la quota di energia termica non convertita in lavoro viene asportata dall’acqua di raffreddamento (a circa 30-80°C). L’adozione di un circuito chiuso consente una scelta mirata del fluido operativo finalizzata alla ottimizzazione delle prestazioni. Tra i diversi fluidi operativi che possono essere utilizzati, oltre all’aria, sono compresi l’elio (il più diffuso), l’idrogeno e l’azoto. Mentre i motori Stirling alimentati con gas naturale o con altri combustibili pregiati sono già commercializzati (WhisperTech in Nuova Zelanda, Microgen Energy in Gran Bretagna, Solo in Germania, Enatec in Olanda), quelli alimentati con biomasse sono attualmente ancora in uno stadio dimostrativo. Ovviamente, i motori Stirling possono anche essere alimentati con il gas di sintesi prodotto dalla gassificazione delle biomasse, nonché con il gas, l’olio e finanche il char prodotto dalla pirolisi delle biomasse. Peraltro, l’utilizzo di combustibili liquidi e gassosi riduce le problematiche del processo di combustione. 26 Figura 2.5 – Motore Stirling. Nella maggior parte dei casi, la produzione di energia elettrica viene considerata in associazione con la produzione di energia termica in sistemi di cogenerazione (ed eventualmente di trigenerazione). In questo caso, l’energia termica viene prodotta attraverso il recupero del calore di scarico del motore (scambiatore freddo) e dell’entapia residua dei gas di scarico del combustore. Per potenze dell’ordine di 10-150 kWe, il rendimento dei motori Stirling alimentati con biomasse è dell’ordine del 15-35%, mentre il rendimento globale è dell’ordine dell’80-90% se il sistema opera in cogenerazione. L’attività di ricerca in questo settore si concentra principalmente sulle modifiche impiantistiche volte a migliorare il rendimento del ciclo (scelta del 27 fluido operativo, definizione dei parametri operativi ottimali, miglioramento dello scambiatore rigenerativo, configurazione del motore, integrazione con cicli sottoposti o con celle a combustibile, etc.) e nella integrazione del motore con il sistema di combustione delle biomasse, che rappresenta l’elemento più critico soprattutto per via delle elevate temperature di combustione, dei problemi di sporcamento e corrosione dello scambiatore di calore caldo, delle problematiche di recupero energetico dell’entalpia dei gas combusti, etc. Le attività di ricerca in questo settore sono molto avanzate in Austria, in Danimarca, in Finlandia, tanto che la prima unità pilota di un motore Stirling alimentato con biomasse solide è stata realizzata attraverso una cooperazione austriaca-danese (BIOS Bioenergy Systems e la Technical University of Denmark) nel 2003. Altre unità sono attualmente operative in Giappone, Austria e Svezia. Turbine a gas a combustione esterna. Le turbine a gas di piccola potenza (le cosiddette microturbine a gas) hanno trovato una notevole diffusione commerciale negli ultimi anni, essenzialmente in virtù dei ridotti costi di investimento e dei notevoli progressi conseguiti sul fronte delle prestazioni. Al fine di evitare il pericolo di danneggiamenti e corrosioni, le turbine a gas non possono essere direttamente alimentate con biomasse solide ma solo con combustibili gassosi da esse derivati. L’attività di ricerca nel settore è pertanto fondamentalmente indirizzata verso lo sviluppo di configurazioni impiantistiche integrate con processi di gassificazione, pirolisi, digestione anaerobica o con sistemi a combustione esterna (impianti EFGT, Externally Fired Gas Turbine, o EFCC, Externally Fired Combined Cycle). Nel caso delle biomasse si privilegiano le configurazioni impiantistiche più semplici (impianti EFGT) e meno costose (le minori temperature operative consentono l’utilizzo di scambiatori realizzati con materiali metallici in luogo di quelli ceramici), anche se caratterizzate da minori rendimenti. Negli Stati Uniti e in Europa sono già state sviluppate diverse esperienze nel settore degli impianti di turbina a gas a combustione esterna. Peraltro, molte di tali esperienze sono relative proprio ad impianti EFGT alimentati con biomasse [44-46]. Gli impianti EFGT alimentati a biomasse solide sono fondamentalmente basati su un gruppo turbocompressore simile a quello delle microturbine a gas a combustione interna (caratterizzate da potenze nette dell’ordine di 30-150 kWe e rendimenti, con alimentazione a gas naturale, del 25-30%). Nel caso degli impianti EFGT la camera di combustione presente nei sistemi a combustione interna viene sostituita dallo scambiatore primario ad alta temperatura. La massima temperatura operativa dello scambiatore è necessariamente di circa 100-150°C più elevata della temperatura di ingresso in turbina (800-1000°C nelle 28 Biomass Flue gases Furnace Hot air C T ~ Air Figura 2.6 – Impianto EFGT. recenti microturbine a gas). Inoltre, vista la presenza di flussi gassosi su entrambi i lati, i bassi coefficienti di scambio termico comportano la necessità di superfici di scambio notevolmente estese, con conseguenti ingombri elevati, specie in confronto alle piccole dimensioni dell’unità motrice. Con temperature massime dell’ordine di 900-1000°C il rendimento di questi sistemi è dell’ordine del 23-28%. Le principali aree di ricerca e sviluppo nel settore delle turbine a gas a combustione esterna sono concentrate nei settori dei materiali per le alte temperature e nella progettazione e realizzazione dello scambiatore di calore. Analogamente, una notevole attività di ricerca è volta a minimizzare le problematiche di sporcamento e corrosione nel sistema di combustione delle biomasse, nonché nella integrazione ottimale fra tale combustore e lo scambiatore di calore. Al fine di migliorare le prestazioni globali dell’impianto vengono anche attivamente studiate differenti modalità di recupero energetico dell’energia termica allo scarico della turbina, come per esempio i cicli evaporativi. Centrali Diesel ad olio vegetale. L’impiego degli oli vegetali grezzi per l’alimentazione di motori a ciclo diesel di grande taglia (5-15 MWe, con rendimenti netti del 45-47%) destinati alla produzione di energia elettrica rappresenta un elemento di grande novità nel panorama mondiale, con l’Italia che in questo settore riveste peraltro un ruolo di primissimo piano. Nel 2004 la ItalGreen Energy di Monopoli ha infatti realizzato il più grande impianto a livello mondiale, costituito da 3 motori diesel per un totale di 24 MWe. La ItalGreen Energy nel 2007 ha poi installato altri sei motori da 17 MWe ciascuno, 29 per un totale di 100 MWe. Altri impianti con potenze variabili fra 20 e 100 MWe sono operativi o in fase di realizzazione in Toscana, Campania, Marche, Friuli, Veneto e Sardegna, tanto che entro il 2008 saranno operativi circa 700 MWe di impianti di generazione elettrica alimentati con olio vegetale. Importanti progetti sono in corso di realizzazione anche in Belgio, Germania, Regno Unito e India [47-50]. Praticamente tutti gli impianti italiani operano in filiera lunga, essendo stati progettati per essere alimentati con olio di palma di importazione, anche se non esistono particolari problemi ad utilizzare oli vegetali grezzi di colza, girasole e soia, residui della lavorazione di oli alimentari di oliva o di sansa, oppure oli di frittura usati. La realizzazione di questi impianti, con il forte aumento della richiesta di olio di palma, importato dalla Malesia e dall’Indonesia (che insieme producono oltre l’85% dell’olio di palma a livello mondiale), ha peraltro attirato l’attenzione circa i possibili effetti ambientali derivanti dalle estese deforestazioni operate in questi paesi per incrementare le superfici coltivate a palma. Con l’aumento della richiesta si è anche determinato un fortissimo aumento dei prezzi dell’olio di palma sui mercati internazionali, con quotazioni di quasi 1000 $/t ad inizio 2008, più che raddoppiate rispetto a quelle medie del biennio 2005-2006, quanto la quotazione era di circa 450 $/t. In relazione a tali aspetti, la tendenza attuale dovrebbe essere quella di favorire lo sviluppo degli impianti in filiera corta, anche in virtù dell’evoluzione in questo senso della politica degli incentivi [51, 52]. Le ricerche nel settore dell’utilizzo nei motori Diesel degli oli vegetali di diversa provenienza (palma, colza, girasole, jatropha, deccan hemp, oli usati, etc.), puri o in miscela con gasolio, sono attualmente molto attive [53-64]. I risultati di questi studi evidenziano che l’utilizzo degli oli vegetali in sostituzione dei combustibili fossili convenzionali non determina variazioni di rilievo nei confronti delle prestazioni dei motori a combustione interna, anche se richiede l’implementazione di alcuni accorgimenti tecnici in relazione alle differenti caratteristiche del combustibile utilizzato. Dal confronto emerge sostanzialmente che gli oli vegetali sono caratterizzati da un minore potere calorifico, una maggiore viscosità ed un minore numero di cetano. Inoltre, gli oli vegetali evidenziano anche minori contenuti di zolfo ma maggiori presenze di composti acidi. L’aspetto più problematico degli oli vegetali è rappresentato dalla elevata viscosità, che rende più difficile la polverizzazione del combustibile. Inoltre, la più marcata tendenza alla polimerizzazione degli oli può comportare occlusioni del sistema di alimentazione e di iniezione. Il problema della elevata viscosità si può risolvere attraverso il riscaldamento dell’olio (per avere viscosità confrontabili con quelle dell’olio combustibile occorre riscaldare l’olio vegetale almeno fino a 70-90°C), specie nel caso dei grandi motori diesel destinati alla produzione di energia. Nel caso dei motori 30 diesel veloci di minore potenza, specie in presenza dei moderni e sofisticati sistemi di iniezione, si preferisce invece ricorrere alla diluizione con combustibili più fluidi oppure direttamente alla transesterificazione dell’olio vegetale (ovvero alla produzione di biodiesel). Una parte rilevante dell’energia chimica del combustibile non convertita in energia meccanica dal motore viene resa disponibile sotto forma di gas di scarico e di acqua calda. Per questo motivo, numerose attività di ricerca sono anche rivolte allo studio delle modalità di recupero di questa energia termica. Gran parte di questi flussi termici possono essere utilmente recuperati per la produzione di energia termica ad uso cogenerativo, laddove vi sia una adeguata richiesta termica da parte delle utenze. In alternativa, specie nel caso dei motori di grande taglia, una parte di questa energia può essere recuperata per la produzione di energia meccanica in un ciclo a vapore sottoposto. Tenuto conto della relativamente modesta temperatura dei gas di scarico, il ciclo sottoposto può essere basato su un ciclo Rankine a vapore d’acqua oppure su un ciclo Rankine a fluido organico (Organic Rankine Cycle, ORC). La prima opzione viene utilizzata soprattutto in combinazione con motori aventi potenza superiore a circa 25-30 MW (realizzati normalmente attraverso l’impiego di più unità), mentre la seconda opzione è preferibile nel caso di motori di minore potenza. Altre possibilità di recupero si possono avere attraverso una opportuna integrazione del motore con un impianto a vapore, possibilmente anch’eso alimentato con biomasse. Il recupero dell’energia termica resa disponibile da un motore diesel alimentato con olio vegetale può essere realizzato infatti nel circuito di preriscaldamento dell’acqua di una centrale a vapore. Le basse temperature dell’acqua nel circuito di preriscaldamento (da 35-40°C all’uscita del condensatore fino alla temperatura di vaporizzazione di circa 250-280°C) consentono di riscontrare le condizioni affinché il recupero dell’energia termica resa disponibile dal motore, sia sotto forma di gas di scarico sia sotto forma di acqua calda, possa avvenire nella misura più completa possibile [65]. 31 2.3 I PROCESSI DI GASSIFICAZIONE DELLE BIOMASSE Un processo di gassificazione è costituito dall'insieme delle trasformazioni chimico-fisiche attraverso le quali si ottiene la conversione delle biomasse (o di altri combustibili primari come il carbone) in un combustibile di sintesi in fase gassosa, brevemente indicato con il nome di syngas. Tale combustibile gassoso, una volta che sia stato adeguatamente depurato, è facilmente utilizzabile in impianti di conversione dell’energia di tipo convenzionale (turbine a gas e motori a combustione interna) o avanzata (celle a combustibile o sistemi ibridi), oppure anche per la produzione di idrogeno e di altri combustibili di sintesi. In tal senso, i processi di gassificazione delle biomasse sono oggetto di notevole attenzione in quanto potenzialmente in grado di assicurare maggiori rendimenti globali di conversione rispetto ai processi di combustione abbinati a impianti motori termici. Peraltro, nonostante l'interesse nei confronti dei processi di gassificazione appaia recente, occorre ricordare come essi abbiano in realtà origini ben più lontane (il loro sviluppo iniziale risale infatti alla seconda metà del XVIII secolo). Dopo una fase di forte interesse per queste tecnologie che, intorno fra gli anni ’20 e ’40 del secolo scorso, che portò ad un notevole sviluppo dei sistemi di gassificazione, è seguito un lungo periodo di stasi. La necessità di operare una diversificazione delle fonti energetiche primarie ha condotto poi ad un rinnovato interesse nei riguardi delle attività di ricerca e sviluppo applicate ai processi di gassificazione del carbone, delle biomasse e di altri combustibili di bassa qualità (residui della raffinazione del petrolio, greggi pesanti, rifiuti, etc.). É il caso di ricordare che, a livello mondiale, sono attualmente operativi numerosi impianti IGCC (Integrated Gasification Combined Cycle) di grande taglia (300-600 MWe) alimentati con carbone e con TAR di raffineria (tre di questi ultimi impianti operano in Italia, di cui uno presso la raffineria Saras di Sarroch). In un impianto di conversione dell’energia basato su di un processo di gassificazione si possono individuare tre sezioni principali: la sezione di gassificazione (che include, oltre al gassificatore vero e proprio, anche i sistemi Combustibile Ossidante Vapore Sezione di gassificazione Ceneri Syngas Syngas Sezione di Condizionamento TAR, Polveri, NH3, etc Sezione di conversione Energia elettrica Figura 2.7 – Impianto di gassificazione. 32 di ricevimento e trattamento del combustibile e, nel caso, i sistemi di produzione dell’ossigeno e del vapore), la sezione di condizionamento del syngas prodotto (che include le apparecchiature per la depurazione, il raffreddamento e/o il riscaldamento ed eventualmente la compressione del syngas) e la sezione di conversione finale dell’energia (impianto motore termico o cella a combustibile). Si tratta pertanto di un impianto tendenzialmente complesso, che di conseguenza risulta anche costoso da realizzare e impegnativo da gestire, e che può trovare giustificazione solo se in grado di garantire elevati valori di rendimento. Ciò richiede l’ottimizzazione delle prestazioni delle singole sezioni ma anche una ottimale integrazione energetica fra le stesse. Come meglio evidenziato nel prosieguo, ciascuna sezione presenta problematiche e livelli di sviluppo tecnologico differenti. In particolare, per quanto concerne la sezione di gassificazione vera e propria, le attività di ricerca e sviluppo sono fondamentalmente mirate a migliorare il grado di automazione e di affidabilità, ridurre la presenza di tar nel syngas prodotto, oltre che migliorare il rendimento del processo e ridurre i costi. Le problematiche di maggiore rilievo della sezione di depurazione sono senz’altro quelle di garantire adeguati livelli di depurazione da tar e particolato, in maniera tale da proteggere da fenomeni di sporcamento, corrosione e ostruzione le apparecchiature a valle. Infine, le ricerche nell’ambito della sezione di conversione energetica mirano fondamentalmente a migliorare il rendimento di generazione elettrica attraverso la ricerca di nuove configurazioni impiantistiche ed il miglioramento di quelle esistenti. 2.3.1 La sezione di gassificazione Un processo di gassificazione realizza la conversione dei composti organici del combustibile primario in gas di sintesi attraverso lo sviluppo di reazioni chimiche con ossigeno (alimentato puro o più spesso nel caso degli impianti a biomassa sotto forma di aria) e vapor d'acqua. Il gas di sintesi così prodotto è costituito da una miscela contenente principalmente CO, CO2, H2, H2O, CH4 e, nel caso di gassificazione con aria, N2, nonché altri elementi perlopiù indesiderati (H2S, COS, NH3, HCl, TAR, polveri, etc.). Ovviamente, la composizione del syngas prodotto e l'efficienza del processo di gassificazione variano in funzione delle condizioni operative del processo (quantità di ossigeno e vapore, pressione, temperatura, etc.) e delle caratteristiche del combustibile primario. L’efficienza del processo di gassificazione viene solitamente espressa mediante il rendimento di gas freddo, ovvero il rapporto fra l’energia chimica del syngas prodotto e quella del combustibile alimentato. Tipicamente il rendimento di gas freddo varia fra l’80 e il 90% 33 In relazione al loro assetto fluidodinamico, i processi di gassificazione possono essere classificati nell'ambito di tre grandi categorie, e precisamente gassificatori a letto fisso, gassificatori a letto fluido e gassificatori a letto trascinato. I gassificatori a letto fisso sono caratterizzati dalla presenza di un vero proprio strato di biomasse in pezzatura disposte sopra una griglia. All’interno di un gassificatore a letto fisso, in relazione soprattutto agli scambi termici fra biomasse, agenti gassificanti e gas di sintesi, avvengono una serie di processi di essiccazione, pirolisi, gassificazione e combustione, spesso diversamente combinati fra loro. Nell’ambito di questa famiglia ricadono gassificatori di differente tipologia, ma i sistemi più importanti sono senza dubbio i gassificatori di tipo downdraft, nei quali il combustibile e gli agenti gassificanti vengono introdotti dall’alto mentre il syngas viene estratto dal basso, e quelli di tipo updraft, dove invece il combustibile viene introdotto dall’alto, gli agenti gassificanti dal basso e il syngas estratto dall’alto. In tutti i casi, nei gassificatori a letto fisso la temperatura interna è limitata dalla temperatura di fusione delle ceneri, la temperatura del gas prodotto è bassa (solitamente inferiore a 300°C), si ha un modesto consumo di ossigeno ed un elevato consumo di vapore. Tali gassificatori non sono particolarmente adatti ad accettare biomasse molto eterogenee in quanto presentano precisi limiti nella accettabilità dei fini (ovvero della frazione di combustibile di minori dimensioni), hanno tipicamente una bassa potenzialità e producono syngas con elevate percentuali di TAR anche se con ridotte concentrazioni di particolato. I gassificatori a letto fluido realizzano invece una intensa fluidificazione della zona di reazione grazie alla immissione opportunamente localizzata degli agenti gassificanti ed all’impiego di un mezzo inerte come la sabbia. In relazione a tali condizioni operative, essi presentano una distribuzione uniforme di temperatura lungo il reattore, con valori inferiori alla temperatura di fusione delle ceneri a causa dei problemi legati alla agglomerazione. Essi evidenziano moderati consumi di ossigeno e di vapore, producono syngas con limitato contenuto di TAR ma con una elevata concentrazione di particolato. Presentano inoltre maggiore potenzialità rispetto ai gassificatori a letto fisso. Anche nell’ambito della famiglia dei gassificatori a letto fluido si incontrano diverse tipologie di sistemi, i più importanti dei quali sono i gassificatori a letto fluido circolante (CFB, Circulating Fluidized Bed) e a letto fluido bollente (BFB, Bubbling Fluidized Bed). I gassificatori a letto trascinato operano con un flusso in equicorrente tra il combustibile (che deve essere introdotto in pezzatura molto fine), ossigeno e vapore, in maniera molto simile ad un convenzionale sistema di combustione. Tali processi di gassificazione, operano generalmente ad alta temperatura e in pressione e presentano pertanto un elevato consumo di ossigeno e un basso 34 consumo di vapore. I gassificatori a letto trascinato hanno una elevata potenzialità e producono syngas praticamente privo di idrocarburi pesanti e di metano. In relazione alle caratteristiche sopra citate, i gassificatori a letto fisso presentano potenze notevolmente inferiori rispetto a quelle dei gassificatori a letto trascinato. Per questo motivo, per il settore delle biomasse sono di interesse soprattutto i processi a letto fisso e fluido, mentre quelli a letto trascinato sono di interesse soprattutto per gli impianti IGCC di grande taglia alimentati con carbone o con TAR di raffineria. In particolare, i gassificatori a letto fisso, soprattutto di tipo downdraft, sono utilizzati per potenze fino a circa 5-10 MWt, i gassificatori a letto fluido bollente sono utilizzati per potenze fino a circa 25 MWt, mentre per potenze fino a circa 100 MWt vengono utilizzati i gassificatori a letto fluido circolante. Nonostante si tratti di una tecnologia fondamentalmente poco diffusa, sul mercato internazionale si riscontra un gran numero di gassificatori offerti a livello commerciale (da una recente indagine sono emersi circa 50 costruttori di gassificatori a biomassa). Tuttavia, difficilmente i fornitori sono in grado di fornire precise garanzie su prestazioni, costi, emissioni e affidabilità. Tali sistemi trovano pertanto maggiore spazio in paesi in via di sviluppo (come India, Cina, etc.), ma non possiedono i necessari requisiti di sicurezza, automazione ed emissioni richiesti per le applicazioni nei mercati occidentali. La maggior parte dei gassificatori in commercio sono gassificatori di piccola taglia di tipo downdraft, derivati in maniera più o meno diretta dai primi gassificatori sviluppati fra gli anni ’20 e ’40 del secolo scorso. Nonostante i miglioramenti introdotti in quasi un secolo di sviluppo, l’affermazione commerciale dei processi di gassificazione delle biomasse è ancora subordinata alla risoluzione di problemi quali il miglioramento della qualità del syngas prodotto (in termini soprattutto di contenuto di TAR, polveri e altri inquinanti, ma anche l’incremento del potere calorifico), i fenomeni di sinterizzazione e agglomerazione delle ceneri, il miglioramento generale delle prestazioni, l’incremento del livello di automazione e di affidabilità operativa, nonché la riduzione generale dei costi di installazione e di esercizio. Il problema principale dei gassificatori di piccola taglia rimane la formazione del TAR, aspetto particolarmente importante nei processi a letto fisso e meno in quelli a letto fluido. Il TAR è infatti costituito da una miscela di idrocarburi pesanti, inizialmente presenti in fase vapore nel syngas caldo e che condensano con il suo raffreddamento, provocando lo sporcamento e il blocco delle apparecchiature interessate. Le concentrazioni di TAR prodotte dai processi di gassificazione delle biomasse variano fra circa 0,5 g/m3 e 100 g/m3 (essendo i valori più elevati caratteristici di gassificatori a letto fisso updraft di piccola 35 taglia). Poiché nella maggior parte dei casi, la concentrazione massima di TAR tollerata dai sistemi di conversione integrati con il gassificatore è inferiore a 0,05 g/m3, si rende praticamente sempre necessario provvedere al controllo di questo composto [66-70]. La composizione del syngas prodotto dal gassificatore, e dunque anche il tenore di TAR, dipende notevolmente dai suoi parametri operativi, quali in particolare, temperatura, pressione, rapporti ossigeno/combustibile e vapore/combustibile, tempo di residenza, etc. Le attività di ricerca condotte fino ad oggi hanno evidenziato come la concentrazione di TAR tenda a ridursi all’aumentare della temperatura operativa (oltre 800-900°C), della pressione (fino a circa 10-20 bar) e dei rapporti ossigeno/combustibile e vapore/combustibile. In questo ambito risulta molto interessante approfondire l’effetto della gassificazione utilizzando CO2 come agente gassificante, la cui presenza sembra favorire la conversione delle biomasse e l’aumento della concentrazione di H2 e CO. Una opportuna scelta dei parametri operativi consente di ridurre, oltre al TAR, anche la formazione di char (ovvero carbonio incombusto) [71, 72]. Fra le diverse opzioni allo studio per migliorare le prestazioni del sistema di gassificazione è inclusa la co-gassificazione delle biomasse con carbone. I vantaggi della co-gassificazione sono simili a quelli precedentemente evidenziati per la co-combustione e consentono, tra l’altro, di ridurre i problemi legati alla reperibilità di sufficienti quantitatibi di biomasse ed ai fattori di stagionalità. Peraltro anche il livello qualitativo del syngas migliora notevolmente (si riduce la formazione di TAR e char) [73-75]. Alcuni gruppi di ricercatori hanno dimostrato che l’iniezione nel gassificatore di additivi come il calcare e la dolomite è in grado di favorire la conversione del char e ridurre la concentrazione di TAR, migliorando le prestazioni del processo di gassificazione. Altri additivi in corso di sperimentazione sono minerali a base di magnesio, ossidi di ferro e silice, ossidi di vanadio, cromo, cobalto, nickel, rame, molibdeno, etc. In linea di massima, l’iniezione di additivi nel gassificatore appare in grado di ridurre il contenuto di TAR e aumentare la concentrazione di H2, CO e CO2. I maggiori problemi incontrati sono relativi alle severe condizioni operative che portano spesso alla deattivazione degli additivi utilizzati ed al trascinamento di fini nel syngas [72, 76]. Anche il tipo di gassificatore assume una importanza fondamentale, tanto che numerose attività di ricerca sono finalizzate a sviluppare nuove tipologie di reattori nei quali le zone di pirolisi e di gassificazione sono separate da una zona intermedia nella quale i gas prodotti dal processo di pirolisi vengono parzialmente ossidati. Anche la ripartizione dell’ossidante in un flusso primario e in un flusso secondario si è dimostrata benefica nei confronti della riduzione 36 della concentrazione di TAR, così come il ricircolo al gassificatore del TAR separato [71, 72, 77, 78]. Poiché ai fini della successiva rimozione o conversione, non risulta importante solamente il quantitativo ma anche la natura chimica del TAR (esso è una complessa miscela di idrocarburi policiclici aromatici, alchilati aromatici e composti fenolici), altri gruppi di ricerca si occupano di caratterizzare la composizione del TAR in relazione alle condizioni operative ed alla tipologia del gassificatore [79]. I gassificatori di piccola taglia, per ragioni economiche, sono generalmente alimentati con aria e vapore, cosicché la diluizione operata dall’azoto riduce moltissimo il potere calorifico del syngas (con il 50% circa di azoto, il potere calorifico del syngas è dell’ordine di 3-6 MJ/Nm3 e potrebbe essere circa doppio senza la presenza dell’azoto). Molte attività di ricerca in questo settore si stanno indirizzando verso lo studio della gassificazione con aria arricchita in ossigeno, in vapore e in CO2. Altri programmi di ricerca sono rivolti allo studio della gassificazione con solo vapore e/o CO2. In questi ultimi casi però è necessario fornire dall’esterno il calore necessario per lo svolgimento delle reazioni endotermiche di gassificazione. La gassificazione con vapore è in grado di incrementare notevolmente il potere calorifico del syngas, mentre la gassificazione con CO2 consente di ridurre notevolmente la presenza di TAR, char e CH4, incrementando nel contempo la concentrazione di H2 e CO [70, 80, 81]. Le problematiche inerenti la sinterizzazione e l’agglomerazione delle ceneri consistono nei fenomeni di deposito, erosione, corrosione e talvolta blocco del gassificatore stesso. Tali problematiche nascono dalla presenza nelle biomasse di composti alcalini come il potassio che reagiscono con il silicio formando silicati e solfati. Questi ultimi sono caratterizzati da temperature di fusione inferiori anche a 700°C, cosicché tendono facilmente a formare depositi e incrostazioni sulle pareti del gassificatore. Peraltro, la presenza di tali composti alcalini nel syngas è causa di fenomeni di corrosione ed erosione nelle apparecchiature percorse dal syngas. In relazione all’assetto fluidodinamico e soprattutto alle minori temperature operative (peraltro uniformi lungo tutto il reattore), i gassificatori a letto fluido sono meno interessati ai sopracitati fenomeni. Le contromisure allo studio fanno leva su processi di pretrattamento delle biomasse tesi a ridurre la presenza di elementi come il potassio e il sodio. Poiché gli alcali sono composti solubili in acqua, le principali tecniche allo studio sono proprio basate su processi di lavaggio con acqua cui segue la separazione meccanica dell’acqua stessa. Mediante tali trattamenti si riesce a rimuovere oltre l’80% del potassio e del sodio, oltre a circa il 90% del cloro [82]. Di non minore importanza, ai fini una effettiva possibilità di diffusione di queste tecnologie, sono le attività di ricerca e sviluppo finalizzate a migliorare il 37 livello di automazione del processo, la sua flessibilità operativa e l’affidabilità. In questo settore giocano un ruolo fondamentale tutte le apparecchiature ausiliarie del gassificatore stesso, ed essenzialmente riconducibili alla sezione di preparazione e alimentazione della biomassa al gassificatore. In effetti, la biomassa che giunge all’impianto risulta raramente idonea ad essere direttamente introdotta nel gassificatore ma può richiedere processi essiccazione e di riduzione delle dimensioni. Essa inoltre deve essere introdotta nel gassificatore che talvolta opera in pressione. Uno dei principali problemi che devono essere risolti è spesso proprio quello della essiccazione delle biomasse, dal momento che la maggior parte dei gassificatori non accettano materiale troppo umido (l’ideale è spesso una umidità del 10-20%, mentre molte biomasse fresche di taglio hanno tenori di umidità del 50-60%). L’essiccazione è un processo fortemente energivoro che può ridurre notevolmente l’efficienza globale del sistema, ragion per cui le attività di ricerca in corso cercano di individuare soluzioni che utilizzino flussi energetici di recupero all’interno dello stesso impianto (gas di scarico della turbina o del motore, syngas caldo, etc.). Peraltro è anche possibile pensare a soluzioni integrate con essiccazione delocalizzata delle biomasse ed utilizzo delle stesse in un impianto centralizzato, minimizzando i costi di trasporto e le perdite energetiche [83]. In sintesi, le maggiori aree di ricerca e sviluppo nel settore dei processi di gassificazione delle biomasse sono rivolte alla risoluzione di problemi quali: miglioramento del livello di automazione, flessibilità operativa e affidabilità; miglioramento del rendimento di conversione (rendimento di gas freddo); limitazione della concentrazione di TAR e particolato; riduzione dei problemi di sinterizzazione e agglomerazione delle ceneri; riduzione dei costi. 2.3.2 La sezione di condizionamento del syngas Nel syngas prodotto dai processi di gassificazione si ritrovano tutta una serie di composti indesiderati che devono essere eliminati prima della utilizzazione finale. I principali elementi indesiderati sono il TAR e il particolato, mentre nel caso delle biomasse assume minore rilevanza la presenza dei composti dello zolfo. La presenza di TAR può essere ridotta in misura solo marginale agendo sui parametri operativi del processo di gassificazione, anche se in questo settore, come detto, vi è una intensa attività di ricerca. L’eliminazione del TAR, così come del particolato, passa pertanto attraverso lo sviluppo di efficienti e affidabili processi di depurazione. Nei sistemi convenzionali, la depurazione del syngas avviene generalmente mediante processi di filtrazione e di lavaggio con acqua, ovvero con sistemi a freddo. Poiché però il syngas viene prodotto 38 dal gassificatore a temperatura medio-alta (da circa 200-300°C nel caso dei gassificatori a letto fisso fino ad oltre 800°C nel caso di quelli a letto fluido) è evidente che il raffreddamento del syngas introduce significative perdite di energia. Ai fini della riduzione delle irreversibilità, infatti, l’ideale sarebbe riuscire a depurare il syngas ad alta temperatura, attraverso lo sviluppo di sistemi di depurazione a caldo. Poiché questa problematica è comune ai processi di gassificazione del carbone, essa vede impegnate un gran numero di attività di ricerca e sviluppo. un notevole L’utilizzo di tali sistemi comporta però elevate perdite di carico, cosicché appare più adatto ai sistemi di gassificazione in pressione, utilizzati in impianti IGCC di grande taglia [84]. Come detto, nei sistemi convenzionali, la depurazione dal TAR avviene generalmente mediante un processo di lavaggio (scrubbing) del syngas con acqua il quale, oltre alla introduzione di evidenti irreversibilità, ha anche lo svantaggio di produrre un grande quantitativo di reflui liquidi, che introducono poi specifiche problematiche di smaltimento. Altre modalità di depurazione del syngas dal TAR sono rappresentate dall’impiego di cicloni, filtri granulari e precipitatori elettrostatici ad umido, che in ogni caso risultano efficaci nei confronti del TAR solo a bassa temperatura (sotto 100°C). Le attività di ricerca in atto in questo settore evidenziano come le efficienze di rimozione del TAR di questi sistemi sono mediamente dell’ordine del 50-70% mentre quelle del particolato sono di solito superiori al 95-98%. Ovviamente, la separazione del TAR dal syngas pone il problema della conseguente perdita del suo contenuto energetico, a meno che il TAR stesso non venga riutilizzato (per esempio ricircolandolo al gassificatore) [66-70]. Le complesse strutture molecolari del TAR possono essere ricondotte a quelle di più semplici composti attraverso il cracking termico operato ad elevata temperatura (da circa 900°C a circa 1300°C), con conseguenti elevati costi energetici. Tuttavia, le attività sperimentali in questo settore hanno anche evidenziato che il TAR derivante dai processi di gassificazione delle biomasse risulta notevolmente refrattario alla decomposizione per semplice via termica, se non a temperature molto elevate. Per questo motivo, le attività di ricerca nel settore della depurazione del syngas sono pertanto attualmente concentrate soprattutto sui sistemi di conversione catalitica del TAR. Ovviamente, in questo caso, il principale problema da risolvere è rappresentato dalla individuazione di catalizzatori attivi nei confronti del TAR da biomasse, resistenti ai fenomeni di sporcamento e sinterizzazione, facilmente rigenerabili e poco costosi. Fra i catalizzatori attualmente studiati sono compresi quelli a base di nickel (molto simili a quelli utilizzati per il reforming del metano e degli idrocarburi nell’industria petrolchimica), di carbonati, ossidi e idrossidi di metalli alcalini (potassio, sodio, litio, etc.), dolomite (ovvero carbonato di calcio e magnesio) e 39 altri metalli (platino, palladio, rutenio, rodio, etc.). Infine, uno dei processi innovativi di decomposizione del TAR si basa sull’impiego del plasma [70] [85]. Per quanto concerne la rimozione del particolato, i sistemi convenzionali, come i cicloni, i precipitatori elettrostatici e le torri di lavaggio presentano l’inconveniente di operare generalmente a bassa temperatura. Cosicchè anche in questo settore, le principali attività di ricerca sono finalizzate a sviluppare sistemi di depurazione a caldo. In particolare, i sistemi di rimozione del particolato a caldo più avanzati sono i filtri ceramici a candela. I materiali più studiati sono a base di carburo di silicio e metalli sinterizzati. Le efficienze sono molto elevate, anche con particolato di piccolissime dimensioni (inferiori a 1 micron). I principali problemi da risolvere sono legati al pericolo di degrado chimico, creep e resistenza a fatica, specie alle più alte temperature (oltre 800850°C). In questo senso, i filtri realizzati con metalli porosi sembrano evidenziare migliori caratteristiche rispetto a quelli ceramici. In alternativa ai filtri ceramici o metallici, sono anche in fase di studio avanzato i filtri granulari. Si tratta di contenitori riempiti di materiali a base di calcare o di allumina, attraverso i quali viene fatto passare il syngas da trattare. Le principali problematiche allo studio sono relative alle modalità di rigenerazione del filtro. La presenza nel syngas di alcali (soprattutto composti del potassio e del sodio), che condensano a temperature di circa 600-700°C, provocano notevoli inconvenienti in sistemi come turbine a gas, motori a combustione interna e celle a combustibile. La rimozione degli alcali dal syngas non è affatto facile e si studiano soprattutto specifici sorbenti (oltre ai già citati processi di lavaggio delle biomasse al fine di eliminare all’origine la presenza di questi composti). Nel gassificatori a letto fluido l’assorbimento degli alcali mediante i sorbenti può avvenire anche all’interno dello stesso reattore, mentre più facilmente esso avviene in specifici reattori disposti a valle. I sorbenti in corso di sperimentazione sono basati su bauxite, kaolinite, emathlite e altri materiali rocciosi. Tra questi la bauxite appare quella più interessante. 2.3.3 La sezione di utilizzo del syngas Uno degli utilizzi più immediati del syngas derivante dai processi di gassificazione è dato dall’impiego come combustibile in generatori di vapore, specie in co-combustione con carbone o altre biomasse solide. In questo caso i requisiti circa i livelli minimi di concentrazione di TAR e particolato nel syngas non sono molto stringenti per cui il sistema di condizionamento può essere molto semplice. Rispetto all’utilizzo diretto delle biomasse come combustibile, l’integrazione con un gassificatore contribuisce a migliorare l’accettabilità di biomasse problematiche. Il più grande inconveniente di questa modalità di utilizzo è data dal basso rendimento di conversione energetica, limitato sia dal 40 ridotto rendimento del ciclo a vapore sia dalle perdite nella sezione di gassificazione e condizionamento del syngas [86]. La maggior parte delle attività di ricerca sono rivolte verso le tecnologie di produzione combinata di energia elettrica e termica, nel tentativo di provarne la fattibilità tecnico-economica. I sistemi in fase di valutazione sono diversi. Nel caso dei gassificatori di piccola taglia il sistema di generazione elettrica più facilmente utilizzabile è rappresentato da un motore alternativo a combustione interna. In questo caso, le specifiche circa la composizione del syngas divengono più stringenti. Risulta infatti necessario depurare il syngas da TAR, particolato, ammoniaca e alcali al fine di rispettare le specifiche imposte dai fornitori dei motori. L’utilizzo del syngas in un motore alternativo in luogo dei combustibili fossili convenzionali (derivati petroliferi e gas naturale) determina solitamente una diminuzione della potenza netta prodotta dell’ordine del 1520%. Con motori di piccola taglia i rendimenti elettrici non sono anche in questo caso molto elevati (20-25%) e possono aumentare fino a circa il 30% nel caso dei motori di maggiore taglia. Il rendimento globale nel caso di sistemi che operano in cogenerazione (attraverso il recupero termico dai gas combusti, dall’acqua di raffreddamento e dall’olio lubrificante) può raggiungere invece valori dell’8085%. In Europa esistono numerosi esempi di impianti di gassificazione integrati con motori a combustione interna, caratterizzati da differenti taglie (da poche centinaia di kWe ad oltre 5 MWe) e differenti tipologie di gassificatore (letto fisso e letto fluido). Le attività di ricerca in questo settore sono principalmente indirizzate verso l’ottimizzazione del funzionamento del motore con combustibili diversi da quelli convenzionali e con composizione spesso variabile in relazione alla tipologia delle biomasse alimentate al gassificatore [87-89]. Molto più ampia è l’attività di ricerca e sviluppo nel settore dell’impiego del syngas per l’alimentazione di turbine a gas. Infatti, uno dei principali vantaggi delle turbine a gas è legato al fatto che l’energia termica non convertita in energia meccanica dal ciclo viene tutta riversata nell’ambiente sotto forma di gas di scarico ad alta temperatura. Il recupero più o meno spinto di questa energia termica consente di aumentare in misura talvolta anche notevole il rendimento elettrico del sistema. È ben noto, infatti, che gli impianti di generazione elettrica attualmente più efficienti sono gli impianti combinati gas/vapore, nei quali l’energia termica allo scarico della turbina a gas viene utilizzata in un ciclo a vapore sottoposto. I I rendimenti di un impianto a ciclo combinato possono toccare il 55-60% nel caso di alimentazione con gas naturale. Nel caso in cui esso venga alimentato con syngas derivante da processi di gassificazione (in tal caso si parla di impianti IGCC, Integrated Gasification Combined Cycle, che, nel caso delle biomasse sono spesso indicati anche con 41 l’acronimo BGCC, Biomass Gasification Combined Cycle) può consentire rendimenti anche superiori al 45%. Gli impianti IGCC di più grande taglia (300500 MWe) sono attualmente alimentati con carbone o con TAR di raffineria e presentano rendimenti netti dell’ordine del 42-45%. Nel caso delle biomasse gli impianti BGCC sono di fatto proponibili solo per gli impianti di elevata potenza (per ragioni economiche, tali impianti appaiono giustificati solo per potenze superiori a circa 40-50 MWe). In alternativa, il syngas prodotto da piccoli gassificatori potrebbe essere alimentato ad un impianto a ciclo combinato di grande taglia in miscela con gas naturale [90-92]. Poiché nel settore delle biomasse sono di notevole interesse soprattutto impianti di minore potenza, la ricerca si sta indirizzando verso soluzioni meno complesse, basate su turbine a gas in ciclo semplice o misto. Come detto, un impianto a ciclo combinato gas/vapore integrato con una processo di gassificazione può consentire rendimenti dell’ordine del 45-50%. Tuttavia, il raggiungimento effettivo di un tale traguardo richiede ancora una notevole attività di ricerca e sviluppo se solo si pensa che a livello mondiale sono stati realizzati solo pochi impianti BGCC di grande taglia e che ancora non si è arrivati a definire quale tecnologia possa garantire il miglior compromesso fra efficienza e costi. Per esempio, l’impianto di Varnamo, in Svezia, è basato su un gassificatore a letto fluido in pressione (circa 22 bar), alimentato con aria e dotato di un sistema di depurazione dei gas ad alta temperatura (filtri in materiale ceramico). Tale impianto ha una potenza elettrica netta di 6 MWe, una potenza termica di 9 MWt e un rendimento netto del 32% (esso ha operato dal 1996 al 2000 e risulta attualmente in fase di riconversione per la produzione di combustibili liquidi derivati da syngas [93]). Il più grande impianto brasiliano (circa 32 MWe con un rendimento del 40%), opera invece con un gassificatore atmosferico e con un sistema di depurazione a freddo. In altri casi si opera con ossigeno invece che con aria. [89, 94, 95]. Nel caso di impianti di minore taglia, considerazioni di ordine economico consigliano l’impiego di turbine a gas in ciclo semplice o in ciclo misto. In particolare, per gli impianti di minore potenza appaiono molto interessanti le cosiddette microturbine a gas (MGT), ovvero macchine di recente comparsa sul mercato, caratterizzate da potenze elettriche dell’ordine di 30-150 kWe e rendimenti elettrici di circa il 25-30%. Si tratta di macchine per le quali il principale punto di forza è la semplicità, essendo basate su compressori e turbine radiali e monostadio senza sistemi di raffreddamento delle palettature. In relazione al basso rapporto di compressione (circa 3-4), queste macchine adottano un ciclo termodinamico rigenerato e presentano la possibilità di operare in cogenerazione con la produzione di acqua calda (nel qual caso i rendimenti globali sono ancora una volta dell’ordine dell’80-85%). Le attività di 42 ricerca in questo settore sono vertono fondamentalmente sulla ottimizzazione delle prestazioni della turbina in relazione alle diverse caratteristiche del syngas (in effetti, tali microturbine vengono commercializzate principalmente in alimentazione con gas naturale, ma anche con GPL, biogas da digestione anaerobica e altri gas combustibili come appunto il gas da gassificazione). I requisiti di pulizia del syngas in questo caso sono più stringenti rispetto ai motori alternativi a combustione interna, per cui una delle aree più critiche è ancora una volta rappresentata dalla sezione di depurazione del syngas. All’aumentare della taglia, la ricerca si sta indirizzando verso soluzioni circuitali della turbina a gas più complesse, nel tentativo di conseguire maggiori rendimenti di conversione. Una delle soluzioni più studiate è rappresentata dall’utilizzo di turbine a gas con iniezione di vapore (STIG, Steam Injected Gas Turbine), nelle quali il recupero dell’energia termica dei gas di scarico avviene ancora attraverso la produzione di vapore, il quale però non viene utilizzato in un ciclo Rankine ma iniettato nella camera di combustione della turbina a gas, con aumento della potenza prodotta e del rendimento. Tale soluzione sembra quella più adatta per impianti di gassificazione a biomassa (BIG-STIG) di potenza dell’ordine di 20-30 MWe. Una volta adeguatamente deputato, il syngas prodotto dalla gassificazione delle biomasse può essere efficacemente utilizzato per l’alimentazione delle celle a combustibile, eventualmente integrate con microturbine a gas (i cosiddetti impianti ibridi). In effetti, le celle a combustibile operanti ad alta temperatura (Solid Oxide Fuel Cells, SOFC, e Molten Carbonate Fuels Cell, MCFC) si prestano molto bene ad essere integrate con un impianto sottoposto di turbina a gas nel quale evolvono i gas di scarico (a 700-1000°C) della cella stessa. Solo nel caso delle celle MCFC, l’integrazione si realizza talvolta con impianti a vapore. In alimentazione con gas naturale, simili impianti ibridi possono raggiungere efficienze del 60-65% anche con modeste potenze (200-300 kWe) [96, 97]. Oltre al gas naturale, tali celle a combustibile possono anche essere alimentate con combustibili alternativi quali metanolo, etanolo, DME, biogas e syngas da gassificazione del carbone e delle biomasse [98-102] [103, 104]. Nel caso di impiego del syngas, le attività di ricerca si concentrano sulla ottimizzazione della cella a combustibile e sulla ottimale integrazione dell’intero impianto. Infatti, nel caso di impiego del syngas, all’interno della cella (sia SOFC sia MCFC) cambiano notevolmente i flussi termici in quanto si riduce la richiesta energetica per il reforming del combustibile (che in questo caso è già una miscela di CO e H2 con poco metano) e aumenta la portata di ossigeno richiesta con un minore fattore utilizzazione dell’aria. Inoltre, la disponibilità di energia termica anche nella sezione di raffreddamento del 43 syngas (specie nei gassificatori a letto fluido e con depurazione a caldo) accresce la necessità di una attenta integrazione termica fra le diverse sezioni [99, 100]. Le citate celle a combustibile ad alta temperatura accettano all’ingresso combustibili di diverso tipo, mentre altre tipologie, come le celle ad acido fosforico (PAFC), le celle alkaline (AFC) e le celle ad elettrolita polimerico (PMFC) richiedono in alimentazione idrogeno puro, essendo peraltro il CO dannoso per la cella stessa [96, 97]. Evidentemente, in questo caso, l’alimentazione di queste celle mediante il syngas prodotto dalla gassificazione delle biomasse (così come del carbone) richiede la preventiva produzione di idrogeno. Una delle più invitanti opzioni per il futuro è infatti, come noto, basata su un largo impiego dell’idrogeno in sistemi di conversione dell’energia ad elevata efficienza e bassissime emissioni inquinanti (come le citate celle a combustibile e specifici cicli con combustione di idrogeno con ossigeno puro, per esempio). L’idrogeno rappresenta un vettore energetico piuttosto che una fonte primaria e, in uno scenario di lungo periodo, dovrebbe essere prodotto essenzialmente da energia nucleare e da fonti rinnovabili. Tuttavia, in uno scenario di medio termine, la produzione di idrogeno da processi di reforming del metano o da gassificazione di carbone o biomasse, con conseguente separazione della CO2 e la sua segregazione fuori dall’atmosfera, appare l’opzione più facilmente percorribile. In effetti, nel settore dei grandi impianti BGCC, la prospettiva di rimuovere la CO2 dal syngas, previo processo di CO shift-conversion, con conseguente produzione di idrogeno e riduzione delle emissioni di gas serra (che in questo caso, vista l’origine delle biomasse, potrebbero addirittura divenire “negative”) appare molto interessante. Ovviamente, la separazione della CO2 introduce notevoli penalizzazioni sul rendimento globale, valutabili in circa 8-10 punti di rendimento [105, 106]. Tuttavia, la produzione di idrogeno da biomasse viene attivamente studiata perseguendo anche altre strade, fra le quali quelle ritenute più interessanti sono basate sul trattamento diretto delle biomasse con acqua in condizioni supercritiche (350-450°C e 250-500 bar) e sulla pirolisi veloce [107112]. Nonostante i vantaggi derivanti dallo sviluppo di un sistema energetico basato su un largo impiego dell’idrogeno appaiano rilevanti, la sua implementazione richiede un notevolissimo sforzo tecnologico, oltre che sul fronte delle tecnologie di produzione, anche e soprattutto sul fronte delle infrastrutture necessarie a trasportare l’idrogeno a lunga distanza ed a conservarlo per lunghi periodi di tempo. In quest’ottica, numerose attività di ricerca e sviluppo sono focalizzate sullo studio di vettori energetici alternativi all’idrogeno come il metanolo, il 44 dimetiletere (DME), l’etanolo e i combustibili liquidi di sintesi (i prodotti Fischer-Tropsch). L’impiego di questi vettori energetici può risultare competitivo nei confronti dell’idrogeno per la generazione distribuita di energia e per il settore dei trasporti in un’ottica di medio-breve periodo. Infatti, il grande vantaggio di questi vettori energetici è rappresentato dal fatto che essi possono essere prodotti a partire da una vasta gamma di combustibili primari (gas naturale, carbone, biomasse, etc.) attraverso processi di gassificazione o di reforming integrati con processi di sintesi chimica. Questi vettori energetici possono anche essere maneggiati con facilità (rispetto all’idrogeno essi sono infatti liquidi a temperatura ambiente e solo il DME deve essere portato in pressione per poter liquefare a temperatura ambiente) ed alimentati a sistemi energetici avanzati. Le caratteristiche chimico-fisiche di questi vettori energetici sono molto simili a quelle dei principali combustibili convenzionali, essendo peraltro privi di zolfo, metalli pesanti e altre impurità. Di converso, essi presentano generalmente minori valori del potere calorifico. In letteratura si ritrovano diversi studi aventi per oggetto la produzione di questi combustibili da gassificazione o da pirolisi delle biomasse [113-121]. Le soluzioni proposte sono spesso differenziate per quanto riguarda la configurazione e la tecnologia della sezione di gassificatore (o di pirolisi), di depurazione del syngas (a caldo o a freddo) e di sintesi chimica finale (sistemi dedicati o di tipo once-trough). Dall’analisi di tali studi emerge la necessità di una consistente attività di ricerca e sviluppo tecnologico prima dell’affermazione di una simile filiera. In ogni caso, i risultati degli studi in corso prospettano il raggiungimento di una soglia di convenienza entro orizzonti temporali non immediati (25-20 anni), anche se fortemente dipendenti dalle dinamiche dei mercati dei combustibili fossili. 45 2.4 I PROCESSI DI PIROLISI DELLE BIOMASSE Un processo di pirolisi è costituito dall'insieme delle trasformazioni chimicofisiche attraverso le quali si ottiene la decomposizione termica delle biomasse (o di altri combustibili primari come i rifiuti solidi urbani o il carbone) in assenza di ossigeno. A seguito del processo di decomposizione si ottiene come prodotto finale una miscela di prodotti solidi (il char, ovvero un prodotto a matrice carboniosa con presenza di idrogeno e che include anche le ceneri del combustibile primario), liquidi (l’olio di pirolisi, costituito fondamentalmente da numerose specie organiche mischiate con acqua) e gassosi (il gas da pirolisi, una miscela di CO, CO2, CH4, H2, etc.) , in proporzioni diverse a seconda delle condizioni operative del processo. Il processo si sviluppa riscaldando le biomasse fino a valori di temperatura che partono da circa 350-550°C per arrivare in alcuni casi fino a circa 700°C. Poiché il processo di pirolisi avviene in assenza di ossigeno, il riscaldamento delle biomasse si realizza fornendo calore dall’esterno (in linea di principio tale calore può provenire da diverse fonti, come quella solare, ma in pratica deriva sempre da processi di combustione esterni al reattore di pirolisi alimentati da combustibili fossili convenzionali oppure, meglio, da una parte degli stessi prodotti finali). I prodotti del processo di pirolisi vengono utilizzati per la produzione di energia e, come detto, del il sostentamento energetico dello stesso reattore pirolitico. L’eterogeneità e la qualità dei prodotti ottenuti rappresenta un notevole vincolo per un efficace sfruttamento energetico in sistemi ad elevata efficienza. Infatti, a causa di queste problematiche, la tecnologia pirolitica viene proposta ed utilizzata soprattutto per il trattamento di rifiuti di diversa natura, per i quali l’efficienza di conversione energetica non è ne l’unico ne il principale parametro di valutazione. Molto spesso, nei sistemi pirolitici commercializzati, tutti i prodotti del processo vengono solitamente inviati a combustione e l’energia termica recuperata dai gas combusti, al netto di quella utilizzata per il sostentamento del reattore, viene utilizzata per la produzione di vapore di processo o per l’azionamento di una turbina a vapore. I gas combusti, a valle del processo di recupero termico vengono opportunamente trattati in una sezione di depurazione (ai fini della rimozione del particolato e dei composti acidi) prima dello scarico in atmosfera. In termini più generali, il prodotto principale del processo di pirolisi è rappresentato dalla componente liquida la quale, dopo un eventuale processo di trattamento, viene inviata alla sezione di conversione energetica per la produzione di energia elettrica ed eventualmente termica. Uno dei parametri che maggiormente condizionano le prestazioni del processo di pirolisi è la velocità di riscaldamento del combustibile. Il percorso di sviluppo dei processi di pirolisi è iniziato con la cosiddetta pirolisi lenta 46 (caratterizzata da velocità di riscaldamento dell’ordine di 5-7°C/min), nella quale i prodotti prevalenti sono la frazione solida (con il 20-40% in massa) e liquida (con il 25-50%) mentre la frazione gassosa è minoritaria (20-30%). In linea di massima, le sperimentazioni condotte da diversi gruppi di ricerca hanno dimostrato che la frazione liquida e quella gassosa aumentano all’aumentare della temperatura. Un’influenza notevole viene inoltre esercitata anche dalle dimensioni delle biomasse alimentate e dalla stessa composizione della biomassa. La produzione di elevati quantitativi di char non è desiderata ai fini della successiva conversione in energia elettrica e/o termica, in quanto difficilmente utilizzabile in sistemi ad elevata efficienza. Per questo motivo, la attività di ricerca sono principalmente rivolte verso l’individuazione delle condizioni operative che consentono di massimizzare la produzione delle frazioni più pregiate. Aumentando la velocità di riscaldamento delle biomasse, attraverso processi di pirolisi veloce (fast pyrolisis, realizzata con gradienti anche fino a 300°C/min) si riesce ad incrementare la frazione liquida (fino ad oltre il 60-65%), minimizzando quella solida (15-29%). Allo scopo di realizzare la pirolisi veloce sono state sviluppate o semplicemente proposte diverse tipologie di reattore, fra cui sistemi a letto fluido, a letto trascinato, operanti sotto vuoto, etc. La conversione in olio e in gas può essere ancora incrementata aumentando la velocità di riscaldamento, fino a giungere a tempi di permanenza nel reattore di pochi secondi, conseguibili con processi di flash pirolisi. Anche in questo settore le ricerche si sono orientate verso lo sviluppo di differenti tipologie di sistemi quali la pirolisi in atmosfera di idrogeno (Flash Hydro-Pyrolysis), la pirolisi con fornitura di energia mediante collettori solari a concentrazione (Solar Flash Pyrolysis) e la pirolisi sotto vuoto (Vacuum Flash Pyrolysis). Le temperature operative sono dell’ordine di 400-600°C e, a seconda del sistema utilizzato e della tipologia di biomassa alimentata, le rese in olio arrivano fino al 65-70%, mentre quelle in gas sono dell’ordine del 10-15%. Nonostante i processi di flash pirolisi e di pirolisi veloce riescano ad incrementare notevolmente la frazione di olio pirolitico, quest’ultimo risulta poco stabile nel tempo e scarsamente miscibile con i combustibili liquidi convenzionali, per cui, come meglio discusso nel seguito, non può essere utilizzato tal quale nel settore dei trasporti, se non a prezzo di costosi trattamenti. Una possibile alternativa viene fornita dagli sviluppi in atto nel settore della pirolisi catalitica, dove, attraverso catalizzatori a base, per esempio, di zeoliti, di allumina, di ferro e cromo, etc., introdotti all’interno del reattore unitamente al combustibile, si riesce a produrre un olio di migliore qualità e che non necessita di successivi trattamenti di affinamento. 47 La pirolisi veloce appare una delle tecnologie di potenziale interesse nel settore dei processi di conversione termochimica delle biomasse. Tuttavia, il raggiungimento di un livello di sufficiente maturità industriale e commerciale è ancora ostacolato dalla eterogeneità dei prodotti del processo (un mix di prodotti solidi, liquidi e gassosi) e dal loro modesto livello qualitativo. Le attività di ricerca e sviluppo nel settore della piriolisi si concentrano pertanto soprattutto sul fronte del miglioramento qualitativo dei prodotti, con interventi sia sul processo sia sul trattamento a valle. Come detto, il principale prodotto di questa tipologia di processo è rappresentato da una miscela liquida di bio-olio e acqua, che costituisce fino al 70-80% in peso della biomassa iniziale. Il bio-olio è in realtà una miscela di diverse specie chimiche che derivano dalla condensazione dei composti gassosi liberatisi per decomposizione termica delle biomasse. Ovviamente, la composizione del bio-olio differisce in misura marcata da quella dei combustibili liquidi derivati dal petrolio [122]. Uno degli elementi caratteristici del bio-olio è la presenza di consistenti percentuali di acqua, dell’ordine del 15-30%, derivanti soprattutto dall’umidità iniziale delle biomasse. Tale presenza contribuisce notevolmente alla riduzione del potere calorifico, anche se contribuisce a ridurre la viscosità del bio-olio, intrisecamente maggiore di quella dei combustibili liquidi di origine fossile (con la conseguente necessità di un riscaldamento per ridurne il valore). I combustibili liquidi derivanti dai processi di pirolisi contengono inoltre rilevanti quantitativi di ossigeno, dell’ordine del 35-40%, con una conseguente ulteriore riduzione del potere calorifico. Inoltre la presenza di così elevati quantitativi di ossigeno rende il bio-olio di fatto non miscibile con i combustibili fossili convenzionali. La non miscibilità dell’olio pirolitico viene aggravata dal fatto di presentare una ampia gamma di temperature di vaporizzazione. Ancora, il bio-olio presenta una elevata concentrazione di sostanze acide, con conseguente tendenza ad amplificare i fenomeni corrosivi, ed una notevole instabilità chimica. Peraltro, anche le ceneri, sebbene presenti in concentrazioni non superiori a quelle dei combustibili liquidi fossili, provocano problemi di erosione e corrosione a causa della presenza di composti alcalini come sodio, potassio e vanadio. In relazione a tali caratteristiche, un efficace utilizzo dell’olio ai fini della produzione di energia richiede molto spesso un adeguato pre-trattamento. Un gran numero di attività di ricerca sono attive proprio nel settore del trattamento degli oli prodotti dai processi di pirolisi [122-124]. Fra i processi studiati vi è la idrodeossigenazione, attraverso la quale l’olio reagisce in presenza di catalizzatori in un ambiente ricco di idrogeno (oppure di CO) e in pressione. L’ossigeno viene rimosso sotto forma di acqua e di anidride carbonica. Tale tipologia di processo, sebbene in grado potenzialmente di eliminare quasi completamente l’ossigeno, richiede apparecchiature complesse 48 e presenta elevati costi operativi. In alternativa, la decomposizione del bio-olio in idrocarburi più semplici, con formazione di acqua e anidride carbonica (e quindi la riduzione del tenore di ossigeno) può essere ottenuta anche attraverso più semplici processi di cracking catalitico. Tuttavia, le reazioni coinvolte in tale processo conducono spesso alla formazione di eccessivi quantitativi di coke, ed a combustibili di bassa qualità. Nonostante tale processo sia interessante per via dei ridotti costi operativi, richiede ancora una notevole mole di attività di ricerca nel settore dei catalizzatori. Al fine di evitare costosi trattamenti chimici, sono anche allo studio processi di emulsione con combustibili fossili convenzionali. Data la natura immiscibile del bio-olio, in questo caso è infatti necessario utilizzare specifici surfatanti al fine di garantire stabilità alla miscela. Visto l’interesse per l’idrogeno, un’altra strada ampiamente investigata negli ultimi anni è il reforming del bio-olio con vapore al fine di produrre questo importante vettore energetico. Anche in questo caso il processo deve essere attentamente studiato e necessita di specifici catalizzatori dal momento che il bio-olio presenta una spiccata tendenza alla formazione di depositi carboniosi. 2.4.1 Produzione di energia Il principale prodotto della pirolisi è l’olio, specie nella fast pirolisi. La frazione gassosa e il char sono prodotti in minori quantitativi e comunque vengono solitamente utilizzati per produrre l’energia termica richiesta dal reattore pirolitico. L’olio pirolitico può sostituire egregiamente l’olio combustibile di origine fossile, come confermato da numerosi esperimenti in caldaie, motori a combustione interna e turbine a gas [125, 126]. I motori a combustione interna e le turbine a gas appaiono di particolare interesse soprattutto perchè sono disponibili unità anche di piccola potenza. Fatta salva la produzione di energia termica per usi di riscaldamento, l’impiego in caldaie avviene in cocombustione con carbone in impianti di grande taglia. Dalle numerose sperimentazioni condotte sui motori a combustione interna a ciclo Diesel condotte fino ad oggi è emerso che il sistema non appare ancora pienamente affidabile. Uno degli aspetti più critici è rappresentato dalla bassa qualità dell’olio pirolitico che necessita infatti prima dell’impiego in motori Diesel di una accurata depurazione dalle sostanze solide, di una miglioramento delle caratteristiche di stabilità e del potere lubrificante. La sperimentazione ha evidenziato che le diverse caratteristiche dell’olio pirolitico rispetto ai combustibili fossili impongono una rivisitazione dei materiali utilizzati per molti componenti del sistema di iniezione, così come per le guarnizioni e le tenute della pompa del combustibile. La maggiore viscosità richiede un preventivo riscaldamento dell’olio (anche se possibilmente non oltre 50-60°C), 49 così come il minore potere calorifico impone una riprogettazione del sistema di alimentazione. La presenza di acqua, se da un lato aumenta il ritardo alla accensione, dall’altro contribuisce a ridurre la produzione di NOx. Al fine di migliorare le caratteristiche dell’olio pirolitico sono anche state sperimentate tecniche di emulsione con gasolio e di miscelazione con combustibili ad elevato numero di ottano. Le diverse attività di ricerca attualmente in corso nel settore dei motori Diesel sono pertanto rivolte allo sviluppo di più affidabili sistemi di iniezione ed al miglioramento della combustione dell’olio, soprattutto al fine di evitare la formazione di depositi sulle parti più calde del motore. Altre attività sono poi in corso nel settore dell’impiego delle emulsioni e delle miscele con combustibili convenzionali [125]. Anche l’impiego dell’olio pirolitico in turbine a gas è stata ed è ancora oggi oggetto di numerose attività di ricerca e sviluppo in sistemi sia di piccola taglia (microturbine a gas da 70 kWe) sia di media taglia (2,5 MWe). Il lavoro svolto fino ad oggi ha dimostrato che l’olio pirolitico può essere utilizzato dai sistemi di combustione delle turbine a gas. Anche in questo caso, al fine di ridurre la viscosità è richiesto il preriscaldamento dell’olio (fino a circa 70-90°C). Analogamente è importante ridurre a monte la concentrazione di sostanze solide per prevenire danni alle palettature delle turbine. Anche i materiali devono essere adeguatamente valutati a causa della maggiore acidità dell’olio rispetto ai combustibili fossili convenzionali. Ovviamente, le diverse caratteristiche del combustibile richiedono una rivisitazione della camera di combustione, soprattutto per quanto riguarda gli ugelli. L’avviamento e la fermata dell’impianto deve essere effettuato utilizzando combustibili convenzionali. Anche la tecnologia delle turbine a gas alimentate con olio pirolitico non si può ancora ritenere matura dal punto di vista industriale e richiede ulteriori attività di ricerca e sviluppo. Queste ultime sono fondamentalmente concentrate sulla dimostrazione della fattibilità a lungo termine, su turbine di taglia maggiore e operanti in ciclo combinato, ma soprattutto su microturbine a gas. La co-combustione dell’olio pirolitico con carbone e con gas naturale in caldaie di diversa potenza è stata dimostrata con successo e richiede solo poche modifiche al sistema di alimentazione. Ovviamente, rimane da dimostrare la fattibilità tecnica ed economica sul lungo periodo di questa opzione. Fra le altre attività di ricerca tese a valutare le possibilità di impiego dell’olio pirolitico ai fini della produzione di energia deve essere menzionato l’utilizzo in motori Stirling di piccola potenza (da 5 a 10 kWe). L’esperienza maturata fino ad oggi è molto limitata e molto rimane ancora da fare. Le principali aree di investigazione sono ancora una volta incentrate sulla pompa e sugli iniettori. 50 Nel complesso, le maggiori attività di ricerca nel settore dell’utilizzo dell’olio pirolitico ai fini della produzione di energia appaiono concentrate soprattutto sul miglioramento del livello qualitativo dell’olio. In particolare, sono necessarie bassissime concentrazioni di solidi, stabilità a lungo termine, riduzione della viscosità e concentrazioni di acqua non troppo elevate [125, 126]. 51 3 I BIOCARBURANTI 3.1 LO SCENARIO DEI CONSUMI ENERGETICI NELL’UNIONE EUROPEA: L’IMPORTANZA DEI BIOCARBURANTI I cambiamenti climatici, l'aumento del prezzo del petrolio e i timori per le forniture future hanno determinato un crescente interesse verso l’utilizzo delle biomasse a fini energetici. A livello europeo le importazioni di combustibili fossili coprono circa l’80% dei consumi energetici, ma si prevede che queste raggiungano il 94% nel 2030. Nel 2006 sono state consumate 603 milioni di tonnellate di petrolio di cui il 47% nel settore dei trasporti su strada e l’8% nel trasporto aereo (Figura 3.1) [127]. L’industria dei carburanti utilizza quasi esclusivamente combustibili fossili (circa il 98%) e, a differenza di quanto previsto per gli altri settori, il consumo di petrolio per i trasporti avrà il tasso di crescita più elevato nei prossimi anni. Questo dato, unito alla rapidità con la quale le risorse energetiche fossili si stanno esaurendo, sta portando ad un continuo aumento del prezzo del greggio e ad una conseguente diminuzione della sicurezza energetica. Figura 3.1 - Uso dei prodotti petroliferi per settore (fonte: Eurostat 2007). Inoltre, il settore trasporti è l’unico che negli ultimi 15 anni ha dato luogo ad un incremento significativo delle emissioni di CO2, il più importante gas serra in quanto responsabile del 95% delle emissioni dovute alle attività umane. Ci si attende che questo trend continui nei prossimi anni, rendendo quindi difficile il raggiungimento degli obiettivi fissati dal protocollo di Kyoto. In sintesi, le prospettive di un incremento nell’uso di carburanti nel settore trasporti porteranno sia ad un aumento della dipendenza dalle importazioni di petrolio (minore sicurezza energetica) che ad un incremento delle emissioni di CO2. 52 In questo scenario i biocarburanti possono dare un notevole contributo [127]. Essendo prodotti a partire da biomasse, una fonte di energia rinnovabile, i biocarburanti rappresentano un sostituto diretto dei carburanti tradizionali – benzina e gasolio - e possono essere integrati rapidamente nei sistemi di distribuzione. Nonostante il costo dei biocarburanti sia ancora più elevato di quello dei combustibili fossili, il loro utilizzo è in aumento in tutto il mondo. Grazie alla spinta di misure politiche e strategiche, la produzione mondiale di biocarburanti è oggi stimata in oltre 35 miliardi di litri. Nella strategia dell’UE i biocarburanti dovrebbero contribuire al miglioramento della sicurezza energetica nel medio e lungo termine e, contemporaneamente, costituire una parte importante del pacchetto di misure per la riduzione delle emissioni di CO2 in accordo col protocollo di Kyoto. A questo proposito la Figura 3.2 mostra come le emissioni di CO2 potrebbero ridursi grazie allo sviluppo del settore dei biocarburanti da qui al 2030. Figura 3.2 – Emissioni di CO2(MT), UE25, 1990-2030. Allo stato attuale la produzione di biocarburanti su larga scala non è sostenibile per due motivi: • la limitata disponibilità di materie prime; • gli alti costi di produzione. A breve e medio termine i biocarburanti necessiteranno ancora di aiuti pubblici (es. sgravi fiscali). Al fine di andare verso un pieno sfruttamento dei benefici dei biocarburanti e renderli socialmente ed economicamente sostenibili nel lungo termine, le nuove tecnologie di produzione stanno andando verso la differenziazione delle materie prime utilizzabili e la riduzione dei costi di produzione. Nel presente capitolo, dopo aver brevemente ricordato quali sono i processi e le materie prime attualmente in uso nella produzione dei biocarburanti (principalmente biodiesel e bioetanolo), ci si occuperà in modo sintetico di indicare in quali direzioni sta attualmente volgendo la propria attenzione la ricerca scientifica [128]. 53 3.1.1 I Biocarburanti: Biodiesel, bioetanolo, oli vegetali I biocarburanti attualmente in uso sono: il biodiesel, il bioetanolo e gli oli vegetali. Solo i primi due sono usati nel settore trasporti, in quanto compatibili coi motori diesel e benzina delle autovetture, gli ultimi invece vengono usati principalmente per la produzione di energia elettrica al posto di oli combustibili di origine fossile (§ par. 2.3 e par. 3.2). In Europa i biocarburanti vengono generalmente venduti in miscela con i comuni combustibili in misura del 5%. Miscele con percentuali maggiori di biocarburanti vengono usate talvolta nel settore del trasporto pubblico (autobus e mezzi pubblici). Il biodiesel deriva dalla transesterificazione degli oli vegetali ottenuti principalmente da colture oleaginose (es. colza, soia e girasole). Il bioetanolo, invece, viene prodotto tramite processi di fermentazione e distillazione di materiali zuccherini o amidacei. 3.1.1.1 Vantaggi ambientali I biocarburanti vengono definiti “CO2-neutri”, infatti essendo prodotti da materie prime di origine vegetale, danno luogo ad un ciclo chiuso della CO2. Sebbene possano esserci emissioni di CO2 associate alla loro produzione dovute all’utilizzo di fertilizzanti, trattori, trasporto e trattamento, tuttavia, queste sono inferiori a quelle prodotte dai tradizionali combustibili fossili. 1 kg di gasolio sostituito con il biodiesel permette di risparmiare 2,5 kg di CO2 Nel caso di oli vegetali la riduzione indicativa di emissioni di CO2 è compresa fra l’ 80 ed il 96%. I biocarburanti possiedono un’elevata biodegradabilità. Il biodiesel viene facilmente attaccato dai microorganismi (99% in 21 giorni). Al contrario, il gasolio di origine fossile risulta in generale tossico per i microorganismi in quanto, oltre a numerosi alcani a catena lunga (C10 - C20) privi di ossigeno, contiene anche idrocarburi ciclici alifatici, idrocarburi policiclici aromatici e alchilbenzeni. Il bioetanolo è rapidamente biodegradato se viene disperso nell’ambiente. Il biodiesel da luogo ad una minore fumosità dei gas di scarico nei motori diesel (-70 %) e conseguentemente ad una minore emissione di particolato (-20/60 %). Inoltre, non contiene sostanze, quali gli idrocarburi aromatici (benzene, toluene ed omologhi) o policiclici aromatici (PAH), estremamente pericolose per la salute umana, in quanto aventi effetti citotossici, cancerogeni, mutageni e respiratori cronici. Per quanto riguarda il bioetanolo è opinione corrente che l’emissione di particolato e di idrocarburi volatili sia significativamente ridotta. Tuttavia, anche con miscele a bassa percentuale di etanolo, gli idrocarburi volatili possono aumentare a causa della maggiore pressione di vapore del biocarburante. Le emissioni di alcuni degli inquinanti più tossici come il 54 benzene, l’1,3-butadiene, il toluene e lo xilolo diminuiscono utilizzando etanolo. Il biodiesel non contiene metalli nocivi quali Cd, Pb e V, riduce i pericoli nelle fasi di trasporto e stoccaggio grazie alla minore infiammabilità (punto di infiammabilità >100°C), ha un elevato potere lubrificante che diminuisce l’usura del motore. L'ossigeno contenuto nei biocarburanti (mediamente il 10% nel biodiesel contro il 2% nel gasolio) favorisce la combustione e diminuisce le emissioni di CO (35% per il biodiesel, -20-40% per il bioetanolo). Il monossido di carbonio è indice di cattiva combustione in quanto viene prodotto in carenza di ossigeno. Maggiore è il quantitativo emesso, maggiori sono i problemi nella combustione. Il biodiesel in miscela al 20% emette mediamente il 15% in meno di CO. La miscela E10 (benzina contenente il 10% di etanolo) riduce il CO del 25%. I biocarburanti hanno un contenuto di zolfo praticamente nullo, il che azzera le emissioni di anidride solforosa (SO2) e migliora l’efficienza del sistema di controllo catalitico delle emissioni. 55 3.2 OLI VEGETALI Gli oli vegetali estratti da specie oleaginose (es. colza e girasole) sono, a tutti gli effetti e senza ulteriori modifiche, dei combustibili e, come tali, possono trovare un impiego nel settore energetico analogamente a quanto avviene per i combustibili liquidi di origine fossile. L’uso di oli vegetali come carburante per motori diesel è un concetto vecchio quanto l’invenzione dello stesso motore diesel. All’Esposizione Universale di Parigi del 1900 Rudolf Diesel presentò ufficialmente un motore di sua invenzione che utilizzava olio di arachidi come carburante [129]. Da allora il motore denominato ‘diesel’ in onore al suo inventore è stato sviluppato sino ai giorni nostri, anche se alimentato dal gasolio di origine petrolifera. Il motivo per il quale l’uso degli oli vegetali tal quali per l’autotrazione è, allo stato attuale, escluso è dovuto alla loro elevata viscosità cinematica (Tabella 3.1). Un loro utilizzo in questo settore richiederebbe, infatti, importanti modifiche nella progettazione dei motori. Esistono quattro metodi per ridurre la viscosità degli oli vegetali ed evitare problemi operazionali del motore: i. miscelazione col gasolio; ii. pirolisi; iii. microemulsificazione; iv. transesterificazione [130]. Tra tutti i metodi il più utilizzato è il quarto che porta alla formazione di miscele di esteri alchilici degli acidi grassi, più noti col nome di biodiesel (§ par. 3.3) Tabella 3.1 - Confronto tra le proprietà degli oli vegetali e del gasolio [129]. Proprietà Unità di Oli combustibili Gasolio misura vegetali p.c.i.* kcal/kg 9.000-9.500 10.200 Flashpoint °C 230-290 60 Numero di cetano Densità - 30-40 54 kg/m3 0,915 0,839 Viscosità a 38ºC mm2/s 27-53 2,7 * Il potere calorifico inferiore (p.c.i.) è la quantità di calore che si sviluppa con la combustione completa di 1 kg di biomassa, considerando l’acqua allo stato di vapore a 100 °C, ossia considerando la sola parte di calore effettivamente utilizzabile. Il p.c.i. si misura in Kcal/Kg. Le attuali applicazioni energetiche degli oli vegetali sono relative all’impiego in motori diesel per la produzione di energia elettrica come è già stato descritto del capitolo 2 della presente relazione. 56 3.3 IL BIODIESEL Il biodiesel è costituito da una miscela di esteri alchilici di acidi grassi. Le specifiche tecniche del biodiesel sono molto simili a quelle del gasolio per autotrazione come si evince dal confronto fra le loro proprietà (Tabella 3.2). Tabella 3.2 - Confronto tra le proprietà come carburanti del biodiesel e del gasolio [113]. Proprietà Unità di misura Biodiesel Gasolio p.c.i. kcal/kg 8.900 10.200 Flashpoint °C 85-178 63 2 Viscosità a 38°C mm /s 4,78 3,12 Numero di cetano 48-56 54 Densità kg/m3 885 839 Le specifiche internazionali standard per il biodiesel sono fissate nella norma ISO 14214, negli Stati Uniti dalla norma ASTM D6751 e nell’UE dalla EN 14214. Il biodiesel può essere usato puro o in miscela. Il Biodiesel puro (BD100 in Europa o B100 negli Stati Uniti) può essere utilizzato, dopo aver apportato delle opportune modifiche, nei motori diesel. Se invece utilizzato in miscela al 5% col gasolio (BD5) non è necessario apportare alcuna modifica [127]. 3.3.1 Processi industriali per la produzione di biodiesel Il biodiesel è prodotto industrialmente mediante reazione di transesterificazione a partire da trigliceridi e alcoli in presenza di un catalizzatore. Il metanolo è l'alcol più economico sul mercato e perciò il più usato [131]. In realtà si possono utilizzare anche altri alcoli a catena più lunga, sia lineare che ramificata, (etanolo, iso-propanolo, butanolo, ecc.) i quali permettono di ottenere un biocarburante con migliori proprietà alle basse temperature [131]. Nella Figura 3.3 sono riportate le varie fasi coinvolte nella produzione del biodiesel. Come verrà approfondito in seguito, i processi produttivi attuali utilizzano come materie prime sia oli provenienti dalla spremitura di semi oleaginosi che oli o grassi di scarto. A valle del processo di transesterificazione si ottiene il biodiesel che può essere usato come carburante per autotrazione o combustibile negli impianti di riscaldamento. Il sottoprodotto principale è la glicerina (soluzione acquosa di glicerolo) la quale, dopo purificazione, può essere usata per scopi farmaceutici e cosmetici. In realtà, i grandi quantitativi di glicerina ottenuti dalla produzione del biodiesel hanno fatto crollare il suo prezzo di mercato. Attualmente, sono in fase di studio diversi processi chimici innovativi atti alla trasformazione del glicerolo in nuovi prodotti di interesse industriale [127]. 57 Figura 3.3 - Schema di produzione del Biodiesel. Scendendo più nel dettaglio della reazione di transesterificazione, questa avviene grazie all’azione del metanolo (metanolisi) in presenza di un catalizzatore basico o acido (Figura 3.4a). O O CH2O C R1 Catalyst O CHO C R2 3 CH3OH + O R2C OCH3 CHOH + O O CH2O C CH2OH R1C OCH3 CH2OH R3C OCH3 R3 (a) RCOOH + - + RCOO Na NaOH Soap Fatty acid (b) H2SO4 RCOOH + CH3OH Fatty acid Methanol RCOOCH3 + H2O FAME (c) Figura 3.4 - (a) Metanolisi di un generico trigliceride per la produzione di esteri metilici degli acidi grassi (FAME); (b) reazione indesiderata di formazione di saponi; (c) reazione di esterificazione degli acidi grassi liberi mediante catalisi acida. Il rapporto molare fra olio e metanolo dipende dal tipo di catalizzatore utilizzato. La stechiometria della reazione richiede 3 moli di alcol per 1 mole di trigliceride, tuttavia per spostare l’equilibrio verso destra si utilizza spesso un eccesso di alcol. E’ stato trovato che il rapporto ottimale metanolo:olio di soia, 58 nella transesterificazione catalizzata da basi è pari a 6:1 [132]. In caso di catalisi acida è consigliato usare un rapporto 30:1 (metanolo:olio) [133]. La catalisi basica (generalmente NaOH, KOH o CH3ONa) è la più comunemente utilizzata nella produzione del biodiesel. Rispetto a quella acida (H2SO4, HCl), porta ad una maggiore conversione in condizioni più blande ed in minor tempo; necessita di una minore quantità di alcol così da richiedere l’utilizzo di reattori più piccoli [134]. Dalla reazione si ottiene una miscela di esteri e diversi sottoprodotti. Oltre alla già citata glicerina, gli altri sottoprodotti sono i mono- e digliceridi ottenuti dall'alcolisi parziale dei trigliceridi. Questi sottoprodotti devono essere separati e rimandati al reattore. Sono presenti inoltre: acidi grassi liberi, acqua ed il catalizzatore alcalino in eccesso. Per ottenere un biodiesel che rispetti le specifiche imposte dagli standard internazionali sono necessari complicati processi di purificazione. Quando l'acidità della materia prima è elevata, si ha la formazione di sapone (Figura 3.4b), il quale essendo una sostanza tensioattiva, dà luogo alla formazione di schiume ed emulsioni che complicano il processo di separazione tra gli esteri ed il glicerolo. In questa situazione si preferisce utilizzare come catalizzatore un acido (generalmente H2SO4) (Figura 3.4a e 3.4c). Questo processo necessita però di temperature, pressioni e tempi di reazione maggiori rispetto al processo alcalino. A causa dell’uso di catalizzatori omogenei acidi o basici gli impianti necessitano di reattori ed accessori resistenti a questi agenti aggressivi; per di più sono necessari elevati standard di sicurezza. La presenza di questi svantaggi giustifica, come sarà riportato più avanti, l'elevato interesse scientifico per la ricerca di metodi alternativi per la produzione del biodiesel. 3.3.2 Materie prime utilizzate per la produzione di biodiesel 3.3.2.1 Oli Vegetali Le materie prime utilizzate per la produzione di biodiesel variano a seconda della disponibilità locale e del prezzo sul mercato mondiale. Ad esempio, l’olio di semi di soia è usato soprattutto negli Stati Uniti, mentre in Europa si usano gli oli di semi di colza, di semi di girasole e l’olio di palma. Il prezzo di quest’ultimo è tuttora concorrenziale nonostante sia un prodotto di importazione proveniente dai paesi tropicali (es. Malesia). La principale differenza tra questi oli è data dalla loro differente composizione in acidi grassi i quali determinano le proprietà della miscela finale di biodiesel. 59 La Tabella 3.2 riporta la composizione dei più comuni oli usati per la produzione di biodiesel. Gli acidi grassi più abbondanti sono l’acido palmitico, stearico, oleico e linoleico. Tabella 3.2 - Composizione in acidi grassi dei più comuni oli/grassi utilizzabili per la produzione di biodiesel. Olio/grasso Acido Acido Acido Acido Problemi Palmitico Stearico Oleico Linoleico (C16:0) (C18:0) (C18:1) (C18:2) Olio di soia 8 4 28 53 Stabilità all’ossidazione Olio di 42 5 41 10 Basse palma temperature Olio di colza 4 1 60 20 Olio di 6 4 28 61 Stabilità girasole all’ossidazione Sego 26 18 37 10 Basse temperature Olio di 12.8 7.3 44.8 34 Jatropha Le principali proprietà fisiche e chimiche di un olio/grasso dipendono dalla struttura chimica degli acidi grassi dei quali sono costituiti (Figura 3.5). A questo riguardo, un problema frequente del biodiesel è la stabilità all’ossidazione. L’ossidazione dei composti insaturi procede a diverse velocità a seconda del numero e della posizione dei doppi legami [135]. Negli oli di semi di colza, girasole e soia l’elevato contenuto di acido linoleico conferisce bassa stabilità all’ossidazione a causa della presenza di due doppi legami. Palmitic acid (C16:0) O C OH Stearic acid (C18:0) O C OH Oleic acid (C18:1) O C OH Linoleic acid (C18:2) O C OH Figura 3.5 - Struttura chimica dei più comuni acidi grassi che compongono oli e grassi. 60 L’olio di palma ed i grassi animali (sego) contengono percentuali elevate di acidi grassi saturi (acido palmitico e stearico) che conferiscono una maggiore stabilità all’ossidazione alla miscela finale di biodiesel. D’altro canto, questi stessi acidi grassi sono responsabili delle scarse proprietà alle basse temperature, quali l’elevato punto di intorbidimento (cloud point) e di scorrimento (pour point), del biodiesel [136]. Ciò può costituire un problema nelle regioni del centro e nord Europa nei periodi invernali. In realtà il problema principale è che l’uso dei soli oli vegetali nella produzione dei biocarburanti non consente di soddisfare gli obiettivi dell’UE a causa dei costi elevati di produzione e della limitata disponibilità delle materie prime. Inoltre, il fatto che si utilizzino colture alimentari (mais, soia) sta portando ad un aumento dei prezzi dei prodotti alimentari e ad una conseguente non accettazione dei biocarburanti da parte dell’opinione pubblica. Per questi motivi, in accordo con quanto già riportato nei paragrafi precedenti, si sta cercando di diversificare le fonti di approvvigionamento di materie prime per la produzione del biodiesel. Tra queste, alcune sono già utilizzate nei processi produttivi (es. oli/grassi di scarto, oli non commestibili), per altre invece si sta ancora operando a livello di ricerca (microalghe). 3.3.2.2 Oli e grassi alimentari di scarto Gli oli e grassi di scarto costituiscono un’importante alternativa per la produzione di biodiesel. Fra gli oli vegetali esausti di origine alimentare che possono essere recuperati per la valorizzazione energetica, vanno annoverati quelli provenienti dalle lavorazioni industriali (da forni e friggitrici) e dalle utenze domestiche (oli di frittura e oli per la conservazione degli alimenti). Essi offrono il vantaggio di essere poco costosi inoltre il loro utilizzo apporta benefici ambientali risolvendo il problema dello smaltimento. Si ha infatti una riduzione della produzione di rifiuti e un alleggerimento del carico inquinante in ingresso negli impianti di depurazione delle acque reflue civili. Nye et al. furono i primi ad utilizzare oli di frittura per produrre metil- etil- e butil-esteri [137]. Il problema principale associato al loro utilizzo è la necessità di un trattamento preliminare per rendere l’olio o il grasso adatto al processo di transesterificazione. L’olio di scarto purificato costa circa la metà dell’olio vegetale vergine, quindi l’uso di questi materiali ha un senso dal punto di vista economico. E’stato dimostrato che la transesterificazione può servire come mezzo di purificazione tanto che il biodiesel prodotto risulta qualitativamente uguale a quello ottenuto da oli vergini e mostra un miglioramento per quanto riguarda l’emissione di gas [134]. Particolare attenzione è stata rivolta agli scarti dei ristoranti [138], agli oli di scarto non commestibili [139] e ai grassi animali 61 quali il sego [140]. Negli Stati Uniti, i ristoranti producono circa 13.6 milioni di litri di olio di scarto all'anno [134] mentre, ad esempio, solo in Italia si consumano annualmente 39 miliardi di litri di carburanti (gasolio e benzina). Si deduce che la produzione di biodiesel da oli/grassi di scarto non potrebbe sostituire totalmente il gasolio di origine fossile ma sicuramente potrebbe fornire un valido contributo. 3.3.2.3 Oli non commestibili Un’altra via per ridurre i costi di produzione del biodiesel sembra essere quella di sostituire gli oli vegetali con oli non commestibili. Esistono diverse piante che producono oli che contengono sostanze nocive per l’uomo, in alcuni queste sostanze possono essere rimosse mediante opportuni metodi, tuttavia la rimozione dei componenti tossici non è necessaria nel caso in cui queste specie siano utilizzate nella produzione di biodiesel. Sono state considerate alcune specie oleaginose come la Jatropha (euphorbiaceae): una pianta che cresce in terreni aridi, i cui semi producono 40-60% (m/m) di olio e che non può essere usata per scopi alimentari perché il suo olio contiene sostanze tossiche [141, 142]. In India si è deciso di promuovere fortemente l'impiego dei biocarburanti puntando decisamente sulla Jatropha [134]. Gli esteri etilici dell’olio di ricino in Brasile sono considerati una valida alternativa ai combustibili tradizionali [143]. L’olio di ricino viene ricavato dai semi della Ricinus communis i quali contengono l’acido ricinoleico, che ha un’azione purgativa intensa e irritante e la ricina, una tossina pericolosa che può provocare gravi intossicazioni. 3.3.2.4 Microalghe Le microalghe sono microrganismi fotosintetici che convertono luce solare, acqua e biossido di carbonio in biomassa. Possono crescere sia in ambiente marino che in acqua dolce. Alcune microalghe sono estremamente ricche in olio tanto da poter essere usate per produrre biodiesel con le tecnologie attuali. L’olio contenuto in alcune microalghe supera l’80% del peso secco della biomassa [144, 145]. Nella Tabella 3.3 si osserva che il contenuto di olio in media è compreso tra il 20-50% di massa secca. 62 Tabella 3.3 - Contenuto in oli di alcune microalghe Microalga Contenuto in oli (% massa secca) Botryococcus braunii 25–75 Chlorella sp. 28–32 Crypthecodinium cohnii 20 Cylindrotheca sp. 16–37 Dunaliella primolecta 23 Isochrysis sp. 25–33 Monallanthus salina >20 Nannochloris sp. 20–35 Nannochloropsis sp. 31–68 Neochloris oleoabundans 35–54 Nitzschia sp. 45–47 Phaeodactylum tricornutum 20–30 Schizochytrium sp. 50–77 Tetraselmis sueica 15–23 L’importanza dell’uso di microalghe per la produzione di olio rispetto alle colture oleaginose tradizionali si evince dai dati riportati in Tabella 3.4. In essa sono riportate le superfici di territorio necessarie alle diverse colture per soddisfare il 50% delle esigenze nel settore dei trasporti negli USA tenendo conto della resa in olio per ettaro [144]. Negli Stati Uniti, al fine di sostituire completamente i combustibili derivati dal petrolio con biodiesel (530 milioni di m3/anno), occorrerebbero 111 milioni di ettari coltivati con specie oleaginose corrispondenti a circa il 60% della superficie dedicata all’agricoltura [146]. Nel caso delle microalghe invece tale superficie sarebbe decisamente inferiore. Tabella 3.4 – Confronto tra diverse fonti per la produzione di biodiesel Colture Resa in olio (L/ha) Aree necessarie (Mha)a Mais 172 1540 Soia 446 594 Canola 1190 223 Jatropha 1892 140 Cocco 2689 99 Palma 5950 45 Microalghe b 136,900 2 c Microalghe 58,700 4.5 a Per soddisfare il 50% delle esigenze nel settore biomassa. c 30% olio nella biomassa. % di aree esistenti dedicate alle colture negli USAa 846 326 122 77 54 24 1.1 2.5 dei trasporti negli USA. b 70% olio nella 63 Ulteriori incoraggiamenti alla produzione di microalghe arrivano dal fatto che il terreno più adatto alla loro crescita avrebbe caratteristiche di tipo desertico a forte irraggiamento solare, quindi con basso valore economico per qualunque altro utilizzo. Inoltre si potrebbero utilizzare gli scarti agricoli e l'eccesso di CO2 prodotto dalle industrie per velocizzare la crescita delle alghe stesse. Esistono due metodi di produzione di microalghe su vasta scala: i raceway ponds e i fotobioreattori tubolari (Figura 3.6). (a) (b) Figura 3.6 – Impianti di produzione di microalghe. (a) Vista dall’alto di una vasca raceway.(b) Fotobioreattore tubolare con tubi paralleli orizzontali. I “raceway ponds”o “vasche raceway” sono laghetti artificiali aperti costituiti da canali nei quali vengono coltivate le alghe. In ogni canale un braccio rotante garantisce il flusso d’acqua in modo continuo ed impedisce la sedimentazione [144]. I fotobioreattori sono sistemi chiusi costituiti da tubi solari paralleli orizzontali che sfruttano la luce per produrre alghe. Il flusso d’acqua all’interno del fotobioreattore è garantito da particolari pompe che evitano un’agitazione turbolenta. A differenza dei sistemi aperti forniscono un prodotto incontaminato da agenti esterni, non si hanno variazioni di salinità in seguito alle piogge né perdite di ingenti quantitativi d’acqua in seguito ad evaporazione. Richiedono però una periodica pulizia e sterilizzazione e una zona di degasaggio per allontanare l’ossigeno ed i gas prodotti dal brodo algale [144]. Studi sull’utilizzo di vasche raceway sono stati finanziati dal Dipartimento dell’Energia degli USA. Questo metodo è sicuramente il più economico, anche se dà luogo all’ottenimento di basse rese di biomassa. In Italia il Dipartimento di Biotecnologie Agrarie dell’Università di Firenze ha attivato linee di ricerche sulla produzione di combustibili da microalghe mediante fotobioreattori. 64 Particolare attenzione è stata rivolta all’efficienza fotosintetica e ai sistemi di coltura [147]. Figura 3.7 - Schema del processo di sintesi del biodiesel da oli estratti da microalghe. Nella Figura 3.7 viene mostrato lo schema di un impianto per la produzione di oli da microalghe. Il processo consta di due fasi: la produzione di biomasse da alghe e l’estrazione dell’olio dalla biomassa. La produzione di biomassa da microalghe è generalmente più costosa di quella ottenuta da colture vegetali. Infatti necessita di luce, biossido di carbonio, sostanze nutrienti inorganiche quali nitrati, fosfati, ferro e alcuni elementi in tracce. Spesso viene usata acqua di mare integrata con nitrati e fosfati per la produzione di microalghe marine. Circa la metà del peso secco della biomassa algale è costituita da carbonio che in genere deriva dalla CO2; pertanto la produzione di 100 tonnellate di biomassa algale fissa circa 183 tonnellate di CO2. La CO2 deve essere fornita alle alghe in modo continuo durante il giorno perciò diventa importante il collegamento con centrali che producono energia dalla combustione di fonti fossili. La biomassa rimasta dopo l’estrazione dell’olio può essere usata per l’alimentazione animale (alto contenuto proteico) e per la produzione di fertilizzanti. Ma la maggior parte della biomassa residua subisce processi di digestione anaerobica per la produzione di biogas che viene utilizzato in parte come fonte di energia nello stesso processo di produzione delle biomasse algali e in parte venduta alla rete di distribuzione dell’energia elettrica [148, 149]. Con un semplice impianto di coltivazione di microalghe in acqua costituito da: i. vasche di coltivazione delle alghe esposte al sole, ii. impianto di spremitura a freddo delle alghe, iii. impianto di macinatura degli scarti da spremitura delle alghe - si possono effettuare contemporaneamente i seguenti processi [146]: • produzione di olio per biocarburanti; • produzione di fertilizzanti naturali; • trattamento acque inquinate. 65 Due impianti pilota con caratteristiche simili sono stati implementati in Olanda a cura del Kluyvercentre [103]. Con un impianto del genere, localizzato per esempio allo sbocco delle acque reflue in mare, sarebbe possibile trattare acque di scarto da impianti industriali (metalli pesanti), acque di scarto da coltivazioni agricole a concimazione chimica (i composti azotati velocizzano la crescita delle alghe) ed acque di scarto da impianti di allevamento bestiame (es. deiezioni di maiali e pollame). Le stesse alghe, arrivate al termine del processo di crescita, verrebbero spremute in loco e come risultato si avrebbe olio e biomassa di scarto che, opportunamente triturata, si potrebbe usare come fertilizzante naturale. In Nord Carolina è stato costruito un impianto da 140 milioni di dollari, in cui si fanno crescere le alghe in enormi fermentatori, si estrae l'olio, lo si purifica e lo si vende per essere usato in molte produzioni, compreso il biodiesel. Le sue proteine, gli acidi grassi ω 3, ed altri componenti possono essere usati per produrre sostanze nutrizionali [104]. La produzione di biodiesel da microalghe è tecnicamente possibile però alcuni aspetti vanno migliorati quali: • l’economicità del processo; • l’aumento della produzione di olio da alghe ricorrendo all’ingegneria genetica; • l’innovazione tecnologica dei fotobioreattori; • sviluppo di metodi più efficaci per il recupero della biomassa e per la estrazione degli oli. Spesso i risultati di laboratorio non sono applicabili a produzioni su vasta scala soprattutto per quanto riguarda la crescita delle alghe. Inoltre i singoli impianti produttivi vanno dimensionati e studiati a seconda della zona geografica tenendo conto dell’irraggiamento solare. In un documento del "National Renewable Energy Laboratory" (NREL) americano sono stati riportati alcuni inconvenienti relativi all’utilizzo delle microalghe come la necessità di fare gorgogliare la CO2 nelle vasche ed il problema di riscaldare le vasche di coltura nel deserto durante la notte [150]. Comunque la produzione di olio e quindi di biodiesel è ottima e si ottiene una quantità decisamente superiore rispetto alle comuni specie oleaginose (Tabella 3.4). Anche se per il momento la produzione di biodiesel da microalghe è piuttosto bassa, è ipotizzabile che questa acquisterà una grandissima importanza nel prossimo futuro. 3.3.2.5 Etanolo ed altri alcoli Il metanolo è l’alcol più usato nel processo di transesterificazione principalmente per ragioni di natura economica, sebbene ci siano delle 66 eccezioni in alcuni Paesi. In Brasile, ad esempio, dove l’etanolo è disponibile in grandi quantità, il biodiesel è costituito dagli esteri etilici degli acidi grassi (FAEE) [130]. L’etanolo proviene in gran parte, come sarà descritto nei paragrafi seguenti, da processi di fermentazione alcoolica di sostanze zuccherine o amidacee. Per cui, essendo prodotto da biomasse, quindi da fonti rinnovabili, viene attualmente denominato ‘bioetanolo’ per distinguerlo da quello prodotto dall'idratazione dell’etilene, proveniente a sua volta dal cracking di idrocarburi di origine fossile. Per contro, il metanolo viene prodotto principalmente da sorgenti di origine fossile, quindi l’utilizzo di bioetanolo per la transesterificazione dei trigliceridi, permetterebbe di produrre un biodiesel interamente da fonti rinnovabili [127]. Altri vantaggi nell’utilizzo dell’etanolo rispetto al metanolo derivano dalla sua minore tossicità che rende la produzione del biodiesel meno pericolosa per gli addetti ai lavori e dal fatto che abbia un atomo di carbonio in più che aumenta leggermente il potere calorifico ed il numero di cetano del combustibile prodotto [151]. L’uso di altri alcoli C3-C5 lineari o ramificati, come quelli presenti nell’olio di flemma - miscela di alcoli pesanti ottenuto dai residui della distillazione alcolica - potrebbe contribuire ad abbassare ulteriormente il prezzo del biodiesel nonché a trovare un utilizzo energetico per questo materiale di scarto. Dal punto di vista del processo produttivo recenti studi hanno mostrato che tali materie prime possono essere più facilmente utilizzate se si utilizzano processi enzimatici [152]. Inoltre, il biodiesel così ottenuto ha migliori prestazioni alle basse temperature [136]. 3.3.3 Metodi innovativi di produzione del biodiesel Come già riportato nel paragrafo 3.3.1, i metodi produttivi attuali, basati sulla catalisi omogenea (basica o acida), presentano diversi svantaggi che vanno in parte a ridurre i benefici che si hanno dall’impiego dei biocarburanti. Per questo motivo, la ricerca scientifica sta effettuando grandi sforzi per mettere a punto processi innovativi che migliorino l’efficienza energetica del processo di transesterificazione. I processi in studio utilizzano catalizzatori eterogenei, che possono essere quindi recuperati e riutilizzati per diversi cicli produttivi. Inoltre, essi consentono di operare in processi continui con reattori PFR o CSTR. Fondamentalmente due tipi di catalizzatori eterogenei sono in fase di studio: solidi inorganici (basici o acidi) e biocatalizzatori (lipasi immobilizzate). 67 3.3.3.1 Solidi Inorganici In letteratura è riportato un gran numero di solidi inorganici, quali: zeoliti, argille, ossidi e resine a scambio ionico, per la produzione di biodiesel. Alcuni risultati riguardanti il loro utilizzo sono riportati in Tabella 3.3. Tabella 3.3 – Catalizzatori eterogenei (solidi inorganici) nella produzione di biodiesel. Catalizzatore Olio/grasso Alcol Condizioni Resa %(r) di reazione Conversione % (c) CaO Olio di soia MeOH T=65°C 93 (r) Ca(OH)2 12 0 CaCO3 CaO-Air 10 CaO Olio di frittura 99 Mordenite (NaM) Olio di girasole MeOH T=60°C 95 (r) Zeolite beta (Naβ) Zeolite X (NaX) Olio di guscio di MeOH T=60°C >93(r) LiNO3/Al2O3 palma NaNO3/Al2O3 Olio di noce di cocco KNO3/Al2O3 94 Ca(NO3)2/Al2O3 Mg(NO3)2/Al2O3 bassa MeOH Ossido di zirconio Tricaprilina T=120°C 84 (c) EtOH solfato (SZ) p=6,8atm 45 2nBuOH SO4 /ZrO2 37 WO3/ZrO2 Acido oleico MeOH T=75°C 65 (c) Rif. [153] [154] [155] [156] [157] LiNO3/CaO Olio di colza MeOH T=60°C 90(c) soprattutto LiNO3/CaO [158] NaNO3/CaO KNO3/CaO LiNO3/MgO La2O3 (10%)-MCM-41, Na2O-SiO2 CaO CaO 14%w su SBA-15 Olio di soia MeOH T=70°C [7] Olio girasole Olio di ricino Olio di girasole + 10%w di acido palmitico MeOH MeOH MeOH T=333K 81 (c) 76 67 95 (c) 65 80 (c) SAC-13 (Nafion/SiO2) T=60°C, p ambiente [159] [160] I catalizzatori eterogenei basici più usati sono gli ossidi, gli idrossidi e i carbonati dei metalli alcalini e alcalino terrosi (Na2CO3, NaHCO3, K2CO3, KHCO3, K2O, CaCO3, CaO, BaO, Ba(OH)2). Tra questi il CaCO3 sembra essere 68 molto promettente visto che risulta facilmente reperibile e di basso costo. La transesterificazione dell’olio di soia con etanolo in presenza di carbonato di calcio a 260°C ha fornito conversioni superiori al 95% dopo 18 min di reazione. E’ stato osservato che questo catalizzatore non subisce riduzione della sua attività neanche dopo alcune settimane di utilizzo [161]. Anche l’idrossido di bario si è mostrato particolarmente efficace dando rese del 96% dopo 1h di reazione a 65°C con un rapporto molare olio di colza:MeOH=1:6 [162]. L’utilizzo di CaO con olio di soia e metanolo ha fornito rese elevate in esteri metilici dopo 1h di reazione [153]. L’utilizzo di oli di frittura esausti nelle stesse condizioni operative ha prodotto rese elevate (99% dopo 2h). In questo caso però in presenza di acidi grassi liberi una parte del CaO ha dato luogo alla formazione di saponi, con conseguente perdita di catalizzatore e un peggioramento nella separazione dei prodotti. Infine, si è osservato che l’attività catalitica decresce lungo la serie: CaO > Ca(OH)2 >> CaCO3 [153]. L’utilizzo di CaO o MgO come supporti per LiNO3, NaNO3, KNO3 ha permesso di ottenere dei catalizzatori eterogenei che nelle reazioni di metanolisi dell’olio di colza portano a conversioni >90% dopo 3h di reazione a 60°C [158]. In un recentissimo studio, l’utilizzo di zeoliti (mordenite, zeolite beta, o zeolite X) nella metanolisi dell’olio di girasole a 60°C - in presenza o meno di bentonite di sodio come legante - ha fornito rese superiori al 90%. La zeolite X ha manifestato maggiore attività catalitica rispetto alle altre zeoliti [154]. L’utilizzo di Al2O3 come supporto per sali dei metalli alcalini (LiNO3, NaNO3, KNO3) e alcalino-terrosi (Ca(NO3)2) ha portato a rese > 93% in esteri metilici. La resa è invece inferiore (circa 10%) se si usa un catalizzatore a base di Mg(NO3)2/Al2O3 [155]. Va sottolineato il fatto che tutti i catalizzatori precedenti (zeoliti, ossidi di zirconio, ossidi di calcio e di alluminio, nitrati dei metalli alcalini, ecc.) devono essere attivati prima dell’utilizzo mediante calcinazione ad elevate temperature (>400°C). Un’ eccezione è rappresentata dalla resina Nafion® supportata su silice (SAC-13) che non necessita di attivazione e dopo 30h di reazione fornisce conversioni dell’80% [160]. E’ stato studiato il comportamento di alcuni catalizzatori a base di ossidi misti (ZrO2-SiO2, KOH/ZrO2-SiO2, Co2O3-SiO2, Mo2O5-SiO2, Na2O-SiO2, La2O3-MCM41, MgO-MCM-41, BaO-MCM-41, CaO e MgO) nella reazione di metanolisi dell’olio di soia. Le reazioni sono state condotte con un rapporto ponderale pari a 4.5 : 6.0 : 0.3 (metanolo : olio di soia : catalizzatore) a 70°C per 8 ore. I risultati migliori sono stati ottenuti con La2O3 (10%)-MCM-41, Na2O-SiO2 e CaO, con conversioni rispettivamente pari a 81%, 76% e 67% [163]. I catalizzatori acidi più usati per le reazioni di alcolisi sono resine a scambio cationico contenenti preferibilmente gruppi solfonici liberi [164]. E’ stato 69 dimostrato che con questi catalizzatori in condizioni blande di reazione si ottengono bassi valori di conversione. Sono stati utilizzati a questo scopo anche gli orto-fosfati di alluminio, gallio o ferro che però danno buoni risultati solo ad alte temperature e dopo alcuni giorni di reazione [165]. 3.3.3.2 Lipasi immobilizzate Gli enzimi, catalizzatori delle reazioni chimiche negli organismi viventi, operano in condizioni blande di temperatura e pressione con un’elevata selettività. Il loro utilizzo come catalizzatori biotecnologici offre una valida alternativa ai processi catalitici tradizionali [166, 167]. Le lipasi (triacilglicerol acilidrolasi; EC 3.1.1.3) sono enzimi (Figura 3.5) che in natura catalizzano l’idrolisi dei trigliceridi. Esse conservano la loro attività catalitica anche in mezzi non convenzionali (a basso contenuto d’acqua) come solventi organici, liquidi ionici, sistemi solvent-free e fluidi supercritici. L’importanza dell’utilizzo di lipasi nei mezzi non convenzionali è dovuta alla possibilità che questo enzima ha di catalizzare la reazione inversa all’idrolisi (l’esterificazione) nonché la reazione di transesterificazione (alcolisi) coinvolta nella produzione del biodiesel [168, 169]. I vantaggi della biocatalisi rispetto alla catalisi omogenea ed eterogenea tradizionale sono dovuti alla possibilità di operare con elevate attività catalitiche in condizioni blande (pressione atmosferica e temperature prossime a quella ambiente). Si ha quindi un processo più efficiente dal punto di vista del risparmio energetico ed un impianto meno costoso. Il processo enzimatico, inoltre, non porta alla formazione di sottoprodotti. Infine, in presenza di materie prime di scarto con elevati valori di acidità, le lipasi sono in grado di catalizzare anche la reazione di esterificazione diretta tra gli acidi grassi liberi e l’alcol [170]. La produzione di biodiesel mediante biocatalisi fu descritta per la prima volta da Mittlebach nel 1991 [171]. Da allora diversi gruppi di ricerca sparsi per il mondo hanno sperimentato questa biotecnologia per la produzione del biodiesel. La Figura 3.8 mostra il numero di pubblicazioni scientifiche per anno, dal 1996 al 2007 in questo campo che, come si vede, sta avendo una crescita esponenziale. 70 Figura 3.8 – Numero di pubblicazioni scientifiche per anno riguardanti la produzione di biodiesel da biocatalisi. Tabella 3.4 - Produzione di biodiesel a partire da diverse materie prime (trigliceridi e alcoli), utilizzando differenti lipasi in processi continui o discontinui. Lipasi da Olio/ Alcol Tipo di Conversione (c) o Rif. Grasso processo resa (r) (mol% o m%) Pseudomonas Etanolo Batch 82 (r) [171] fluorescens Pseudomonas [172] Metanolo Batch a tre >90 fluorescens stadi Olio di girasole Metanolo Candida antarctica Etanolo Etanolo Metanolo Mucor miehei Porcine pancreatic Rhizomucor miehei Metanolo Pseudomonas cepacia Candida antarctica Metanolo Olio di soia Metanolo – Etanolo Metanolo Metanolo Thermomyces lanuginosa Thermomyces lanuginosa Pseudomonas cepacia Rhizopus oryzae Candida antarctica Metanolo Candida antarctica Metanolo Metanolo Olio di soia raffinato Miscela di oli di soia e colza Reattore a Membrana Batch Batch Batch a tre stadi Batch 97 (c) [173] 83 (r) 81 (r) > 80 (c) [174] [175] [176] ~ 60 (r) [177] Batch a tre stadi Batch continuo Batch a tre stadi Batch 97 (r) [178] 80-90 (r) [179] 94 (r) [180] 67 (r) [181] Batch Batch a tre stadi Batch a tre stadi 80 (r) 93.8 (c) [182] [183] 98.4 (c) [184] 71 Trioleina Olio di guscio di palma e di noce di cocco Olio di ricino Olio di semi di cotone Olio di crusca di riso Olio di Jatropha Metanolo Candida antarctica Miscela di alcoli superiori Pseudomonas cepacia Etanolo 1-butanolo Etanolo Alcoli primari e secondari Metanolo Metanolo Metanolo Etanolo Olio alimentare di scarto Metanolo Sego Alcoli primari Metanolo Grasso ristorazione Lardo da Metanolo Etanolo Metanolo 3 reattori a letto impaccato Batch 93 (r) [185] 100 (c) [152] Pseudomonas cepacia Pseudomonas cepacia Rhizomucor miehei Candida antarctica Batch 72 (c) [186] Batch 40 (c) Batch Batch 98 (c) 91.5 (metanolo) [143] [187] Rhizomucor miehei Batch > 90 (c) [188] Cryptococcus spp. S-2 Candida antarctica Chromobacterium viscoum Candida antarctica Batch 80.2 (r) [189] Batch Batch 98 (c) 92 (5) [190] [141] Reattore a letto impaccato Batch 90 (5) [139] >90 (r) [140] Batch 98 (r) [138] Batch Reattore a letto impaccato Batch 96 (c) > 96 (r) [191] [192] 58 (c) [191] Mucor Miehei Pseudomonas cepacia Candida antarctica Burkholderia cepacia Candida antarctica La ricerca in questo settore ha attraversato quattro fasi. Nelle prime due i ricercatori hanno effettuato accurati ‘screening’ al fine di verificare la fattibilità del processo a partire da diverse fonti di trigliceridi e alcoli. Contemporaneamente sono state ricercate le lipasi microbiche più adatte a catalizzare la reazione di transesterificazione dei trigliceridi. Successivamente si è passati dallo studio dei processi discontinui a quello dei processi in continuo, solitamente più convenienti dal punto di vista economico. Un elenco sintetico dei principali risultati ottenuti da questi studi è riportato in Tabella 3.4. Recenti studi hanno mostrato che le lipasi prodotte da ceppi batterici di Pseudomonas (Pseudomonas cepacia e Pseudomonas fluorescens) sono le più adatte a 72 catalizzare la reazione di alcolisi dei trigliceridi, in quanto questi enzimi sembrano essere i più resistenti all’azione inibitoria degli alcoli (principalmente metanolo) [142, 181, 193]. Il motivo di queste migliori perfomance catalitiche va ricercato nella particolare struttura di questi enzimi (Figura 3.9), anche se allo stato attuale, nessuno studio è riuscito a razionalizzare i risultati sperimentali. Figura 3.9 - Struttura della lipasi proveniente dalla Pseudomonas cepacia. Nella quarta fase, attualmente in corso, i ricercatori stanno studiando l’effetto di diversi supporti per l’immobilizzazione delle lipasi. I primi studi hanno utilizzato preparazioni enzimatiche liofilizzate sospese nel mezzo di reazione. Infatti, la sintesi enzimatica del biodiesel avviene in un mezzo non acquoso costituito da trigliceridi e alcool (solvent free). In questo mezzo l’enzima non è solubile e l’aggiunta di piccole quantità di acqua, al fine di aumentare l’attività catalitica, favorisce l’aggregazione dell’enzima con conseguente perdita di efficienza catalitica. La dispersione dell’enzima su materiali porosi aventi elevate aree superficiali permette ad un maggior numero di molecole di enzima di funzionare in modo efficace. Molti studi sono stati effettuati utilizzando la lipasi B della Candida antarctica immobilizzata su una resina acrilica e commercializzata dalla ‘Novozymes’ col nome Novozym 435 [139, 140, 143, 173, 178, 183-185, 187, 190, 194-197]. E’ stata ampiamente usata per lo stesso scopo anche la lipasi da Mucor miehei (Lipozyme IM60 - Novozymes) immobilizzata su una resina macroporosa a scambio anionico [140, 143, 171, 174, 198, 199]. Studi attualmente in corso sono indirizzati alla ricerca di nuovi supporti in grado di influenzare positivamente l’attività e la stabilità delle lipasi. Infatti, il supporto utilizzato per l’immobilizzazione deve presentare determinate caratteristiche in termini di proprietà meccaniche (tendenza alla rottura, compressibilità), morfologiche (dimensioni delle particelle, diametro dei pori, area superficiale specifica) e chimiche (interazioni coi substrati, ripartizione dell’acqua, tipo di interazione con gli enzimi). Sono stati descritti molti metodi per immobilizzare le lipasi su supporti solidi [200, 201]. Tra questi, il migliore sembra essere quello basato sull’intrappolamento dell’enzima su matrici idrofobiche sol-gel [202] oppure 73 sull’adsorbimento su supporti idrofobici come il polipropilene [203]. Altri metodi sviluppati sono quelli basati sull’immobilizzazione su aerogel di silice [204], su celite [142], su idrotalciti [205] e diversi tipi di zeoliti [205, 206]. La Tabella 3.5 riporta un elenco non esaustivo di alcuni lavori scientifici concernenti l’uso di lipasi immobilizzate nella produzione di biodiesel. Tabella 3.5 - Lipasi immobilizzate utilizzate per la produzione di biodiesel Lipasi Nome Produttore Supporto Commerciale SP435 Novo Resina acrilica Candida antarctica Novozym 435 Novo Resina acrilica Chromobacterium viscoum Porcine pancreatic Pseudomonas cepacia Rif. [140] [184] - Asahi Celite-545 [141] PS Sigma Amano Resina a scambio ionico Matrice sol-gel [175] [181] PS-D Amano Terra di diatomee [152] Mucor Miehei AK AK AK Lipozyme IM60 Amano Amano Amano Novo [193] [207] [172] [140] Thermomyces lanuginosa Lipozyme TL IM Novo Accurel MP1004 Porous kaolinite Polipropilene EP100 Resina a scambio anionico Resina acrilica Pseudomonas fluorescens [179] 74 3.4 IL BIOETANOLO Il bioetanolo è un combustibile derivato da materie prime rinnovabili, quali barbabietola o canna da zucchero, mais, frumento, paglia e legno. Esso presenta delle caratteristiche chimico-fisiche che lo rendono un carburante affine alla benzina, alla quale può essere miscelato o, mediante opportuni accorgimenti tecnici, sostituto nell’alimentazione degli autoveicoli. Nella Tabella 3.6 sono poste in evidenza le principali caratteristiche energetiche del bioetanolo in confronto a quelle della benzina. Tabella 3.6 - Confronto tra le proprietà del bioetanolo e della benzina [115, 116]. Parametri Unità di misura Bioetanolo Benzina p.c.i. Flashpoint Temperatura ebollizione di kcal/kg °C °C ad 1 atm 6.500 13 78 10.500 21 105 In Brasile, negli Stati Uniti e in Svezia, per citare solo i principali paesi, circolano da anni auto flexfuel, che possono essere utilizzate, virtualmente, con qualunque miscela di etanolo e benzina. L’utilizzo del bioetanolo nei motori a benzina ha diverse importanti motivazioni [208]. Innanzitutto possiede una forte valenza ambientale in quanto riduce l’emissione di gas serra in percentuali che variano dal 25% (etanolo da mais) al 90% (etanolo da canna da zucchero). Una produzione significativa di etanolo potrebbe inoltre contribuire, a ridurre la dipendenza dalle importazioni petrolifere. Il prezzo europeo dell’etanolo è ancora più alto di quello della benzina. Tuttavia è prevedibile che il prezzo dell’etanolo sia destinato a scendere con il progressivo affinarsi dei processi produttivi, mentre quello dei carburanti fossili sia in continua crescita. Nel contesto europeo, il principale fattore limitante alla produzione di etanolo è la ridotta disponibilità di terra per la coltivazione di biomasse convertibili. I processi produttivi oggi possibili su scala industriale mettono, di fatto, in competizione la produzione di biocarburanti con quella tradizionale finalizzata all’alimentazione umana e animale. In Europa ad esempio, al fine di garantire, la disponibilità di una miscela benzina/etanolo di tipo brasiliano (E22) occorrerebbe dedicare circa il 50% della produzione cerealicola alla produzione di etanolo, a cui si devono aggiungere le superfici lasciate libere dalla riforma dello zucchero e quelle coltivabili ma attualmente non utilizzate [209]. Oggi tutti i nuovi veicoli prodotti in Europa sono compatibili con l’E5. È possibile, mediante opportune modifiche, raggiungere una compatibilità fino all’E10 [127]. Miscele contenenti anche piccole percentuali di etanolo producono un incremento della tensione di vapore della benzina e richiedono quindi un 75 diverso tipo di serbatoio in grado di evitare perdite di carburante. Questa modifica è certamente applicabile ai veicoli nuovi, ma non al parco circolante. La soluzione tecnica più semplice al problema è l’utilizzo dell’etanolo sotto forma di ETBE (ethyl tert-butyl ether), un additivo della benzina ottenuto da etanolo e isobutilene (Figura 3.10). La normativa europea vigente sulle benzine consente una quantità massima di ETBE nella misura del 15%, che equivale alla presenza di circa il 7% di etanolo nella benzina. Le miscele che contengono percentuali elevate di etanolo richiedono invece maggiori modifiche dei motori [127]. 3.4.1 Processi di produzione di bioetanolo Il bioetanolo (etanolo o alcool etilico) è un liquido limpido e incolore ottenuto mediante un processo di fermentazione di carboidrati semplici (glucosio, saccarosio, mannosio) o di polisaccaridi (amido, cellulosa, emicellulosa). La Figura 3.10 mostra lo schema di processo di produzione del bioetanolo e dell’ETBE a partire da diverse biomasse. Figura 3.10 - Processo di produzione del bioetanolo e dell’ETBE da diverse biomasse. 3.4.1.1 Materie prime Secondo la loro natura, le materie prime possono essere classificate in tre tipologie distinte: • Materiali zuccherini: sostanze ricche di saccarosio come la canna da zucchero, la barbabietola, il sorgo zuccherino, ecc. 76 • Materiali amidacei: sostanze ricche di amido come il grano, il mais, l'orzo, il sorgo da granella e la patata. • Materiali lignocellulosici: sostanze ricche di cellulosa come la paglia, lo stocco di mais, gli scarti legnosi, ecc. Per quanto riguarda le coltivazioni ad hoc, quelle più sperimentate e diffuse sono la canna da zucchero, il grano ed il mais. Ci sono poi altre colture, quali il sorgo zuccherino, il topinambur ed altre, che rimangono ancora in fase sperimentale. La quantità di etanolo che si può ricavare con le tecnologie standard per ettaro di coltura sono riportate in Tabella 3.7 Tabella 3.7 - Quantità di etanolo ottenibile per ettaro di coltura mediante tecnologie standard [210] Coltura t onn. etanolo/ha all’anno Canna da zucchero 7 Mais 3 Barbabietola da zucchero 4 Patata 3 3.4.1.2 Bioetanolo da materiali zuccherini Il bioetanolo può essere prodotto da una gran varietà di carboidrati di formula (CH2O)n. Dal punto di vista tecnologico il processo prevede l’estrazione degli zuccheri da barbabietola o canna da zucchero, la loro fermentazione e la distillazione dell’etanolo. La reazione coinvolge l’idrolisi enzimatica del saccarosio ad opera dell’enzima invertasi presente nel lievito Saccharomyces cerevisiae con formazione di glucosio e fruttosio: C12H22O11 + H2O → C6H12O6 + C6H12O6 Successivamente l’enzima zymasi presente nel lievito trasforma il glucosio ed il fruttosio in etanolo [211]. C6H12O6 → 2C2H5OH + 2CO2 La fermentazione viene effettuata in bioreattori riproducendo le condizioni ideali per favorire il metabolismo anaerobico: temperatura tra i 5 e 25°C e pH tra 4,8 e 5,0 [212]. In seguito alla distillazione si ottiene etanolo al 95% in peso con un contenuto residuo di acqua del 5%. Sono stati effettuati diversi studi per trovare un valido sostituto del lievito Saccharomyces cerevisiae. Alcuni lieviti, come Schizosaccharomyces pombe, 77 presentano il vantaggio di tollerare pressioni osmotiche elevate (alta quantità di sali) e alto contenuto di solidi [213, 214]. Un processo di fermentazione che utilizza questo tipo di lievito è stato già brevettato [215]. Tra i batteri, il più promettente è il microrganismo Zymomonas Mobilis, che dà una resa elevata di etanolo (fino al 97%) anche se, la gamma di substrati che può fermentare è ristretta a glucosio, fruttosio e saccarosio [216]. Altri svantaggi derivanti dall'uso di questo batterio nella fermentazione della canna da zucchero è la formazione del polisaccaride a base di fruttosio (levan gum), che aumenta la viscosità del brodo di fermentazione, e di sorbitolo (ottenuto dalla riduzione del fruttosio) che diminuisce l'efficienza della conversione del saccarosio in etanolo [217]. 3.4.1.3 Bioetanolo da materiali amidacei L'amido è un polisaccaride complesso (Figura 3.11) composto da due polimeri: l'amilosio (che ne costituisce circa il 20%) e l’amilopectina (circa l'80%). In entrambi i casi si tratta di polimeri del glucosio che si differenziano l'uno dall'altro per la struttura. L'amilosio è un polimero lineare che tende ad avvolgersi ad elica, in cui le unità di glucosio sono legate tra loro con legami glicosidici α (1→4). Una macromolecola di amilosio può contenere sino a 1000 residui di glucosio. L'amilopectina è invece un polimero ramificato che presenta catene di base simili a quelle dell'amilosio ma che si dispongono a formare una struttura ramificata. Ogni 24-30 unità di glucosio, infatti, si innestano catene laterali attraverso legami α (1→6). 78 Figura 3.11 - Confronto fra la struttura dell’amido e quella della cellulosa. Quando si utilizza un cereale amidaceo come materia prima per produrre bioetanolo, il processo inizia con la selezione e macinatura dei semi, poi si ha la conversione degli amidi in zuccheri fermentabili ad opera dell’enzima α-amilasi ottenuto da batteri termoresistenti come il Bacillus licheniformis [218]. Il processo viene condotto a 60°C e la resa in zuccheri fermentabili è dell’80%. Dopo l’idrolisi enzimatica si effettuano nell’ordine: la fermentazione, la distillazione e la disidratazione per ottenere il bioetanolo anidro. Il mais (60-70% di amido) è la materia prima principale per la produzione industriale del bioetanolo a livello mondiale. Il principale sottoprodotto del trattamento dei materiali amidacei è costituito da residui ricchi di olio, proteine e fibre noti come DDGs (Dried Distiller’s Grain with Soluble) che sono destinati alla preparazione di mangimi zootecnici [218]. 3.4.1.4 Bioetanolo da materiali lignocellulosici I materiali lignocellulosici sono costituiti principalmente da cellulosa, emicellulosa e lignina. Soltanto la cellulosa e l’emicellulosa sono costituite da zuccheri fermentabili e quindi possono essere usate per produrre bioetanolo. Le lignocellulose vengono sottoposte a processi di separazione della lignina dalla cellulosa ed emicellulosa (es. steam explosion), idrolisi della cellulosa ed 79 emicellulosa e fermentazione degli zuccheri così ottenuti a bioetanolo (Figura 3.12) [219-222]. Figura 3.12 - Produzione di bioetanolo da lignocellulosa. La cellulosa è un polimero organico costituito esclusivamente da unità di glucosio anidro legate insieme da legami β (1→4) in una gigantesca catena lineare (Figura 3.11). L'emicellulosa è un polisaccaride a basso peso molecolare di composizione irregolare (Figura 3.13), scarsamente solubile in acqua, strettamente associato alla cellulosa dalla quale può essere estratta. A differenza della cellulosa, le emicellulose sono costituite sia da esosi (mannosio, glucosio, galattosio) che da pentosi (xilosio, arabinosio). Hanno una struttura ramificata e non fibrosa. Attualmente si conoscono tre tipi di emicellulose: i. gli xilani (tegumento dei chicchi dei cereali, crusca); ii. i galattani/arabinolattani; iii. I4/5 mannani/glucomannani [211]. Figura 3.13 - Struttura dell’emicellulosa 80 Cellulosa ed emicellulosa sono i costituenti delle fibre vegetali, sostanze commestibili di origine vegetale che di norma non vengono idrolizzate dagli enzimi secreti dall'apparato digerente umano. Il processo di produzione di bioetanolo da cellulosa ed emicellulosa prevede prima la loro idrolisi ad opera di funghi o batteri, poi gli zuccheri prodotti vengono fatti fermentare mediante lieviti o altri microbi [223]. I processi industriali attuali fanno costare il bioetanolo da cellulosa tre volte quello ottenuto da canna da zucchero [218]. Il costo non è dovuto alla materia prima ma al suo processo di trasformazione in bioetanolo. Uno dei punti critici di questo processo è la separazione fisica di cellulosa ed emicellulosa dalla lignina. Ciò può essere effettuato mediante: • trattamenti chimico-fisici (steam explosion) con vapore saturo a 180-290°C e 0,69-4,85MPa (Figura 3.14) [224, 225], • trattamenti chimici con acidi [226], • trattamenti meccanici con sistemi di presse, • trattamenti biologici con funghi [227]. Figura 3.14 - Schema di produzione di bioetanolo da cereali o paglia dopo pre-trattamento con steam-explosion. In seguito al pretrattamento è opportuno effettuare una purificazione per eliminare tutte quelle sostanze - come acido acetico, acido formico, cinnamaldeide, p-idrossibenzaldeide, furfurolo - che possono interferire nelle fasi successive. Anche in questo caso si possono usare metodi fisici, chimici o biologici a seconda degli interferenti che si vuole eliminare [218]. 81 A questo punto si procede con l’idrolisi dell’emicellulosa e della cellulosa per ottenere la formazione degli zuccheri fermentabili (pentosi ed esosi) [219, 222]. I metodi più comuni impiegati possono essere divisi in due gruppi [211]: • idrolisi acida (acidi concentrati o diluiti); • idrolisi enzimatica. Nell’idrolisi acida, il pre-trattamento e l’idrolisi possono essere eseguiti in un solo passaggio. Ci sono due tipi di idrolisi acida, una con acido concentrato l’altra con acido diluito. Nel primo processo l’alimentazione, formata da cellulosa ed emicellulosa, preventivamente essiccata ad un’umidità del 10%, viene decristallizzata aggiungendo acido solforico al 70%-77%. Si ha la rottura dei legami idrogeno presenti nella struttura cristallina ordinata delle catene cellulosiche ad opera di un acido concentrato ottenendo una sostanza amorfa. Successivamente si opera la diluizione dell’acido con acqua sino ad una concentrazione del 20%-30%, quindi si esegue un riscaldamento per circa un’ora che provoca il rilascio degli zuccheri. Il gel ottenuto viene pressato per separare la soluzione di acido e zuccheri dal residuo solido, il quale viene sottoposto ad ulteriore idrolisi. Quindi, si separa la lignina e si ottiene una nuova soluzione di acido e zuccheri che verrà mescolata alla precedente. La soluzione viene sottoposta a distillazione per separare gli acidi dagli zuccheri. L’acido viene concentrato in un evaporatore a triplo effetto, mentre gli zuccheri, principalmente xilosio e glucosio, sono convertiti in etanolo tramite processi fermentativi ottenendo una conversione prossima all’85% e 92% rispettivamente [226]. Nel secondo processo l’idrolisi con acido diluito avviene in due stadi per idrolizzare selettivamente l’emicellulosa e la cellulosa. Nel primo stadio si lavora in condizioni operative blande (acido solforico 0,7% , temperatura di 190°C, tempo di permanenza di 3 minuti) per massimizzare la resa nel trattamento dell’emicellulosa che è più facilmente idrolizzabile. Nel secondo stadio avviene l’idrolisi della cellulosa, che è più resistente (con acido solforico 0,4%, temperatura di 215°C, tempo di permanenza di 3 minuti). Le soluzioni zuccherine ottenute dal processo di idrolisi sono inviate ai fermentatori per la produzione dell’etanolo. La fase solida residua nei reattori di idrolisi, contenente cellulosa e lignina viene usata come combustibile nelle caldaie per produrre energia elettrica e vapore. Il National Renewable Energy Laboratory ha riportato i risultati relativi all’idrolisi con acido diluito di legno dolce nelle condizioni operative sopra elencate. I risultati più rimarchevoli sono: resa dell’89% per il mannosio, dell’82% per il galattosio e del 50% per il glucosio; la fermentazione con Saccharomyces cerevisiae garantisce una resa in etanolo del 90% [226]. 82 L’idrolisi enzimatica rappresenta l’innovazione tecnologica più recente nel processo di produzione dell’etanolo da biomassa. Infatti, mentre la sintesi degli zuccheri da sostanze legnose con metodi chimici vanta 200 anni di ricerca e 100 anni di sviluppo processistico, l’uso degli enzimi per l’idrolisi della biomassa è iniziato circa 50 anni fa. Attualmente, nonostante il processo sia piuttosto lento, l’idrolisi enzimatica è molto utilizzata in quanto non si ottengono prodotti di degradazione del glucosio. L’idrolisi avviene ad opera dell’enzima cellulasi ottenuto dal fungo Trichoderma viride (noto anche come Trichoderma reesei) [228, 229]. Il Trichoderma reesei rilascia una miscela di cellulasi: 2 cellobioidrolasi, 5 endoglucanasi, beta-glucosidasi e emicellulasi, le quali agiscono in modo diverso sulla cellulosa. Sono stati utilizzati anche altri ceppi microbici tra cui alcuni batteri anaerobici (Clostridium spp. e Ruminococcus spp.), alcuni attinomiceti (Cellulomonas spp. e Thermobifida spp.) e alcuni funghi (Humicola insolens) [230]. La fermentazione degli zuccheri avviene ad opera dell’enzima presente nel lievito Saccharomyces cerevisiae che agisce sugli esosi ma non sui pentosi derivanti dall’emicellulosa. Questo rappresenta uno dei principali problemi legati alla produzione di bioetanolo da materiali lignocellulosici. Infatti la resa complessiva in bioetanolo con questo processo chiamato SHF (Separate Hydrolysis and Fermentation) è un elemento di elevata criticità. Sono previsti reattori diversi per la produzione della cellulasi, l’idrolisi enzimatica della cellulosa ed emicellulosa (saccarificazione), la fermentazione degli esosi e quella dei pentosi. Una caratteristica importante dei SHF è che ogni singolo stadio può essere effettuato nelle condizioni ottimali. Per migliorare il processo sono in fase di studio alcuni microrganismi da utilizzare in alternativa al tradizionale Saccharomyces cerevisiae, tra cui Thermoanabacter mathranii ed Escherichia coli. Valide soluzioni possono essere fornite dall’ingegneria genetica [218]. La complessità di questi stadi ha portato gli studiosi a cercare di ottimizzare alcune soluzioni e semplificarli dal punto di vista impiantistico. Le principali soluzioni studiate sono le seguenti: • SSF (Simultaneous Saccharification and Fermentation), processo brevettato dalla Gulf Oil Company e la University of Arkansas. L’SSF riduce il numero di reattori (3) usando un unico reattore per l’idrolisi enzimatica di cellulosa ed emicellulosa e per la fermentazione degli esosi e soprattutto superando il problema legato all’inibizione degli enzimi dovuta ai prodotti [231]. In presenza di glucosio, viene inibita l’idrolisi del cellobiosio ad opera della ß-glucosidasi, per cui viene bloccata la degradazione della cellulosa [232, 233]. 83 • SSCF (Simultaneous Saccharification and CoFermentation). Si utilizzano 2 reattori, uno per la produzione di cellulasi e l’altro per l’idrolisi enzimatica e la fermentazione degli zuccheri [208]. • Con la DCM (Direct Microbial Conversion) l’intero processo produttivo è realizzato in un unico reattore ed è caratterizzato da una completa simultaneità tra la produzione delle cellulasi, l’idrolisi della cellulosa e dell’emicellulosa e la fermentazione degli zuccheri [208, 230]. 3.4.2 Bioetanolo di seconda generazione Gli sviluppi futuri nella produzione di bioetanolo sono indirizzati alla costante diminuzione di colture alimentari per le produzioni energetiche passando ai cosiddetti biocarburanti di seconda generazione. Il bioetanolo di seconda generazione sarà prodotto a partire da biomassa lignocellulosica derivante da coltivazioni specifiche (vedi tabella 3.8) o da prodotti di lavorazione scarsamente utilizzati e disponibili in grande quantità, quali [227]: • residui di raccolto (bagassa di canna da zucchero, paglia di grano, paglia di riso, paglia di orzo, bagassa di sorgo zuccherino, noccioli e pasta di olive, stocchi, lolle, sarmenti, paglie e residui delle potature in genere); • legno duro (pioppo); • legno dolce (pino, abete rosso); • rifiuti di cellulosa (carta di giornale, rifiuti di carta per ufficio, fanghi di carta riciclata); • biomassa erbacea; • rifiuti solidi urbani (RSU). Nella tabella 3.8 sono riportate le principali specie di materie lignocellulosiche da coltivazioni specifiche, il loro ciclo di produzione e i prodotti di trasformazione. 84 Tabella 3.8 - Specie utilizzabili per la produzione di biomassa lignocellulosicaa. Specie Ciclo di Prodotto Prodotto produzione intermedio trasformato Erbacea Fibra Kenaf annuale (Hibiscus cannabinus L.) lignocellulose Canapa Erbacea Fibra Legno e annuale fibre sminuzzate Miscanto Erbacea Fibra (chips) poliennale Canna comune Erbacea Fibra Fascine di poliennale residui Sorgo da fibra Erbacea Fibra annuale Cardo Erbacea Fibra poliennale Panico Erbacea Fibra poliennale Robinia Legnosa Legno poliennale Ginestra Legnosa Legno poliennale Eucalipto Legnosa Legno poliennale Salice Legnosa Legno poliennale Pioppo Legnosa Legno poliennale aITABIA, 2004, “Le biomasse per l’energia e l’ambiente”, Rapporto 2003, Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio, www.itabia.it [234]. Uno studio, condotto dall’ENEA in collaborazione con l’Università degli Studi dell’Aquila evidenzia come, nell’ipotesi di utilizzare in Italia il bioetanolo come biocarburante in sostituzione dei combustibili fossili, si dovrebbero destinare alle colture alcoligene 60.000-70.000 km2 di terreno agricolo, pari al 40% della SAU (Superficie Agricola Utilizzata) e al 20% dell’intero territorio nazionale [208, 235]. Si deduce che la maggior parte delle specie lignocellulosiche, a differenza delle colture alcoligene, avendo una crescita piuttosto rapida e bassi costi di produzione, possono essere ottenute facilmente senza interferire con la produzione alimentare [228]. Infatti l’utilizzo di biocarburanti liquidi, in 85 alternativa ai derivati del petrolio, sarà praticabile solo se ne sarà aumentata la disponibilità ed abbassato il costo. Attualmente i costi maggiori derivano dalle materie prime e dalla trasformazione di esse. La biomassa da lignocellulosa è la materia prima più economica e potrebbe sostenere la crescita del mercato del bioetanolo a livello internazionale. Per quanto riguarda la disponibilità di biomassa ci sono notevoli differenze nei Paesi dell’Unione Europea dovute alle caratteristiche territoriali e alle condizioni climatiche; infatti mentre nel Nord dominano le foreste, al CentroSud prevalgono i “seminativi”. Quindi un’attenta analisi porterebbe a diversificare le fonti tenendo conto delle realtà locali [127]. Le ricerche attuali mirano al miglioramento sia del trattamento della materia prima che delle tecnologie di processo [218]. Particolare interesse riveste la scelta e lo sviluppo di microrganismi in grado di massimizzare la produzione di glucosio e quindi di bioetanolo, oppure di particolari specie in grado di risolvere il problema della fermentazione degli zuccheri pentosi. E’ stato osservato che lieviti come Pichia stipitis, Candida shehatae e Pachysolen tannophilus possono assimilare i pentosi, ma la produzione di bioetanolo da essi è di almeno cinque volte inferiore a quello osservato per S. cerevisiae. Inoltre, la loro tolleranza dell’ossigeno e dell’etanolo durante il processo è di 2-4 volte inferiore [216]. Gli impianti di produzione esistenti di bioetanolo da lignocellulose hanno tutti una capacità di circa 10-45MW, si tratta di impianti pilota di piccole dimensioni. Per soddisfare il bisogno interno dovrebbero avere una capacità di 100-500MW. Occorre quindi migliorare le tecnologie e sviluppare nuovi sistemi. Una soluzione potrebbe essere quella di utilizzare diverse materie prime nello stesso stabilimento per la produzione del biocarburante oppure utilizzare i prodotti di scarto per produrre biogas come fonte di energia interna [127]. Tra le ricerche in corso vi è quella dell’ENEA, presso il Centro Ricerche Trisaia, finalizzato all’ottimizzazione dei processi di pretrattamento delle biomasse via steam explosion, dell'idrolisi enzimatica e della fermentazione per rendere competitiva la produzione di etanolo mediante processi biologici [208]. 86 4 LA DIGESTIONE ANAEROBICA L’obiettivo che tradizionalmemente si intende conseguire con l’applicazione dei processi biotecnologici ambientali al trattamento dei reflui consiste nell’eliminazione delle sostanze inquinanti in modo da generare un residuo liquido, gassoso o solido che possa essere reintegrato nell’ambiente naturale senza provocare effetti dannosi. Dato l’interesse crescente nell’uso efficace delle risorse naturali, col trattamento può essere conveniente conseguire anche un secondo obiettivo: il recupero di nutrienti specifici (ad es. azoto, fosforo, ecc..) o la produzione di prodotti organici specifici (metano, solventi organici, ecc..). L’aggiunta di un secondo obiettivo varia lo status dei differenti reflui generati dall’agroindustria: il rifiuto che diventa materia prima per la produzione di specifiche sostanze chimiche o addirittura un vettore energetico. Da qui nasce un settore di ricerca che combina gli elementi tradizionali della biotecnologia ambientale in termini di decontaminazione dei reflui con la biotecnologia industriale che mira alla massimizzazione del prodotto. La digestione anaerobica è il classico esempio di un processo che combina gli obiettivi della eliminazione dei composti organici da un refluo con la generazione di un prodotto di valore sotto forma di biogas contenente metano. Lo sviluppo della tecnologia della digestione anaerobica è stata attuata in Europa per i residui di cibo (food residuals) da oltre 30 anni, sotto la spinta del problema della graduale diminuzione dello spazio per le discariche controllate. Tre diverse fasi dello sviluppo della tecnologia sono avvenute durante queste tre decadi. Primo, i governi europei hanno finanziato la ricerca per dare inizio alla promozione della tecnologia della digestione anaerobica, con la conseguenza di ampia attività di sperimentazione durata circa dieci anni. Secondo, negli anni ’80 e ’90 sono stati sviluppati impianti pilota e dimostrativi. Terzo, questo lavoro ha portato alla fase di commercializzazione che, iniziata negli anni ’90, è ancora in atto. Nel corso degli ultimi 10 anni lo sviluppo della tecnologia della digestione anaerobica è stato notevole in molti paesi europei, tra cui l’Italia. Ha ottenuto crescente credibilità in seguito al successo della sua applicazione sia in campo industriale che in altri settori. In relazione all’uso tradizione della digestione anaerobica per il trattamento dei reflui acquosi, sussistono evidenti vantaggi del trattamento anaerobico rispetto a quello aerobico per la degradazione dei substrati organici. 87 4.1 IL PROCESSO DI DIGESTIONE ANAEROBICA 4.1.1 Generalità sul processo La digestione anaerobica è un processo biologico che avviene in assenza di ossigeno in cui il materiale organico è decomposto dai batteri in una componente gassosa (biogas) ed in una solida (digestato). Nella Figura 4.1 è illustrato il processo di digestione anaerobica. Esso avviene in tre fasi successive per l’azione di diversi gruppi batterici che operano in serie. Nella prima fase (idrolisi) i batteri idrolitici decompongono i composti organici complessi (ad es. carboidrati, proteine e grassi) in sostanze più semplici. Nella fase successiva (fermentazione), i batteri acidificanti (acetogeni ed omoacetogeni) trasformano tali sostanze, dapprima, in acidi organici e quindi in acetato, anidride carbonica e idrogeno. Nell’ultima fase, quella più delicata (metanogenesi), i batteri metanigeni trasformano i prodotti formatisi nella fase precedente in metano (CH4) ed anidride carbonica (CO2), i principali costituenti del biogas. Complessivamente quindi la componente organica viene degradata liberando l’energia chimica in essa contenuta sotto forma di biogas, in misura variabile dal 30 all’85%. Figura 4.1 - Fasi del processo di digestione anaerobica 4.1.2 Parametri di processo Data la complessità delle reazioni biochimiche che avvengono nel processo di digestione anaerobica risulta di grande importanza nella pratica di progettazione dei digestori fare ricorso a numerosi parametri che influenzano il comportamento dei microrganismi. Analogamente è fondamentale, per una 88 corretta gestione degli impianti in larga scala, poter effettuare il controllo di diversi parametri di processo. Pertanto qui di seguito si prende in esame questo aspetto della digestione anaerobica. I parametri utilizzati per dimensionare, valutare e gestire il processo di digestione anaerobica si possono suddividere in: parametri di gestione del reattore e parametri di stabilità del processo. 4.1.3 Parametri di gestione del reattore. I parametri di gestione definiscono il funzionamento in termini di tempo di permanenza della massa introdotta nel reattore, di concentrazione dei microrganismi, di resa di produzione di biogas in relazione al volume del reattore ed alle caratteristiche del substrato organico trattato. Quest’ultimo parametro può essere espresso in diversi modi: in termini di contenuto di solidi (o di sostanza secca) nelle loro componenti totali, ad es. solidi totali (TS) o sostanza secca totale (TSS), o nella componente volatile ad es. solidi volatili (VS) oppure sostanza organica (OS), o ancora in termini di domanda chimica di ossigeno (COD) o di domanda biologica di ossigeno (BOD5). I parametri di gestione del reattore sono: 9 Tempo medio di residenza idraulico (HRT), definito come il rapporto tra il volume del reattore considerato e la portata di alimentazione al reattore. 9 Tempo medio di residenza dei fanghi (SRT), è il tempo medio di residenza dei fanghi all’interno del reattore; è espresso col rapporto tra la massa totale di solidi volatili presenti nel reattore e la portata di solidi estratta dal reattore. 9 Carico organico riferito alla biomassa o ai solidi volatili nel reattore (CF) 9 Produzione specifica di gas (SGP), rappresenta la quantità di biogas che viene prodotta per quantità di sostanza volatile alimentata al reattore; viene quindi espressa in termini di m3biogas/kgsubstratoalimentato. Questo parametro, molto utilizzato per definire le rese dei processi di digestione anaerobica, è strettamente correlato alla biodegradabilità del substrato trattato piuttosto che alle proprietà del processo adottato. 9 Efficienza di rimozione del substrato. Tra i diversi modi di esprimere l’efficienza di rimozione del substrato durante il processo di digestione anaerobica i più utilizzati fanno riferimento alla rimozione in termini di sostanza secca totale (o della sua frazione volatile), e alla rimozione in termini di COD utilizzato. 4.1.4 Parametri di stabilità del processo. La strategia di controllo del processo mira al mantenimento di condizioni operative ottimali e stabili. Nel caso del processo di digestione anaerobica, la 89 maggior attenzione è riposta sul controllo della fase di metanogenesi che è la fase limitante dell’intero processo anaerobico dal momento che risulta molto sensibile alle variazioni ambientali del mezzo di reazione. Particolarmente importanti sono i parametri quali pH, concentrazione di acidi grassi volatili (VFA), alcalinità, rapporto tra acidi grassi volatili ed alcalinità, produzione e composizione del biogas e temperatura e il rapporto C/N. Va comunque messo in evidenza che l’analisi di questi parametri deve essere vista nella loro insieme, cioè la variazione registrata in un singolo parametro risulta difficilmente interpretabile, se non accompagnata da un monitoraggio complessivo degli altri parametri. 9 pH: fornisce un’indicazione della stabilità del mezzo di reazione. Infatti, una sua variazione viene associata oltre che alla capacità tamponante del sistema (dovuto al mezzo di reazione) anche a variazioni dell’equilibrio tra le specie che partecipano alla catena trofica dei microrganismi coinvolti nel processo. Il processo di digestione è generalmente considerato stabile quando il pH è compreso tra 6,5 e 7,5. Il valore del pH in un digestore è determinato essenzialmente dalla presenza di CO2 nel mezzo liquido (che è in relazione alla sua pressione parziale nel biogas e quindi dipende dalla composizione di quest’ultimo) e dai valori di concentrazioni degli acidi volatili grassi e dell’ammoniaca. Va rilevato che il pH è in grado di indicare condizioni di squilibrio del sistema, ma solo con un certo ritardo rispetto all’evoluzione dell’effetto tampone del mezzo. 9 Alcalinità (effetto tampone): rappresenta la capacità di un sistema di neutralizzare l’acidità; viene espressa generalmente in termini di concentrazione di carbonato di calcio. Valori di alcalinità dell’ordine di 3000-5000mg CaCO3/L sono tipici per i digestori anaerobici operanti in condizioni stabili (Stafford et al., 1980). 9 Acidi grassi volatili: vengono rappresentati dalla formula generale: RCOOH dove R è un gruppo alchilico del tipo: CH3(CH2)n. Il livello di concentrazione degli acidi volatili, generalmente espresso in termini di acido acetico (Ac), dipende dal tipo di substrato trattato, e varia da circa 200 fino a 2000mg Ac/L. In relazione alla stabilità del processo di digestione, non è tanto il valore di concentrazione registrato a dare un indicazione assoluta, ma piuttosto la variazione di concentrazione. In generale un aumento degli acidi volatili è conseguente ad un incremento del carico di substrato dell’influente; questo determina l’accelerazione dei fenomeni idrolitici ed acidogenici che a loro volta sbilanciano la catena trofica e la variazione del sistema verso valori di pH bassi in 90 conseguenza dell’esaurimento della capacità tamponante del mezzo. Il valore di concentrazione degli acidi grassi volatili va interpretato assieme ai dati di produzione e composizione del biogas, oltre che dai dati di pH ed alcalinità. 9 Produzione e composizione del biogas: Il monitoraggio della quantità del biogas prodotto e della sua composizione (in termini di CH4 e CO2) è essenziale per il controllo del processo di digestione anaerobica (Stafford et al., 1980). Infatti, la costanza di produzione e la sua composizione si manifestano in corrispondenza della stabilità del processo. Viceversa, sia la diminuzione della produzione complessiva di biogas che della percentuale di CH4 a favore della CO2 possono indicare fenomeni di inibizione a danno dei microrganismi metanigeni provocati, ad esempio, dall’eccessiva concentrazione di acidi grassi volatili. E’ questo il motivo principale per cui, nella gestione degli impianti anaerobici, l’analisi di produzione e di composizione del biogas deve associarsi al controllo di altri parametri quali la concentrazione degli acidi grassi volatili e l’alcalinità del mezzo. 9 Temperatura: l’attività biologica di tipo anaerobico può avvenire in un ampio intervallo di temperatura, tra –5 e +70°C. La classificazione più comunemente adottata per le differenti specie di microrganismi, in base all’intervallo termico ottimale di crescita, è la seguente: psicrofili (temperature inferiori a 20°C), mesofili (temperature comprese tra 20°C e 40°C) e termofili (temperature superiori a 45°C). Poiché la biomassa attiva all’interno del bioreattore è costituita da una popolazione eterogenea di microrganismi, variazioni di temperatura anche limitate (2-3 °C) possono determinare una selezione tra popolazioni batteriche che vanno a detrimento del processo anaerobico. Ne deriva l’esigenza di adottare sistemi di controllo della temperatura che garantiscano il mantenimento dei valori di tale parametro che si sono rivelati ottimali. Si è riscontrato che i processi di digestione anaerobica che operano in regime mesofilo evidenziano le migliori produzioni di biogas tra 30 e 35°C, mentre l’intervallo si allarga tra 40 e 60°C nel regime termofilo. 9 Tossicità dell’ambiente di crescita: tra i fattori che possono influire sul processo microbico, nel senso di inibire o limitare la crescita dei microrganismi e la resa di trasformazione del substrato organico in biogas sono da citare oltre che lo stesso substrato, anche eventuali elementi inibenti quali metalli pesanti, sali, azoto ammoniacale (NH4+), residui di pesticidi e prodotti farmaceutici, detergenti e disinfettanti, solventi, inibitori da trattamenti chimici per la conservazione di cibi, ecc. Questi fattori possono esplicare i loro effetti negativi, in particolare, sui 91 batteri metanigeni, quelli comunemente considerati più sensibili di tutto il consorzio batterico deputato alla conversione anaerobica delle sostanze organiche a metano, in quanto caratterizzati da una bassa velocità di crescita. 9 Il rapporto C/N: è un altro importante parametro che stabilisce la relazione tra la quantità di carbonio e azoto presente nei materiali organici. Un rapporto C/N di 20-30 è considerato essere ottimale per le condizioni di digestione anaerobica. Se il rapporto C/N è molto alto, l’azoto sarà consumato rapidamente dai batteri metanigeni per soddisfare il loro fabbisogno di proteine e non reagiranno più sul contenuto di carbonio presente nei materiali. Come conseguenza di ciò, la quantità di gas prodotta sarà bassa. Se il rapporto C/N è molto basso, l’azoto verrà liberato e accumulato nella forma di ammoniaca, aumentando il pH del materiale. 4.1.5 Produzione potenziale di metano Il COD (Chemical Oxygen Demand) viene usato per quantificare la quantità di materiale organico presente nel refluo e predire il potenziale per la produzione del biogas. L’ossigeno equivalente del materiale organico che può essere ossidato viene misurato usando un forte agente ossidante in un mezzo acido. Durante la digestione anaerobica il COD biodegradabile presente nel materiale organico lo si ritrova nei prodotti finali, cioè il metano e la massa batterica formata. Nel caso di un composto organico (CnHaObNd) che venga biodegradato completamente per via anaerobica, esso sarebbe completamente convertito dal microorganismo (nell’ipotesi di resa di fango pari a zero) in CH4, CO2 e NH3, la quantità teorica di gas prodotto può essere calcolata secondo l’equazione di Buswell (1): CnHaObNd + (n-a/4 - b/2 +3d/4) H2O dNH3 (n/2 +a/8 -b/4 -3d/8) CH4 + (n/2-a/8+b/4+3d/8) CO2 + (1) La quantità di CO2 presente nel biogas è di solito significativamente inferiore a quanto previsto dalla citata equazione. Questo è dovuto alla relativamente alta solubilità della CO2 in acqua e parte di essa può diventare chimicamente legata nella fase acquosa. Un altro parametro ampiamente usato per valutare l’inquinamento organico è il BOD5 (Biological Oxygen Demand). Questo metodo implica la misura dell’ossigeno disciolto usato dai microorganismi aerobici nell’ossidazione biochimica del materiale organico durante i 5 giorni della durata del test alla temperatura di 20 °C. 92 Un parametro molto utile per valutare i substrati da avviare alla digestione anaerobica è la constante di biodegradabilità anaerobica e d’idrolisi. La biodegradabilità anaerobica totale viene misurata dalla quantità totale di metano prodotto durante un tempo di ritenzione di almeno 50 giorni. La resa in biogas dipende da diversi fattori quali digestibilità del materiale organico, cinetica di digestione, tempo di ritenzione nel digestore e temperatura di digestione. Il processo può essere ottimizzato mediante il controllo delle condizioni di temperature, umidità, attività microbica e proprietà del rifiuto. 4.1.6 Requisiti per la digestione anaerobica A differenza dei sistemi di trattamento aerobico delle acque di scarico, il carico (loading rate) dei reattori anaerobici non è limitato dall’alimentazione di un reagente, ma dalla capacità dei microrganismi di decomporla. È importante, quindi, che una massa sufficientemente elevata di batteri venga ritenuta all’interno del reattore. Per sistemi a basso tasso (low rate) ciò è ottenuto applicando tempi di ritenzione sufficientemente lunghi. Per sistemi ad alto tasso (high rate) la ritenzione della biomassa viene aumentata rispetto al tempo di ritenzione del liquido. Le seguenti condizioni sono essenziali per reattori anaerobici ad alto tasso: 9 In condizioni di alto carico organico (>10 kg/m3/die) e alto carico idraulico (>10 m3/m3/die) deve essere ritenuta un’alta concentrazione di fango batterico anaerobico. 9 Tra l’alimentazione in ingresso e la massa batterica deve realizzarsi il massimo contatto. 9 Anche i minimi problemi di trasporto dovrebbero essere verificati sperimentalmente in relazione ai composti alimentati, ai prodotti intermedi ed a quelli finali. Alla base del progetto di un sistema di digestione anaerobica c’è lo stadio più lento della digestione, di solito costituita dalla conversione dei solidi organici biodegradabili in composti solubili. Questo processo comunemente, descritto come idrolisi, è fortemente dipendente dalla temperatura. Il tempo di ritenzione del fango, Sludge Retention Time (SRT) è un parametro molto importante. Quando è troppo breve, la metanogenesi non avviene e il contenuto del reattore tenderà ad acidificarsi. Un SRT di almeno 15 giorni è necessario per assicurare sia la metanogenesi che una sufficiente idrolisi e acidificazione dei lipidi a 25 °C. Temperature di digestione più basse richiedono SRT più lunghi, dal momento che la velocità di crescita dei metanigeni e la constante d’idrolisi diminuiscono con la temperatura. Nei sistemi completamente miscelati, l’SRT è eguale all’HRT, mentre nei sistemi con ritenzione insita del fango, l’SRT è maggiore dell’HRT. Per il particolare sistema anaerobico UASB (Upflow Anaerobic Sludge Bed), il volume del reattore richiesto 93 per assicurare un sufficiente SRT viene calcolato in accordo alla equazione (2). Quest’equazione viene applicata per acque di scarico con alta concentrazione di solidi sospesi, e per i sistemi che non sono idraulicamente limitati [236]: HRT = (CODSSin/X)*R*(1-H)*SRT (2) in cui: CODSSin = COD dei solidi sospesi nell’influente (g/L) X = concentrazione del fango nel bireattore (g VSS/L); (1 g VSS=1.4 g COD) R = frazione di CODSS rimossa H = frazione di CODSS rimossa, che viene idrolizzata col SRT fisso. 4.1.7 Vantaggi e svantaggi del trattamento anaerobico 4.1.7.1 I vantaggi del trattamento anaerobico sono numerosi e possono essere così riassunti: 9 disponibilità di una fonte d’energia per effetto del recupero del metano; 9 bassi consumi di energia (nel pompaggio e nel riciclo dell’effluente); a temperatura ambiente la richiesta di energia è dell’ordine di 0,05-0,1 kWh/m3; 9 riduzione dei solidi da trattare; infatti la produzione dell’eccesso di fango è in relazione alla frazione di COD biodegradabile, e nei trattamenti anaerobici è decisamente inferiore rispetto ai processi aerobici; 9 facilitazione nella disidratazione del fango; 9 stabilizzazione del rifiuto grezzo; 9 prodotti finali praticamente privi di odore; 9 recupero, quasi completo, dei nutrienti nel digestato (azoto, fosforo e potassio) per la fertirrigazione 9 operativitàdei sistemi anaerobici con carichi organici molto elevati:>30 g COD/l/day a ca. 30 °C e sino a 50 g COD/l/day a ca. 40 °C per acque di scarico di media intensità con sostanze organiche per lo più solubili; 9 i fanghi anaerobici possono essere conservati per periodi prolungati senza l’esigenza di alcuna alimentazione; 9 costi di costruzione relativamente bassi; 9 le esigenze di spazio per i trattamento anaerobici sono più bassi di quelli dei sistemi convenzionali. In conseguenza dei trattamenti anaerobici i composti biodegradabili sono effettivamente rimossi, rilasciando nel digestato composti ridotti quali ammoniaca, altri composti azotati, solfuri, composti organici del fosforo e patogeni. Quindi in relazione all’uso che si deve fare del digestato può essere indispensabile che esso venga sottoposto ad un trattamento a valle [237]. 94 4.1.7.2 Gli svantaggi del trattamento anaerobico 9 alta sensibilità dei batteri metanogenici ad un ampio numero di composti chimici. Va però detto che, in molti casi, gli organismi anaerobici sono capaci di adattarsi a questi composti; 9 il primo start-up di un’installazione anaerobica, senza l’utilizzo di un inoculo adeguato, può comportare lunghi periodi di latenza dovuti alla bassa resa in biomassa dei batteri anaerobici; 9 nel caso in cui l’acqua di scarico contenga composti solforosi, i trattamenti anaerobici possono portare alla produzione di sostanze odorigene per la formazione di solfuri. Un’efficace soluzione a questo problema è l’impiego di un post-trattamento con uno step micro-aerophilic, per convertire il solfuro a zolfo elementare [237]. 95 4.2 REATTORI ANAEROBICI I reattori di processo impiegati nella digestione anaerobica sono di moltissimi tipi e si differenziano per forma, dimensioni, processo utilizzato, materiali ed accessori utilizzati. Una prima distinzione riguarda i reattori tradizionali da quelli di tipo avanzato. La differenza sostanziale consiste negli accorgimenti o dispositivi, di cui sono dotati i secondi, tali da ridurre al minimo la fuoriuscita della biomassa dal reattore in modo da avere una separazione tra HRT (tempo medio di resistenza idraulica) e SRT (tempo medio di ritenzione dei fanghi), risolvendo così due dei principali problemi della digestione anaerobica ovvero la ridotta velocità di crescita della biomassa ed il, relativamente lungo, tempo di digestione. Verranno descritte le principali tipologie impiantistiche dei reattori anaerobici più diffusi e frequentemente applicati per il trattamento di reflui zootecnici e la stabilizzazione dei fanghi provenienti da impianti di trattamento delle acque di fogna urbana e industriale. Seguono poi le tipologie ad elevato contenuto tecnologico, che meglio si prestano al trattamento di reflui industriali (filtri anaerobici, reattori UASB, ecc.). Secondo la modalità di crescita della biomassa si possono distinguere i reattori: reattori a crescita sospesa, reattori a crescita supportata, e reattori ibridi. Nei primi la crescita della biomassa avviene in sospensione nella fase liquida, mentre nei secondi la crescita della biomassa avviene in film sottili, detti "biofilm", su un supporto posto all'interno del reattore stesso. Anche in questo caso il tempo di ritenzione della biomassa è decisamente superiore al tempo di ritenzione idraulico e quindi i reattori a biomassa adesa appartengono alla categoria dei reattori avanzati. I reattori ibridi sono una combinazione dei due. 4.2.1 Impianti Semplificati Queste tipologie di impianto trovano frequente applicazione nel settore zootecnico, grazie alla semplicità costruttiva e gestionale. Essi infatti sono costituiti da una vasca di stoccaggio, dotata di copertura gasometrica. I sistemi più semplici sono quelli psicrofili che sono caratterizzati da rendimenti variabili in relazione alla stagione dell’anno e da tempi di permanenza elevati (intorno a 60 giorni o più). Indicativamente per un liquame suino le produzioni annuali di biogas sono circa 25 m3/100 kg di peso vivo. Invece i bioreattori dotati di sistema di riscaldamento consentono di mantenere la condizione di mesofilia (35-37°C) e di ottenere rendimenti più elevati e costanti durante tutto l’arco dell’anno, con tempi di ritenzione intorno 96 a 20 giorni. Le produzioni annuali di biogas da liquame suino, in questo caso, si aggirano intorno ai 35 m3/100 kg di peso vivo. Le coperture gasometriche che hanno il compito di trattenere e di stoccare il biogas possono essere del tipo: - Copertura a cupola semplice: non è pressurizzata ed è costituita da un telone di materiale flessibile ancorato sul perimetro della vasca. Il gas, essendo a pressione molto bassa, viene estratto e inviato agli utilizzi per mezzo di una soffiante. - Copertura a cupola a doppia o tripla membrana: è realizzata con due o tre strati sovrapposti di membrane che sono fissate al bordo della vasca. Le membrane più esterne costituiscono una camera d’aria che agisce da elemento di spinta pneumatica sulla membrana più interna, quella che racchiude il biogas. L’evacuazione del biogas è realizzata con valvole di sovrappressione, regolate da appositi sensori. - Copertura galleggiante: è costituita da membrane dotate di un sistema di zavorra realizzato con tubi flessibili riempiti con acqua, per garantire la pressione di accumulo del biogas (Figura 4.2). Figura 4.2 - Copertura gasometrica galleggiante (fonte CRPA) 4.2.2 Reattori a Crescita Sospesa 4.2.2.1 Reattori miscelati Questi rappresentano la tipologia classica di digestori Figura 4.3. Sono realizzati in cemento armato o in acciaio, a forma di silos. Questi reattori sono predisposti per funzionare in condizioni mesofile o termofile, infatti sono coibentati e riscaldati mediante scambiatore di calore. Il liquame che si trova all’interno del digestore può essere miscelato in diversi modi che si possono raggruppare in tre categorie: sistemi ad agitazione meccanica (facendo ricorso ad un albero rotante a cui sono calettate delle pale: turbine o mixer a bassa velocità), sistemi ad iniezione di gas (il biogas recuperato dalla parte alta del bioreattore viene inviato all’esterno, compresso ed immesso ad alta velocità nella massa del liquido all’interno del bioreattore) e 97 sistemi meccanici di pompaggio (il liquido all’interno del bioreattore viene prelevato con delle pompe e riciclato all’interno). A seconda della modalità dell’agitazione e dell’intensità, il reattore può essere completamente o parzialmente miscelato. Si va affermando sempre più la tendenza di posizionare sulla sommità di questo tipo di reattore una calotta gasometrica, generalmente costituita da un telo polimerico che ha il compito di trattenere il biogas. Questi bioreattori miscelati consentono il trattamento di liquami con un contenuto in sostanza secca mediamente inferiore al 10%, con tempi di permanenza medi di 15-35 giorni, in relazione alla composizione del substrato e alla temperatura di processo. I bioreattori miscelati sono generalmente utilizzati negli impianti di codigestione. Le configurazioni impiantistiche più diffuse sono quelle a flusso continuo, preferite a quelle a flusso discontinuo (batch). Figura 4.3 - Schema di reattore a miscelazione completa. 4.2.2.2 Reattori con flusso a pistone (plug-flow) Questi digestori sono caratterizzati dal flusso orizzontale del liquame, essi sono dotati di sistema di riscaldamento, di agitatori e gasometro. In questo tipo di processi una delle dimensioni del reattore è maggiore dell’altra: si potranno quindi avere reattori sviluppati di più lungo l’asse orizzontale o lungo quello verticale. Nella Figura 4.4 è riportata una rappresentazione schematica del reattore con flusso a pistone. Il processo ideale prevede una alimentazione (con flusso continuo o semicontinuo) da un lato del reattore con successivo avanzamento lungo uno degli assi del reattore verso l’uscita, senza che avvenga mescolamento lungo questa direzione; l’unico mescolamento possibile è quello in direzione ortogonale rispetto all’asse di avanzamento della corrente in ingresso. Il tempo di residenza di ogni elemento di liquido corrisponde effettivamente al tempo di residenza idraulico e la concentrazione dei composti lungo l’asse di 98 avanzamento sarà quindi variabile. Motivi di natura tecnica ed economica ne limitano la taglia a 300-400 m3 di volume. Figura 4.4 - Schema di reattore con flusso a pistone. Processo in reattore con ricircolo (o reattori per contatto) Nelle tipologie impiantistiche già descritte, il tempo di permanenza idraulico risulta pari al tempo di permanenza della biomassa attiva (i microrganismi) all’interno del reattore. Se invece si ricircola al bioreattore parte della biomassa presente nell’effluente si riesce ad aumentare il tempo di permanenza della biomassa attiva del reattore, il che consente di realizzare più elevate efficienze di degradazione della sostanza organica. La separazione solido/liquido sull’effluente viene di norma realizzata con dei semplici sedimentatori. BIOREATTORE SEPARAZIONE SOLIDO LIQUIDO EFFLUENTE CHIARIFICATO INGRESSO LIQUAME FANGO DI SUPERO Figura 4.5 - Schema di reattore biologico con ricircolo. 4.2.2.3 Reattori a Crescita Supportata o Biomassa Adesa Sono reattori in cui la biomassa cresce adesa a supporti inerti di vario tipo formando una pellicola sottile ma densa. Questo permette al reattore di trattenere efficacemente la biomassa che si forma nel suo interno anche in presenza di flussi notevoli di gas e di liquido. Inoltre sono dotati di una maggiore stabilità dovuta al formarsi nell'ambito del biofilm di un microambiente avente caratteristiche ottimali, di difficile perturbabilità, per i microorganismi. Tra i principali inconvenienti di questo tipo di reattori ricordiamo l'intasabilità, dovuto ad un abnorme sviluppo della biomassa che occlude gli spazi destinati alla circolazione del liquido e del gas, e la 99 "canalizzazione", ovvero la formazione di canali di deflusso preferenziali per il liquame con l'esclusione quindi di una frazione della superficie di biofilm che rimane inattiva. 4.2.2.4 Reattori a Letto Fisso I rettori stazionari a letto fisso, sono costituiti da un contenitore in cui vengono inseriti dei mezzi di riempimento che fanno da supporto per l’immobilizzazione della biomassa che crea un biofilm. Il refluo può essere alimentato con flusso ascendente (Upflow Anaerobic Filter, UAF) o discendente (Downflow Anaerobic Filter, DAF). Il primo è caratterizzato dall'ingresso dell'influente dal basso e dalla fuoriuscita dell'effluente in alto, il secondo ha un funzionamento idraulico opposto. Un'altra distinzione tra filtri anaerobici può essere fatta a seconda del tipo di riempimento utilizzato: alla rinfusa o modulare. E ancora si possono fare classificazioni a seconda della natura, forma e caratteristiche del materiale di riempimento, un tempo costituito da pietrisco, oggi costituito da pacchi lamellari di materiale plastico o appositi corpi plastici da disporre alla rinfusa, da carbone attivo o da anelli in ceramica. I materiali plastici presentano una minore attitudine all'adesione rispetto al pietrisco, ma hanno superfici specifiche e indici del vuoto di gran lunga superiori. Le differenti caratteristiche, come la forma, gli spazi e le canalizzazioni del materiale di riempimento, influenzano il comportamento idrodinamico del reattore [238]. I reattori a letto fisso hanno il vantaggio di una semplice costruzione, inoltre sono particolarmente indicati per reflui con elevato contenuto di sostanza organica solubile e sono particolarmente indicati per funzionare ad alto carico organico [239] volumetrico (anche 20 KgCOD.m-3.d-1) con tempi di ritenzione che possono arrivare a solo qualche ora. Inoltre sono in grado di sopportare un elevato carico tossico [240]. I difetti di questi reattori sono quelli tipici dei reattori a film fisso, cioè l'intasamento dovuto all’aumento dello spessore del biofilm e/o l’elevata concentrazione di solidi sospesi nelle acque reflue e la canalizzazione riducendone così l'efficenza. Al fine di ridurre questi inconvenienti molti impianti sono dotati di dispositivi che permettono la circolazione ad alti flussi in senso contrario a quello di alimentazione in modo da eliminare le ostruzioni che la biomassa può formare. Il limite principale di questo rettore risulta essere il volume occupato e al costo elevato dovuto alla grande quantità di materiale di riempimento necessario. 100 4.2.2.5 Reattori Anaerobici a Letto Espanso e Fluidificato I reattori a letto espanso e a letto fluidizzato sono particolari tipi di reattori a biomassa adesa, in cui il materiale di supporto è costituito da fini particelle di materiale inerte, (0.11 mm di diametro) in sospensione nello stato fluidificato e aventi una elevata area superficiale. Il materiale di supporto permette la formazione di biofilm e la sua crescita. L’elevata area superficiale consente di ottenere un elevato carico di biomassa e favorisce l’ottenimento di un sistema efficiente e stabile. Questo sistema è particolarmente utile nel caso di più elevate velocità di carico e offre una maggiore resistenza agli inibitori [241]. Il materiale di supporto può essere costituito da sabbia, granuli di carbone, particelle di materiale plastico, zeoliti, sepiolite, etc.. Al fine di permettere la crescita del biofilm attorno alle particelle ed evitare la sedimentazione e l'impaccamento delle stesse è indispensabile un flusso idraulico sufficiente a mantenere le particelle del materiale in sospensione. La differenza fra letto espanso e letto fluidizzato sta nell'intensità di espansione del letto. Nel letto espanso il diametro delle particelle è leggermente più grande rispetto a quello usato nei letti fluidificati, nei primi è pari a 1.2-1.25 volte il volume del letto a riposo, mentre per i secondi è maggiore di 1.3 volte il volume a riposo. Per mantenere un flusso idraulico è indispensabile un forte riciclo con conseguente dispendio energetico per il funzionamento delle pompe. Questo tipo di reattori per la grande concentrazione di biomassa e la grande superficie esposta del biofilm consentono di operare con carichi organici volumetrici rilevanti (anche fino a 100 KgCOD/(m3.d) in condizioni di laboratorio) con tempi di ritenzione idraulica di poche ore. Inoltre sono adatti al trattamento di reflui a basso e medio contenuto di solidi sospesi. La tecnologia dei letti fluidificati risulta più efficace rispetto alla tecnologia del filtro anaerobico poichè in essa è favorito il trasporto delle cellule microbiche dal bulk alla superficie con conseguente miglioramento del contatto tra i microrganismi e il substrato [242]. Rispetto ai filtri anaerobici, presentano diversi vantaggi: 9 l’eliminazione dell’intasamento del letto; 9 una minore perdita della testa idraulica combinata con una migliore circolazione idraulica [243]; 9 una più grande area superficiale per unità di volume del reattore; 9 un costo inferiore per via del ridotto volume dello stesso. 4.2.3 Reattori Ibridi I reattori ibridi: incorporano un sistema a biomassa sospesa con uno a biomassa adesa, avendo il vantaggio di eliminare i possibili problemi di 101 intasamento e distribuzione dello scarico dei reattori a letto fisso, e di mantenere i vantaggi delle due configurazioni. Questo tipo di reattori nacque in seguito alla scoperta di diversi ricercatori dell'attività effettiva della biomassa adesa e della biomassa sospesa nei filtri anaerobici. Infatti, è noto che la maggior parte dell'attività di digestione è prodotta dalla frazione di biomassa sospesa, localizzata tra gli spazi di riempimento, e sopratutto nella parte basale del reattore, priva del riempimento stesso, destinata alla distribuzione dell'influente. Si pensò quindi di ridurre il volume di impaccamento fino agli attuali 1/4-1/2 del volume totale. 4.2.3.1 Reattore UASB L’Upflow Anaerobic Sludge Blanket (UASB) è un impianto anaerobico, sviluppato nei Paesi Bassi a partire dagli anni ’70 da Lettinga e collaboratori. La degradazione viene effettuata in prevalenza nella parte inferiore del reattore, nella quale è inserito anche il sistema di alimentazione. L’influente attraversa il letto di fango espanso, che è formato da fiocchi o granuli facilmente sedimentabili. Il buon funzionamento di un impianto UASB è determinato dalla formazione di aggregati batterici, fiocchi o granuli, sufficientemente densi da rimanere all'interno del reattore nonostante il trascinamento causato dal flusso di liquido e di gas. Le condizioni ottimali consistono nella formazione di aggregati batterici, fiocchi o granuli con densità elevate (1030-1050 Kg/m3) e che quindi sedimentino facilmente e rimangono all’interno del reattore nonostante il trascinamento causato dal flusso dei liquidi e del gas. Si forma un letto ad alta concentrazione di biomassa, separato dalla fase sovrastante, blanket, costituita da una fase liquida con una modesta concentrazione di solidi sospesi. Non sono presenti sistemi di agitazione meccanica, che avrebbero il difetto di rimuovere il letto di fango. La turbolenza e la miscelazione necessaria vengono garantite dalla risalita del fluido e dal biogas, che esercitano anche una pressione selettiva sulla flora batterica, in modo da selezionare le specie che formano i granuli. I solidi sospesi rimasti nell’effluente, possono essere recuperati in una zona di calma in testa al reattore, e riciclati nel sistema [244]. Il principale problema di questo tipo di reattore è che non si conosce ancora l'esatto meccanismo di formazione dei granuli, i quali si formano e si mantengono con difficoltà, eccetto che usando particolari tipi di influente. Ne consegue che sono predisposti, in particolari condizioni: 9 carichi idraulici elevati 9 elevate produzioni di gas. Un’altro problema è la perdita per "wash-out" della biomassa se questa non è ben aggregata e soprattutto nella fase iniziale del processo. 102 Tra gli svantaggi, il lungo periodo di start-up necessario per avere la giusta quantità di granuli necessari all’avvio del processo Da non trascure inoltre il fatto che l'abbattimento degli inquinanti non è tale da permettere lo scarico diretto dell'acqua depurata: l'UASB richiede solitamente uno stadio finale di affinamento biologico della depurazione. In compenso questo tipo di reattore, particolarmente indicato per il trattamento di substrati solubili, in presenza di buona granulazione è in grado di operare con tempi di ritenzione idraulica estremamente ridotti con carichi organici volumetrici rilevanti. Il massimo potenziale di carico nel sistema a letto di fanghi flocculanti è nel range 1-4 kgCOD/m3 al giorno [241]. I reattori UASB sono stati ampiamente usati per effluenti derivati da diverse sorgenti quali, distillerie, processi di trasformazione alimentare, concerie, reflui urbani. Inoltre essa risulta essere più conveniente rispetto ai filtri anaerobici o ai sistemi a letti fluidificati. 4.2.3.2 Reattore EGSB Un altro esempio di digestore ad elevata velocità, è l’EGSB, che rappresenta una forma modificata del reattore UASB nel quale la velocità di flusso applicata al liquido superficiale è leggermente superiore (5-10 m/h per reflui solubili e 11,25 m/h per reflui parzialmente solubili, rispetto a 3m/h per il reattore UASB.[245]. A causa dell’elevata velocità di flusso, i principali granuli di fango saranno trattenuti nel sistema EGSB, invece una notevole parte del letto di fango granulare sarà ampliata o potrebbe trovarsi in uno stato fluidificato nelle immediate vicinanze del letto. Come risultato il contatto tra le acque reflue e i fanghi è eccellente. Inoltre, il trasporto del substrato negli aggregati di fango è molto migliore se comparato alle situazioni dove l’intensità della miscelazione è più bassa.[245] La velocità di carico massima realizzabile col sistema EGSB è leggermente superiore rispetto a quella del sistema UASB, specialmente quando nelle acque reflue è presente una debole concentrazione di acidi grassi volatili (VFA) e si opera a una temperatura inferiore a quella ambiente [241]. 4.2.4 Altri tipi di reattori ibridi Altri reattori che appartengono alla classe dei "reattori ibridi" sono: UASF (Upflow Anaerobic Sludge Filter) e SBAF (Sludge Bed Anaerobic Filter). Questo tipo di reattori può essere identificato come un UASB con la parte superiore dotata di impaccamento. In effetti il materiale di riempimento non contribuisce in maniera significativa alla attività di digestione contenendo infatti quantitativi modesti di biomassa; l'azione del riempimento è piuttosto quella di separare le fasi gas/liquido/solido (i fiocchi di biomassa dalle bolle del gas) consentendo il loro trattenimento all'interno del reattore. 103 Si può affermare quindi, che il reattore SBAF è un reattore di tipo UASB in cui il sistema di separazione gas/liquido/solido è costituito da materiale di riempimento usualmente impiegato nei filtri anaerobici. Dal punto di vista delle prestazioni, queste sono assimilabili a quelle dei reattori UASB, salvo che tali performances vengono mantenute anche in assenza di biomassa granulare. Recentemente sono in fase sperimentale alcuni tipi di reattori ibridi in cui il materiale di riempimento è costituito da materiale spugnoso in grado di offrire un buon supporto ai microorganismi. In questo caso anche la zona impaccata diviene attiva dal punto di vista della digestione. Un'applicazione di questo tipo di reattori è stato fatto a livello sperimentale per il trattamento combinato digestione anaerobica/denitrificazione in un impianto di trattamento misto anaerobico/aerobico. In questo caso il riempimento posto nella parte alta del reattore offre supporto ai batteri denitrificanti che trattano il refluo proveniente dall'impianto aerobico il quale viene introdotto nel reattore subito al di sotto dell'impaccamento [246]. 104 4.3 SUBSTRATI UTILIZZABILI PER LA DIGESTIONE ANAEROBICA Secondo il decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 con il termine biomassa si indica: “la parte biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui provenienti dall’agricoltura (comprendente sostanze vegetali ed animali) e dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali ed urbani”. La definizione di biomassa, riunisce un’ampia categoria di materiali di origine vegetale e animale, compresa la parte biodegradabile dei rifiuti [247]. Da una prima distinzione abbiamo le materie prime (colture dedicate arboree ed erbacee, ecc.) e i prodotti di scarto derivanti da molteplici attività che interessano: il comparto agricolo-forestale, il comparto industriale, ed infine il settore dei rifiuti solidi urbani. 4.4 Classificazione Biomasse Nello specifico le biomasse, possono essere suddivise per comparto di provenienza nei seguenti settori: 1. Comparto Forestale e Agroforestale: 9 Residui delle operazioni selvicolturali o delle attività agroforestali, utilizzazione di boschi cedui, ecc; o Comparto Agricolo: Residui colturali provenienti dall’attività agricola e dalle colture dedicate di specie lignocellulosiche, piante oleaginose, per l’estrazione di oli e la loro trasformazione in biodiesel, piante alcoligene per la produzione di bioetanolo; Colture energetiche (erba, mais, sorgo, ecc.) o Comparto Zootecnico: Reflui zootecnici per la produzione di biogas; Reflui dagli Allevamenti di Animali (Suini, Bovini, Avicoli) 2. Comparto Industriale: 9 Residui provenienti dalle industrie del legno o dei prodotti in legno e dell’industria e della carta, 9 Residui dell’industria agroalimentare; 9 Reflui dell’agroindustria (scarti vegetali, fanghi ed effluenti acquosi da distillerie, birrerie, lavorazione delle uve, lavorazione del latte, produzione di lieviti, acque di vegetazione, lavorazione del caffe, ecc) 9 Reflui di macellazione 105 9 Reflui industriali di provenienza diversa dall’agroalimentare 3. Rifiuti Urbani: 9 Residui delle operazioni di manutenzione del verde pubblico 9 Frazione umida di rifiuti solidi urbani 9 Fanghi dagli impianti di trattamento acque di scarico urbane. Si comprende quindi che nel termine biomassa sono raggruppati materiali che possono essere anche molto diversi tra loro per caratteristiche chimiche e fisiche. Di conseguenza anche le loro utilizzazioni, per fini energetici, possono essere molteplici [247]. 106 4.5 FRAZIONE ORGANICA DEI RIFIUTI SOLIDI URBANI (FORSU) I rifiuti “solidi” organici vengono normalmente intesi come la frazione organico-biodegradabile avente una percentuale di umidità inferiore all’85-90%. Anche se il termine “solido”non è molto preciso, ci sono molti meeting sui rifiuti agricoli e industriali che applicano questo criterio, ma il contributo più rilevante è dato dalla frazione organica dei rifiuti solidi urbani (FORSU) [248]. E’ ormai noto l’effetto negativo che la discarica diretta dei rifiuti solidi urbani crea nell’ambiente. I maggiori problemi associati alle discariche sono le conseguenti emissioni nell’atmosfera, idrosfera, e pedosfera; i rischi nella stabilità della discarica; e la scarsità di terra [249]. In Europa, l’evoluzione della legislatura ha imposto la chiusura di molte discariche per via del loro forte impatto ambientale. In concomitanza di ciò si è avuto un incremento notevole della raccolta differenziata dei rifiuti solidi urbani. I trattamenti biologici sono la giusta alternativa per la frazione differenziata dei rifiuti putrescenti. Questa tecnologia può essere massimizzata riciclando e recuperando i componenti dei rifiuti. Tra i trattamenti biologici, la digestione anaerobica è quella che possiede il miglior rapporto costo/efficienza, dovuto all’elevato recupero di energia legato al processo e al limitato impatto ambientale. La produzione di biogas nell’intera Europa, potrebbe raggiungere oltre i 15 milioni di m3 di metano [250]. In letteratura la diversità degli articoli sulla digestione anaerobica dei rifiuti solidi, riflette l’elevato numero di argomenti relativi a questo settore [248]. 4.5.1 Composizione dei rifiuti Solo i rifiuti di origine organica possono essere processati in un digestore anaerobico. Essi costituiscono il 30-60% dei rifiuti domestici e per questo motivo un loro dirottamento dalle discariche costituisce un grosso beneficio per l’ambiente [251]. Una prima classificazione suddivide i rifiuti in: Frazione organica digeribile: materiale organico facilmente biodegradabile, per es. scarti di cucina, residui di cibo, tagli d’erba, rami di alberi, etc. Frazione combustibile: materiale organico scarsamente digeribile come legno, carta e cartone. Questi sono materiali lignocellulosici che non vengono facilmente degradati in condizioni anaerobiche ma sono più adatti alla digestione aerobica, es. composting. Opinioni differenti si hanno per la digeribilità della carta, che dipende dal contenuto di lignina, perciò alcune forme di carta risultano molto più digeribili di altre, generalmente solo la carta che è troppo contaminata da rifiuti organici per essere riciclata, viene usata per 107 la digestione. La frazione combustibile è costituita anche da una parte non digeribile [251]. Un’altra classificazione distingue i solidi volatili dai solidi volatili refrattari: I solidi volatili, (VS) nei rifiuti organici sono misurati come solidi totali meno il contenuto di ceneri, come ottenuto dalla combustione completa dei rifiuti. I solidi volatili comprendono la frazione di solidi volatili biodegradabili (BVS) e i solidi volatili refrattari (RVS) [252]. Kayhanian[253] mostra che la conoscenza della frazione di BVS e RSU aiuta a stimare meglio la biodegradabilità dei rifiuti, la produzione di biogas, la velocità di carico organico, e il rapporto C/N. La lignina è un materiale organico complesso che non è facilmente degradato da batteri anaerobici e rappresenta la parte di solidi volatili refrattari (RVS) in RSU. I rifiuti caratterizzati da elevato VS e basso materiale non biodegradabile o RSW sono più adatti al trattamento di digestione anaerobica. La composizione dei rifiuti influenza sia la resa del biogas che la qualità del compost [252]. 4.5.2 Pre-trattamento Separazione alla fonte mediante raccolta differenziata dei rifiuti: i materiali riciclabili vengono separati all’origine dai rifiuti organici. Separazione meccanica: essa può essere usata per separare la frazione organica dei rifiuti qualora essa non sia disponibile. La frazione ottenuta è più contaminata poiché comprende metalli pesanti, plastica presenti nel compost digerito. In molti paesi il compost derivato dalla separazione meccanica non è conforme alle norme necessarie per la produzione di un suolo certificato [254]. Avendo separato i materiali riciclabili o non voluti, dai rifiuti, il materiale organico deve essere tritato prima della sua immissione nel digestore. Il materiale organico è diluito con un liquido, che possono essere acque reflue, acqua riciclata dal digestato o acqua pulita. In alcuni sistemi un pretrattamento aerobico permette al materiale organico, di essere parzialmente decomposto in condizioni aerobiche, prima di entrare nella fase anaerobica [251]. 4.5.3 Problemi specifici per la digestione anaerobica nei RSU 9 La natura dei rifiuti organici, potrebbe variare in funzione della zona e del periodo dell’anno. Nella stagione umida la quantità delle piante orticole tagliate sono superiori rispetto alla stagione secca. Questo può portare ad una variazione nel rapporto C/N e pregiudicare la produzione di gas. 9 L’inadeguata miscelazione di rifiuti e acque reflue possono influenzare l'efficienza del sistema. 108 9 L’otturazione dei tubi può essere causato dall’ingresso nel sistema di grossi pezzi di rifiuti, questo causa problemi, in particolare nei sistemi continui. 4.5.4 Vantaggi della digestione anaerobica nei RSU 9 Rende più semplice la gestione delle discariche, eliminando i problemi dei rifiuti organici che sono responsabili delle emissioni liquide e gassose. 9 I sistemi chiusi permettono una raccolta completa del biogas prodotto, invece nelle discariche, viene raccolto solo il 30-40% del gas generato. Il metano è un gas a effetto serra che ha un impatto di 20 volte superiore al diossido di carbonio. 9 Viene ottenuto un prodotto finale che può essere usato come condizionatore di suolo. 4.5.5 Effetto del Calore e della Microaerazione nella Digestione Anaerobica della FORSU La digestione anaerobica della FORSU è stata oggetto di studio negli ultimi decenni, cercando di sviluppare una tecnologia che offre la stabilizzazione dei rifiuti con il recupero delle risorse. Nel complesso del processo di digestione anaerobica, l’idrolisi/acidificazione e la metanogenesi, sono considerate come fasi limite della velocità del processo [249]. E’ stato studiato l’effetto che il flusso di calore e la micro-aerazione hanno nella fase preliminare del processo e l’effetto della lisciviazione nel miglioramento della fase metanigena, per mettere a punto un processo combinato di digestione anaerobica. L’applicazione di condizioni micro-aerofiliche, durante la fase di pretrattamento, permette di ottenere un miglioramento nel processo d’idrolisi/acidificazione. Flussi della breve durata di cinque giorni con ridotti volumi d’acqua (29,3 L/Kg TS) permettono una vantaggiosa rimozione della materia organica dal letto di rifiuti in previsione della fase metanigena. E’ stata ottenuta una resa d’idrolisi di 140g/Kg di TS, che equivale al 30% di C rimosso dal letto dei rifiuti sottoforma di percolato e una resa di acidificazione di 180 gVFA/Kg TS. L’importanza della percolazione durante la fase metanigena è stata attribuita all’aumento nella produzione di biogas. La micro-aerazione durante il pre-trattamento ha un effetto positivo nella fase metanogenica poiché la fase attiva della fase metanogenica viene raggiunta prima, rispetto ad altri reattori in cui non viene fatta la micro-aerazione. Questo potrebbe essere il risultato di una migliore idrolisi/acidificazione durante lo start-up di metanizzazione, dando un substrato per i metanigeni. Così la micro-aerazione 109 mostra un inequivocabile effetto in termini di miglioramento del processo di digestione anaerobica. Inoltre, gli esperimenti di lisciviazione sulla frazione organica dei RSU dimostrano che flussi di calore possono aumentare l’idrolisi e l’acidificazione [255]. La temperatura influenza in maniera significativa il processo di digestione anaerobica, specialmente la fase metanogenica in cui il tasso di degradazione aumenta con essa. Le temperature di reazione aventi attività massima sono mesofiliche (25-40°C) e termofiliche (40-65°C) [256]. I microrganismi che operano nel range mesofilico, sono più robusti e possono tollerare maggiori cambiamenti nei parametri ambientali, rispetto alle condizioni termofiliche. La stabilità del processo mesofilico lo rende più popolare negli impianti di digestione anaerobica correnti, dovuto al fatto che i batteri termofilici, sono più sensibili a fluttuazioni tossiche e di temperatura fuori dai range ottimali [257]. Possiamo individuare tre fasi nel processo di digestione anaerobica combinata. Fase preliminare: gli acidi grassi volatili (VFA) e gli altri composti organici disciolti prodotti dai rifiuti freschi vengono flussati nel percolato. Sono stati utilizzati diversi tipi di flussaggio e micro-aerazioni per ottimizzare il processo di idrolisi/acidificazione a temperatura ambiente. Fase metano: la produzione di biogas è stata fatta a temperature mesofiliche. Lo strat-up è stato fatto aggiustando il pH e con l’aggiunta di inoculo. Una fase metano attiva, è stata indicata dalla presenza di circa il 50% di metano nel biogas e un pH attorno a 7. La percolazione durante la fase metanigna potrebbe portare all’aumento della produzione di biogas. Fase finale: Una fase matura del reattore viene raggiunta dopo 60 giorni, dopodichè viene fatta flussare dell’aria per rimuovere il metano e l’ossido di carbonio ancora intrappolati poi si procede a scaricare il reattore [249]. 4.5.6 Modellazione del Processo Sono stati intrapresi vari studi fondamentali sulla digestione dei rifiuti solidi. Un settore è la modellazione del processo. La disponibilità di un robusto modello di digestore anaerobico, permette di lavorare con i migliori parametri operativi, perchè venga definito un controllo ottimale [248]. Si incontrano molte difficoltà nel definire un modello di digestione anaerobica della FORSU. Ci sono molte fasi e tipi di micro-organismi implicati, e inoltre il substrato è complesso. Molti dei modelli riportati in letteratura, si riferiscono alla cinetica dei substrati solubili e così si considera solo la fase della fermentazione, dell’acetogenesi e metanogenica [258, 259]. 110 4.6 CODIGESTIONE La codigestione è una tecnologia sempre più richiesta per il trattamento di differenti tipi di rifiuti solidi e liquidi miscelati e trattati assieme in un unico digestore. I principali vantaggi di questa tecnologia sono i miglioramenti nelle rese di metano dovute al contenuto di nutrienti del “co-digested” e un uso più efficiente delle attrezzature e la ripartizione dei costi di funzionamento dell’impianto di trasformazione. [260] In generale, la quantità e qualità dei rifiuti organici generati potrebbe non essere sufficiente per avere una digestione con rapporto costo/efficienza favorevole. L’applicazione della codigestione offre molti vantaggi rispetto al trattamento separato. Negli impianti di biogas, le economie sono spesso marginali e perciò la codigestione sta diventando largamente addottata come metodo per migliorare l’economia del trattamento [261]. L’utilizzo della codigestione permette quindi di superare alcuni ostacoli quali la non disponibilità di substrati adeguati nell’intero anno [262]. Molti impianti di trattamento di rifiuti urbani, nei Paesi industrializzati, processano attualmente i fanghi di depurazione in un unico grande digestore. I maggiori problemi sono legati alle caratteristiche fisiche della composizione dei rifiuti urbani biologici trattati meccanicamente, l’accumulo di metalli pesanti e di altri contaminanti inerti e l’impatto di entrambi questi fattori sulla qualità finale dei fanghi. Su vasta scala potrebbero essere richieste delle prove che permettono di valutare l’impatto a lungo termine dei rifiuti sulla digestione anaerobica, se questa dovesse essere perseguita. Una migliore qualità del materiale di partenza dovrebbe essere in grado di portare un contributo all’aumento della resa del metano e minori restrizioni nel riutilizzo del prodotto. I miglioramenti nella raccolta o pre-trattamento sono la soluzione per ridurre questi ostacoli [263]. Il recupero di metano contribuisce anche a ridurre le emissioni di gas con effetto serra sull’ atmosfera. La codigestione di rifiuti organici con i fanghi di depurazione può aumentare la produzione di gas e permette di risparmiare sui costi di gestione globali dell’impianto. E’ stato condotto uno studio sul trattamento di un percolato di discarica contenente elevate concentrazioni di ammoniaca, utilizzando un reattore anaerobico di tipo “upflow”. Al fine di evitare l'inibizione di batteri anaerobici di altissima concentrazione di ammoniaca, l'influente introdotto nei biofiltri è stato diluito con le acque di vegetazione della molinatura delle olive e con acqua di rubinetto. Ottenendo una efficiente rimozione del COD di circa il 50% [264]. 111 Sempre nell’ambito della codigestione, vengono riportati i risultati ottenuti col trattamento di AV mediante due filtri anaerobici con alimentazione dal basso. Come materiale di supporto della crescita microbica sono stati utilizzati anelli Raschig corrugati in PVC. Sono state ottenute elevate rimozioni del COD (81 e 85%) e la produzione di biogas è risultata prossima al massimo valore teorico. La misura dei principali parametri ambientali e di esercizio effettuate anche a diverse altezze del bioreattore consente di ottenere una migliore conoscenza del funzionamento dei filtri anaerobici [265]. La conoscenza dei parametri funzionali dei reattori utilizzati e una conveniente miscela dei diversi tipi di rifiuti, costituiscono la base della efficienza del sistema anaerobico, che richiede una gestione attenta. La capacità di predire l’esito del processo quando si uniscono nuovi rifiuti è un importante mezzo per ottimizzare i risultati. A questo proposito negli ultimi 30 anni sono stati sviluppati molti modelli matematici [266]. 4.6.1 Modello Matematico Applicato alla Codigestione Un modello matematico che descrive la degradazione anaerobica combinata di materiali organici complessi, come letame, e liquidi contenenti additivi, come gli effluenti derivati dalle acque di vegetazione (AV) ottenute dalla macinazione delle olive, è stato sviluppato sulla base di un modello esistente [267]. Il modello è stato usato per simulare la codigestione anaerobica di letame bovino con le AV, e la simulazione è stata comparata con i dati sperimentali. I dati della simulazione indicano che la carenza di ammoniaca, necessaria come fonte di azoto per la sintesi dei batteri della biomassa e per l’ effetto tampone sul pH, potrebbe essere responsabile dei problemi incontrati nei tentativi di degradazione anaerobica delle AV. E’ stato dimostrato che la quantità di azoto necessaria per ottenere una degradazione stabile, delle AV deriva dal letame durante il processo di codigestione delle AV con il letame. Gli scarichi acquosi dei frantoi oleari, sono prodotti in grande quantità nell’area del Mediterraneo. Ogni anno vengono prodotti trenta milioni di metri cubi di AV [268]. Se non trattati questi rifiuti, costituiscono una grossa minaccia per l’ambiente, dovuto al forte carico organico e alla forte richiesta chimica di ossigeno (COD). I trattamenti anaerobici dei rifiuti organici sono spesso i principali metodi di trattamento: riducono il contenuto organico di COD, distruggono i prodotti tossici, cedono energia sotto forma di biogas che può essere usato per l’elettricità e per la produzione di calore. L’utilizzo della degradazione anaerobica di AV ha portato alla riduzione del COD sino a circa l’ 80% [269]. Il modello mostra inoltre gli effetti dovuti al potere inibitore dei fenoli, alla carenza di ammoniaca, e alla bassa alcalinità delle AV. Diversi approcci sono 112 stati applicati per superare questi problemi, come la diluizione degli OME con acqua e l’aggiunta di urea come sorgente di azoto [270] [271]. L’utilizzo dell’acqua per la diluizione delle AV, risulta in un non necessario aumento del volume dell’effluente, e l’aggiunta di reagenti chimici, non è economicamente e ecologicamente auspicabile. La soluzione che viene suggerita è dunque quella di utilizzare la codigestione delle AV assieme al letame. In questo processo l’alcalinità e l’alto contenuto di ammoniaca offerto dal letame compensa i bassi valori degli stessi nelle AV, mentre le AV contribuiscono a una elevata, potenziale, resa di biogas. I risultati presentati, mostrano che è possibile formulare un modello che può predire il comportamento dinamico della codigestione con sufficiente accuratezza da essere un utile strumento d’aiuto per l’ottimizzazione del processo di codigestione. La simulazione della codigestione del letame/AV presentata in questo studio può spiegare le difficoltà osservate quando si prova a degradare le AV da sole. I risultati indicano che il trattamento delle AV in termini di successo e stabilità possono essere ottenuti se si aggiunge una relativamente piccola quantità di letame come fonte di azoto e fattore di stabilizzazione del pH. Altri tipi di rifiuti animali, come quelli derivati dai polli o lo sterco di cavallo, possono essere utilizzati come sorgente di azoto più facilmente disponibile [263]. 113 4.7 DIGESTIONE ANAEROBICA DI COMPOSTI TOSSICI e EFFETTI-D’INIBIZIONE 4.7.1 Composti Recalcitranti e Xenobiotici Gli idrocarburi alifatici clorurati (CAH) sono usati in una grande varietà di applicazioni [272] e vista la loro tossicità e cancerogenicità, la maggior parte di essi è inclusa nella “List of the Council directive” 76/464 (EC) e nella lista EPA (USA) dei principali inquinanti ambientali. Questo gruppo di composti, vengono trovati di frequente negli scarichi industriali, e sono citati come inibitori della digestione anaerobica [273] essendo considerati più tossici per i microrganismi anaerobici che aerobici. Gli idrocarburi alifatici clorunati, vengono usati come solventi e come intermedi nelle sintesi chimiche. Se rilasciati nell’ambiente costituiscono un serio rischio per l’ambiente per via della loro tossicità e elevata stabilità. I CAH sono considerati composti xenobiotici, benché alcuni, specialmente i clorometani, sono rilasciati da alghe, funghi, vulcani [274]. Comunque, la maggior parte dei CAH hanno un’origine antropogenica, e sono considerati recalcitranti alla biodegradazione. La maggior parte delle informazioni disponibili, sui composti clorurati, è legata alla degradazione ossidativa, poiché i processi aerobici sono sempre stati considerati i più efficaci e di più facile applicazione. Comunque, ora sono disponibili informazioni aggiuntive sulla biotrasformazione dei CAH. Infatti, è stato provato che i composti xenobiotici clorurati sono biodegradabili in condizioni anaerobiche [273-275]. La declorazione anaerobica può essere suddivisa in due gruppi di reazioni: reazione mediata biologicamente e non. La dealogenazione riduttiva, principalmente idrogenolisi e dicloro eliminazione, è la via più importante per la biodegradazione anaerobica, e richiede la donazione di un elettrone. La dealogenazione abiotica, in genere ha una cinetica di reazione estremamente bassa. Tra i CAH è stato selezionato l’1,1,1,2-tetracloroetano (1,1,1,2-TeCA) come composto modello, poichè vi sono scarse fonti letterarie in merito, inoltre viene usato in abbondanza come solvente nei processi di fabbricazione, ma anche per la sua tossicità verso i microorganismi nei sistemi metanogenici animali e non [246]. 4.7.1.1 Bioderadazione di 1,1,1,2-tetracloroetano in condizioni metanogeniche in un reattore UASB E’ stato studiato l’effetto di differenti co-substrati sulla degradazione anaerobica dell’ 1,1,1,2-tetracloroetano (1,1,1,2-TeCA) in fanghi granulari, ed è stato ipotizzato il suo percorso degradativo. 114 La biomassa usata come inoculo è una miscela di fanghi anaerobici granulari, conservata a 4°C . Il contenuto di solidi sospesi volatili (VSS) è di 9.1% e la sua attività specifica iniziale è di gDQO/gVSS d. Nell’esperimento di controllo, fatto con la biomassa sterile, il fango viene autoclavato (per l’ inattivazione di tutta l’attività microbica) per 30 min a 120°C. L’incubazione è condotta a 30 °C in condizioni stazionarie. I differenti esperimenti di biodegradazione, dimostrano che 1,1,1,2-TeCA è completamente rimosso solo in presenza di microrganismi anaerobici. Le velocità di biodegradazione sono indipendenti dall’ aggiunta di substrati (acido lattico, metanolo, saccarosio, acido acetico, o formico) e rimangono costanti in loro assenza. Il controllo delle attività indica che non c’è degradazione in assenza di microrganismi (biomassa) e che la degradazione non viene mediata dai differenti componenti dei mezzi d’incubazione. La presenza o meno di macronutrienti e tracce di elementi, con o senza lieviti, e Na2S, entrambi come ipotetici donatori di elettroni, non modificarono la velocità di degradazione del 1,1,1,2-TeCA. I composti della degradazione sono: 1,1-DCE, 1,1,2-TCA, TCE, e TeCE, ma solo l’1,1-DCE e l’1,1,2-TCA corrispondono ai prodotti della biotrasformazione. Esperimenti fatti, a pH 7, con 1,1-DCE dimostrano che la concentrazione di 1,1DCE rimane costante sia in assenza del co-substrato che in presenza di sodio lattato. Il 1,1-DCE viene invece eliminato rapidamente in presenza di acido lattico a pH 5, al contrario la sua eliminazione non avviene usando acido fosforico a pH 3 o 5.5. Dagli studi eseguiti risulta che usando diverse concentrazioni di 1,1,1,2TeCA, si forma 0,62 ppm di 1,1-DCE per ppm di 1,1,1,2-TeCA degradato. Questo significa che il 100% del 1,1,1,2-TeCA è convertito in 1,1-DCE. In accordo con questi risultati, si possono individuare due vie di biodegradazione possibili: 9 dicloroeliminazione 9 la declorurazione e la deidroclorazione riduttiva In accordo con l’assenza dell’intermedio 1,1,2-TCA che non è mai stato trovato, e che la deidroclorurazione avviene lentamente, si può assumere che la dicloroeliminazione è la principale via di degradazione che può avere luogo. Tenendo conto che l’eliminazione di due cloruri, e la formazione di un doppio legame, richiede l’intervento di una donazione di elettroni, i risultati suggeriscono che la donazione degli elettroni deriva dalla digestione endogena dei fanghi. 115 Per confermare questi risultati sono stati usati due reattori UASB, e sono stati condotti due esperimenti, con e senza cosubstrato. La biotrasformazione dell’ 1,1,1,2-TeCA è risultata completa nei due casi. I risultati mostrano che questo composto è facilmente e rapidamente biodegradato in condizioni anaerobiche metanogeniche, anche in assenza di elettron donatori. L’ 1,1,1,2-TeCA è degradato a 1,1-dicloroetene (1,1-DCE) per dicloroeliminazione riduttiva. L’ 1,1-DCE viene biodegradato completamente solo in presenza di acido lattico come co-substrato. Benchè l’ 1,1,1,2-TeCA potrebbe apparire completamente rimosso dai granuli di fango autoclavati, il composto non è trasformato, ma trattenuto all’interno dei granuli. La degradazione primaria dell’ 1,1,1,2-TeCA a 1,1-DCE è un processo biotico mediato dai batteri anaerobici. E’ confermato che i fanghi anaerobici sono capaci di biotrasformare 1,1,1,2-TeCa in presenza o in assenza di donatori di elettroni esterni. E’ stata osservata un’elevata velocità di degradazione (280umol/g VSS d). La rimozione di questo composto può essere osservata in presenza di biomassa sterile per via del meccanismo di adsorbimento o absorbimento. Questi risultati sono in accordo con la natura idrofobica di 1,1,1,2-TeCa e i fanghi granulari [276]. E’ importante sottolineare che la scomparsa dei composti idrofobici, come CAH, in presenza di fanghi granulari inattivi potrebbero essere confusi come apperente degradazione abiotica, specialmente con un elevato rapporto biomassa/CAH. La degradazione del 1,1,1,2-TeCA avviene solo in presenza di fanghi vivi. 4.7.2 Effetto di Composti Tossici in un Reattore UASB E’ stato fatto uno studio sull’azione dell’ 1,1,1,2-tetracloroetano (1,1,1,2TeCA) su un processo di digestione anaerobica, mediante l’utilizzo di reattori UASB. Si sono confrontati due reattori UASB, il primo, R1, con carico costante, mentre il secondo, R2 viene caricato a impulsi. Il reattore UASB possiede una elevata tolleranza e acclimatazione all’ 1,1,1,2tetracloroetano. L’attività del reattore R1 sottoposto ad aggiunta continua di 1,1,1,2-TeCA, inizia ad essere disturbato, per concentrazioni superiori a 100mg/L. L’efficienza è di circa il 90%. Da sottolineare che negli esperimenti (in batch) fatti in precedenza l’IC50 era di 18mg/L. Per concentrazioni di 140mg/L, l’efficienza del reattore diminuisce sino al 40% (determinata come COD rimosso) e sino al 5% (determinata come CH4 prodotto). 116 Utilizzando il reattore per tre mesi con questa concentrazione, si ha un pieno recupero dell’attività in 3-4 giorni, in seguito all’eliminazione del 1,1,1,2-TeCA dall’influente. Il reattore R2 è stato capace di tollerare “slug” dosi di 1,1,1,2-TeCA, previste impulsi di 24 ore, ad una concentrazione superiore a 120 mg/L senza effetti sull’attività. Per “slug” dosi superiori a 250 mg/L la sua efficienza scende al 50% circa, e il recupero si ottiene in soli 1-3 giorni. Per concentrazioni sino a 400 mg/L di 1,1,1,2-TeCA, il reattore è in grado di recuperare completamente la sua attività in 5-6 giorni. Visto il recupero dell’attività del reattore, dopo l’eliminazione dei composti tossici, si può postulare che l’1,1,1,2-TeCA esercita un effetto batteriostatico sulla popolazione microbica dei granuli anaerobici. I batteri acetogenici e i metanogeni acetoclastici (archaea) sono i microorganismi maggiormente minacciati. Il reattore UASB, aventi biomassa costituita da fanghi granulari, rappresentano una adeguata tecnologia per il trattamento di reflui industriali che normalmente contengono concentrazioni medio-alte di 1,1,1,2-TeCA o quelli che soffrono di sporadici o accidentali discariche di alte concentrazioni di 1,1,1,2-TeCA [277]. 4.7.3 Biodegradazione Anaerobica e Tossicità di Clorofenoli Trattati con Reattori Anaerobici a Letto Fluidificato I composti clorofenolici sono presenti negli scarichi acquosi delle industrie del legno (cartiere, segherie) le quali sfruttano le loro proprietà fungicida e insetticida per la conservazione dei loro prodotti (legno e carta). Altre emissioni di clorofenoli nell’ambiente si hanno sia dalle Industrie chimiche produttrici di pesticidi ed erbicidi come anche in seguito all’utilizzo di questi prodotti nelle attività agricole. L’uso intenso in ambito industriale ed agricolo ha provocato un accumulo nel terreno finendo per contaminare falde ed invasi idrici, con gravi danni all’ecosistema naturale. Sono state rilevate concentrazioni di composti clorofenolici nelle acque potabili pari a 8-40 mg/l. Elevate concentrazioni di tali composti si riscontrano anche nelle acque di scarico civili a causa di elevati usi di pesticidi nei centri urbani. In passato si riteneva che i clorofenoli fossero tossici per i microrganismi anche a concentrazioni molto basse, invece è stato dimostrato che colture miste di batteri, dopo un certo periodo di acclimatazione ai composti fenolici, riescono a degradarli completamente. La maggior parte degli studi realizzati in passato sulla decomposizione biologica dei clorofenoli ha riguardato colture batteriche di tipo aerobico. Anche questo gruppo di ricerca, in passato, ha studiato la degradazione con batteri aerobici. Più recenti sono i lavori condotti con batteri anaerobici. 117 4.7.3.1 Biodegradazione Anaerobica e Tossicità di Clorofenoli In questo lavoro è stata studiata la degradazione di alcuni clorofenoli da parte di colture microbiche miste non acclimatate che si sviluppavano in condizioni batch. I clorofenoli presi in esame sono stati il 2-monoclorofenolo (2-MCP) ed il 2,6-diclorofenolo (2,6-DCP) con l’obiettivo di valutarne la cinetica di consumo e di verificare il possibile schema di degradazione Nel nostro caso si è osservato che il fenolo è un prodotto intermedio di decomposizione dei clorofenoli e viene utilizzato come fonte di carbonio. I risultati hanno dimostrato che colture batteriche miste anaerobiche riescono, con tempi molto lunghi, a mineralizzare completamente le molecole del 2-MCP e del 2,6-DCP [278]. 4.7.3.2 Trattati con Reattori Anaerobici a Letto Fluidificato Sono stati individuati diversi composti clorofenolici (pentaclorofenolo (PCP), 2,4,6-triclorofenolo (TCP), 2,4-diclorofenolo (DCP), 4-monoclorofenolo(MCP) e fenolo), sui quali sono stati fatti studi di tossicità anaerobica e di biodegradabilità. L’utilizzo di un reattore a letto fluidificato ha permesso di ottenere, per un trattamento anaerobico continuo di reflui contenenti composti clorofenolici, una loro degradazione. Il pentaclorofenolo e il DCP, rispetto ai composti testati, sono risultati i composti più tossici per i batteri anaerobici. L’aggiunta di una sorgente esterna di carbonio permette di stimolare il processo di declorurazione e di assicurare un apporto sufficiente di biomassa. Dopo un periodo di circa 75 ore di acclimatazione dei fanghi viene osservata un’elevata velocità di eliminazione della tossicità e del substrato [279]. 4.7.4 Altri Inibitori e Composti Tossici Oltre alle già citate classi di composti, è possibile citare altre classi di composti che risultano essere tossici per il processo microbico, limitandone lo sviluppo o inibendo l’attività. Tra gli altri particolare importanza viene data ai pesticidi, disinfettanti, i prodotti farmaceutici etc. 4.7.4.1 Antibiotici In particolare, nell’ambito dei prodotti farmaceutici, consideriamo la classe degli antibiotici, comunemente utilizzati nel trattamento dei suini, amoxicillin triidrata, oxytetracyclina cloroidrata e thiamphenicol, sono stati aggiunti con concentrazioni diverse ai liquami suini e ai fanghi anaerobici. E’ stato poi valutato l’effetto degli antibiotici sulla produzione di biogas e la concentrazione di metano sul processo anaerobico. Il thiamphenicol aggiunto alla coltura anaerobica, ha un notevole effetto sulla produzione di metano, rispetto alla 118 coltura di controllo. L’ amoxicillin ha un minore effetto inibitore sulla produzione di metano rispetto alla concentrazione dell’antibiotico; l’oxytetracycline sembra non esercitare nessun effetto sulla produzione di metano. I risultati costituiscono un’ulteriore conferma sul fatto che la presenza degli antibiotici nei liquami suini, possono creare un problema nel trattamento delle acque reflue nella digestione anaerobica, specialmente dove la produzione di biogas è importante. Inoltre, non è possibile fare una revisione sull’effetto inibitore che ciascun antibiotico può avere nella produzione di metano. Ancora, non è possibile stabilire quale stadio della comunità (batteri metanogenici o acidi) è affetta dall’antibiotico [280]. 119 4.8 PRODUZIONE DI IDROGENO L’idrogeno è un gas prezioso, come fonte di energia pulita e materia prima per le industrie. Perciò la sua richiesta di produzione è aumentata notevolmente negli ultimi anni. L’elettrolisi dell’acqua, il reforming degli idrocarburi, e i processi termici, sono metodi ben noti per la produzione di idrogeno, ma hanno un costo-effettivo troppo elevato per via della notevole richiesta di energia. La produzione biologica di idrogeno ha importanti vantaggi, rispetto ai metodi chimici. I microrganismi decompongono la sostanza organica a CO2 e H2. L’idrogeno prodotto come gas è generalmente utilizzato direttamente da altri organismi all’interno dello stesso ecosistema. La reazione chimica 2H+ + 2e- → H2 viene catalizzata dalla presenza di un enzima. Molti microrganismi producono Idrogenasi, enzimi, che svolgono la funzione di ossidare H2 a protoni ed elettroni oppure ridurre i protoni e liberare idrogeno molecolare. I principali processi biologici usati per la produzione di idrogeno sono: 9 la biofotolisi dell’acqua utilizzando alghe e cianobatteri; 9 la fotodecomposizione (o fotofermentazione o fermentazione “light”) di composti organici, solitamente carboidrati, per mezzo di batteri fotosintetici; 9 la fermentazione di composti organici (fermentazione “dark”) 9 l’utilizzo di sistemi ibridi che uniscono la fotodecomposizione con la fermentazione. La bio-produzione di idrogeno, prevede l’utilizzo di diversi tipi di rifiuti, l’utilizzo di diverse strategie di bio-trasformazione, l’utilizzo di colture microbiche e bio-condizioni di trasformazione. Il principale ostacolo nella fermentazione “dark” e “light” è dato dal costo delle materie prime. I rifiuti solidi, come l’amido e la cellulosa, ricchi in carboidrati e poveri di azoto, presenti nei rifiuti agricoli e negli scarti dell’industria alimentare, come per esempio i formaggi, il siero del latte, gli scarti della macinatura delle olive e il lievito della panificazione, possono essere usati per la produzione d’idrogeno per mezzo di opportune bio-tecnologie di processo. L’utilizzo dei rifiuti, per la produzione di idrogeno, permette di generare energia a basso costo e un simultaneo trattamento dei rifiuti. Le microalghe (es. Chlamydomonas reinhardtii) producono idrogeno utilizzando come substrato principale l’acqua e la luce (in un processo chiamato biofotolisi). La produzione algale d’idrogeno è piuttosto lenta, ed è inibita dall’ossigeno. L’idrogeno è prodotto come sottoprodotto durante la fase acetogenica della digestione anaerobica dei rifiuti organici, nota come fermentazione. La resa per 120 fermentazione “dark” è bassa e così la sua velocità. I composti organici acidi, prodotti durante la fermentazione “dark”, dai rifiuti ricchi in carboidrati, possono essere convertiti in H2 e CO2 per mezzo di batteri fotoeterotropici. Il processo complessivo, richiede l’utilizzo di organismi speciali, luce e uno stretto controllo delle condizioni ambientali. Per questo motivo, il processo sequenziale o combinato della fermentazione “dark” e “light” sembra essere il più efficace, permettendo di ottenere una resa elevata di idrogeno da rifiuti ricchi di carboidrati. I principali problemi nella bioproduzione d’idrogeno sono: 9 basse velocità 9 basse rese di formazione 9 reattori con grandi volumi Questi problemi possono essere superati selezionando e usando degli organismi più efficaci o miscele di colture, sviluppando uno schema di processo più efficiente, ottimizzando le condizioni ambientali, migliorando l’utilizzo dell’ efficienza della luce, e sviluppando bio-reattori più efficienti L’inibizione della produzione di bio-idrogeno dovuto alla presenza dell’ossigeno, e dell’ammonio-azoto, si può superare separando la fase della crescita dei microrganismi da quella di formazione dell’idrogeno, migliorando così la produzione d’idrogeno [281]. 4.8.1 Tipi di fermentazione Sono noti principalmente tre tipi di fermentazione: 9 all’ acido butirrico, 9 all’ acido propionico 9 all’ etanolo. Secondo la maggior parte degli studi di fermentazione acidogenica, quando i prodotti principali del processo sono l’acido butirrico e acetico, il processo è chiamato fermentazione all’acido butirrico. Nella fermentazione all’acido propionico, l’acido propionico si converte in metano e si accumula nel reattore acidogenico nel processo di fermentazione, acidificando il sistema di trattamento anaerobico e determinando l’esito negativo del processo di trattamento delle acque reflue (Bhatia et al., 1985; Hanaki et al., 1994a, b), per questo motivo la fermentazione all’acido propionico, e l’acido propionico, dovrebbe, sempre, essere evitata. Nell’ultimo tipo di fermentazione identificata, all’ etanolo, i liquidi prodotti sono etanolo e acido acetico.[282] 4.8.2 Enterobacter, Bacillus, e Clostridium per la Produzione di Idrogeno Le colture pure di Enterobacter, Bacillus, e Clostridium sono in grado di produrre idrogeno a partire da carboidrati. 121 I Bacillus, e i Clostridium sono caratterizzati dalla formazione di spore, come risposta alla non favorevole condizione ambientale, come la mancanza di nutrienti o l’aumento della temperatura. Alcune specie di clostridi, sono capaci di degradare amido insolubile, senza un pretrattamento, mentre alcuni enterobatteri, possono degradare solo amido in soluzione. Per avere un processo tecnologico fattibile, è necessario utilizzare miscele di colture ottenute da fonti naturali, capaci di operare in condizioni non-sterili. I fanghi di depurazione trattati termicamente rappresentano una fonte facilmente disponibile di miscela di microflora per la produzione di idrogeno. E’ necessario liberarsi della presenza di organismi che utilizzano l’idrogeno. Questa condizione può essere realizzata per valori di pH bassi e/o con tempi di ritenzione brevi, dal momento che i metanigeni sono sensibili alla diminuzione di pH e hanno una crescita più lenta rispetto agli organismi fermentativi. Gli studi in laboratorio sono stati concentrati su substrati puri come, amido, cellulosa, in processi in batch. Se l’inoculo, consiste nella formazione di spore, è possibile che la crescita su amido puro o cellulosa possa incontrare difficoltà, non presenti con materie prime complesse, poiché la germinazione di spore, potrebbe richiedere specie di nutrienti specifici. Una valida tecnologia in un processo in continuo, necessita di materie prime organiche fermentabili e non sterili, per es. rifiuti solidi urbani e i rifiuti delle industrie alimentari. Le condizioni del processo, incluso l’inoculo, hanno un effetto significativo sulla resa dell’idrogeno, in quanto influenzano la fermentazione dei prodotti finiti. La fermentazione di esosi a acetato o butirrato produce H2 e CO2. La fermentazione a propinato o lattato, non produce idrogeno. I prodotti di fermentazione ridotti, come l’etanolo, e altri alcoli contenenti H addizionali, danno basse rese di H2. E’ importante perciò stabilire il metabolismo dei batteri che danno come prodotto finale l’acetato e il butirrato. La fermentazione dei prodotti finiti negli effluenti, per la produzione di idrogeno, necessità di una ulteriore fase. Una resa elevata può essere ottenuta mediante la fotofermentazione batterica [283]. 122 4.9 TRATTAMENTI COMBINATI L’abbattimento completo di sostanze inquinanti nelle acque reflue può essere raggiunto con difficoltà qualora si addotti un metodo di trattamento singolo. La combinazione di un trattamento chimico con un trattamento biologico permette di ottimizzare il processo globale. La scelta del primo processo è fatta per facilitare il secondo e per ottenere un trattamento più efficace dei reflui. Si possono citare a titolo d’esempio delle situazioni tipo in cui è necessario procedere al trattamento dei rifiuti in due fasi: 9 presenza di composti recalcitranti; 9 presenza di composti recalcitranti che richiedono una raffinazione chimica; 9 presenza di inbitori; 9 formazione di composti chimici e biologici di degradazione. Ciascuno di questi rifiuti deve essere considerato separatamente, per decidere quale trattamento chimico, o biologico è più opportuno applicare, in quale ordine e quanto estendere il trattamento prima di passare al secondo. L’accoppiamento di un trattamento chimico (ozonizzazione) con un trattamento biologico (digestione anaerobica), è stato fatto per le acque di vegetazione (AV) ottenute dalla macinazione delle olive. In esse la presenza di inibitori (lipidi e polifenoli) riducono la sua potenziale biodegradabilità. In seguito a questi trattamenti, si osserva che sia i fenoli totali che i lipidi insaturi, vengono ridotti del 50% in tre ore di ozonizzazione e che il COD rimane invariato [284]. Tuttavia, le AV trattate, hanno un effetto inibitorio più alto verso i batteri metanigeni rispetto alle AV non trattate. Questo effetto non si presenta invece per i batteri acitogenici. L’acido oleico è meno inibitorio verso i metanigeni, rispetto ai prodotti della ozonizzazione (probabilmente legato alla formazione di acido azelaico). L’effetto inibitorio dell’acido p-idrossibenzoico, e dei suoi prodotti di ozonizzazione, risulta differente in funzione delle diverse concentrazioni, ad indicare la diversa natura delle vie di inibizione. Considerato il complesso sistema delle AV, si può ipotizzare che l’inibizione dei metanigeni dovuti alla ozonizzazione, è la combinazione di differenti fattori. A titolo d’esempio si cita la formazione di acido azelaico e nonanoico dalla degradazione dell’acido oleico. In conclusione a dispetto delle effettive e selettive ossidazioni dei composti di inibizione nelle AV, il pretrattamento con l’ozono non può ancora essere usato per migliorare le performance del processo biologico. 123 In alternativa viene proposto l’utilizzo di un metodo integrato per il trattamento delle AV. Il metodo prevede una fase di pretrattamento elettrochimico delle acque , usando la reazione elettro-Fenton seguita dal biotrattamento anaerobico. Questo processo rappresenta una combinazione del processo elettrochimico e l’ossidazione di Fenton. Il processo elettro-Fenton, rimuove il 65,8% dei composti fenolici totali, e conseguentemente riduce la tossicità delle AV dal 100% al 66,9%, il risultato è un complessivo miglioramento nelle performance di digestione anaerobica [285]. L’ossidazione elettrochimica applicata agli effluenti digestati dei rifiuti lattierocaseari sottoposti a digestione anaerobica sono un altro esempio di trattamento combinato. Il campione dell’effluente digestato, contenente i solidi sospesi, viene sottoposto a un pretrattamento di filtrazione, prima del trattamento elettrochimico. L’influenza della ossidazione anodica diretta o indiretta, viene valutata con l’utilizzo del DSA (Dimensionally Stable Anode) e Ti/PbO2 come anodo. La diminuzione del tasso di COD, risulta più alta per l’elettrodo di biossido di titanio rivestito, piuttosto che per il DSA, anche se il DSA risulta migliore nel diminuire la quantità di azoto ammoniacale (NH4+-N) dovuto all’accumulo dell’azoto nitrato (NO3--N). I risultati mostrano che la filtrazione dei solidi sospesi e l’aggiunta di NaCl migliorano l’efficienza dell’ossidazione elettrochimica nella rimozione dell’ NH4-N nell’effluente digestato [286]. Un altro esempio di trattamento combinato, prevede l’utilizzo di sistemi convenzionali aerobici, come i reattori a fanghi attivi (FA), i sistemi SBR (Sequencing Batch Reactor) e i sistemi aerobici a bio-film come l’RBC (Rotating Biological Contractor), con sistemi anaerobici, come UASB o filtri anaerobici ibridi (Fan). Queste tecnologie permettono di lavorare con velocità di carico più elevate e evitano il washing-out della biomassa. Il trattamento anaerobico/aerobico, di acque reflue di vinificazione è un esempio di trattamento combinato. Questo tipo di trattamento, si adatta più facilmente ai diversi carichi e flussi di prodotto durante le diverse fasi dell’ anno. Permette di rimuovere un più elevato carico di COD (98,5-99,2%) rispetto al trattamento aerobico (96,3-97,9%) da solo, inoltre ha rapidi tempi di recupero dopo periodi in cui si ha scarsità di reflui [287]. Sempre nell’ambito del trattamento combinato aerobico/anaerobico, un altro esempio viene dal trattamento di acque reflue industriali derivate da un processo Fischer Tropsch. Queste acque di scarico sono caratterizzate da una elevata concentrazione di COD e in particolare dalla presenza di alcoli a catena lunga, considerati potenziali inibitori. La combinazione del processo 124 anaerobico/aerobico per elevate tassi di carico organico per entrambe le fasi, costituisce un efficace sistema di trattamento per questo tipo di reflui [288]. 125 5 Bibliografia 1. Angelini, L.G., L. Ceccarini, and E. Bonari, Biomass yield and energy balance of giant reed (Arundo donax L.) cropped in central Italy as related to different management practices. European Journal of Agronomy, 2005. 22(4): p. 375-389. 2. Venturi, P., W. Huisman, and J. Molenaar, Mechanization and Costs of Primary Production Chains for Miscanthus x giganteus in The Netherlands. Journal of Agricultural Engineering Research, 1998. 69: p. 209-215. 3. Lewandowski, I. and A. Heinz, Delayed harvest of miscanthus--influences on biomass quantity and quality and environmental impacts of energy production. European Journal of Agronomy, 2003. 19(1): p. 45-63. 4. Ercoli, L., M. Mariotti, A. Masoni, and E. Bonari, Effect of irrigation and nitrogen fertilization on biomass yield and efficiency of energy use in crop production of Miscanthus. Field Crops Research, 1999. 63(1): p. 3-11. 5. Cosentino S.L., R.E., D'Agosta G., . Leaf photosynthesis in kenaf (Hibiscus cannabinus L.) in response to water stress. in II World Conference on Biomass. 2004. Roma 6. Cosentino S. L., C.V., Mantineo M., Università di Catania, Italy Behaviour of Fibre Hemp (Cannabis sativa L ) Genotypes in the arid conditions of the South of Italy. , in Proc. 2nd World Conference and Technology Exhibition on Biomass for Energy, Industry and Climate Protecion, . 2004. : Rome, . 7. V. Copani, S.L.C., G.M. D’Agosta, G. Testa Università di Catania, Italy, Yield and Development of Kenaf (Hibiscus Cannabinus L.) Crop in Relation to Genotype, Sowing Time and Plant Population in 2nd World Conference and Technology Exhibition on Biomass for Energy, Industry and Climate Protecion, . 2004 Rome, . 8. P. Venturi, A.M., G. Venturi University of Bologna, Italy, Evaluation of Harvesting and PostHarvesting Chains for Energy Destination of Switchgrass in 2nd World Conference and Technology Exhibition on Biomass for Energy, Industry and Climate Protecion, . 2004: Rome, . 9. N.G. Danalatos, S.A., P. Kalavriotou University of Thessaly, Volos, Greece, Potential Growth and Biomass Productivity of Kenaf (Hibiscus Cannabicus L.) under Central Greek Conditions: II.The Influence of Variety, Sowing Time and Plant Density in 2nd World Conference and Technology Exhibition on Biomass for Energy, Industry and Climate Protecion, . 2004 Rome, . 10. E. Alexopoulou, M.C., A. Nicholaou, M. Mardikis CRES, Pikermi, Greece, The influense of sowing time and plant population on Kenaf growth and yelds in 2nd World Conference and Technology Exhibition on Biomass for Energy, Industry and Climate Protecion, . 2004: Rome, . 11. Fernando, M.P.D., J. Morais, A. Catroga,, J.F.S.O. G. Serras, C. Universidade Nova de Lisboa, Portugal, S. Pizza, P. Università della Basilicata, Italy, V. Godovikova, and N. Russian Academy of Sciences, Russia, Characterization of Kenaf Potential in Portugal as an Industrial and Energy Feedstock- the Effect of Different Varieties, Sowing Dates, Plant Populations and Harvest Dates in 2nd World Conference and Technology Exhibition on Biomass for Energy, Industry and Climate Protecion, . 2004: Rome, . 12. Heinz, A., M. Kaltschmitt, R. Stülpnagel, and K. Scheffer, Comparison of moist vs. air-dry biomass provision chains for energy generation from annual crops. Biomass and Bioenergy, 2001. 20(3): p. 197-215. 13. Yoshikawa, K., R&D (Research and Development) on distributed power generation from solid fuels. Energy, 2006. 31(10-11): p. 1656-1665. 126 14. Hallam, A., I.C. Anderson, and D.R. Buxton, Comparative economic analysis of perennial, annual, and intercrops for biomass production. Biomass and Bioenergy, 2001. 21(6): p. 407424. 15. Venturi, P. and G. Venturi, Analysis of energy comparison for crops in European agricultural systems. Biomass and Bioenergy, 2003. 25(3): p. 235-255. 16. Monti, A. and G. Venturi, Comparison of the energy performance of fibre sorghum, sweet sorghum and wheat monocultures in northern Italy. European Journal of Agronomy, 2003. 19(1): p. 35-43. 17. Venturi, P., J.K. Gigler, and W. Huisman, Economical and technical comparison between herbaceous (Miscanthus x giganteus) and woody energy crops (Salix viminalis). Renewable Energy, 1999. 16(1-4): p. 1023-1026. 18. Lettens, S., B. Muys, R. Ceulemans, E. Moons, J. Garcia, and P. Coppin, Energy budget and greenhouse gas balance evaluation of sustainable coppice systems for electricity production. Biomass and Bioenergy, 2003. 24(3): p. 179-197. 19. Pehnt, M., Dynamic life cycle assessment (LCA) of renewable energy technologies. Renewable Energy, 2006. 31(1): p. 55-71. 20. Monti, A., S. Fazio, V. Lychnaras, P. Soldatos, and G. Venturi, A full economic analysis of switchgrass under different scenarios in Italy estimated by BEE model. Biomass and Bioenergy, 2007. 31(4): p. 177-185. 21. Cocco D., Comparative study on energy sustainability of biofuel production chains. J. Power and Energy:Part A, 2007. 221: p. 637-648. 22. McKendry, P., Energy production from biomass (part 1): overview of biomass. Bioresource Technology, 2002. 83(1): p. 37-46. 23. McKendry, P., Energy production from biomass (part 2): conversion technologies. Bioresource Technology, 2002. 83(1): p. 47-54. 24. http://wwwwds.worldbank.org/external/default/WDSContentServer/WDSP/IB/2006/04/24/000160016_200 60424184752/Rendered/PDF/esm3000051Biomass0Energy01PUBLIC1.pdf. 2005. 25. A. Hammerschmid, A.S., I. Obernberger, G. Bios Bioenergiesysteme, Austria, R. Piatkowski, and D. IDEA, Germany, Demonstration and Evaluation of an Innovative Small-Scale Biomass CHP Module Based on a 730 kWel Screw-Type Steam Engine in 2nd World Conference and Technology Exhibition on Biomass for Energy, Industry and Climate Protecion, . 2004: Rome, . 26. Demirbas, A., Combustion characteristics of different biomass fuels. Progress in Energy and Combustion Science, 2004. 30(2): p. 219-230. 27. McIlveen-Wright, D.R., B.C. Williams, and J.T. McMullan, A re-appraisal of wood-fired combustion. Bioresource Technology, 2001. 76(3): p. 183-190. 28. Sondreal, E.A., S.A. Benson, J.P. Hurley, M.D. Mann, J.H. Pavlish, M.L. Swanson, G.F. Weber, and C.J. Zygarlicke, Review of advances in combustion technology and biomass cofiring. Fuel Processing Technology, 2001. 71(1-3): p. 7-38. 29. Tillman, D.A., Biomass cofiring: the technology, the experience, the combustion consequences. Biomass and Bioenergy, 2000. 19(6): p. 365-384. 30. Hus, P.J. and D.A. Tillman, Cofiring multiple opportunity fuels with coal at Bailly Generating Station. Biomass and Bioenergy, 2000. 19(6): p. 385-394. 31. Wieck-Hansen, K., P. Overgaard, and O.H. Larsen, Cofiring coal and straw in a 150 MWe power boiler experiences. Biomass and Bioenergy, 2000. 19(6): p. 395-409. 32. Sami, M., K. Annamalai, and M. Wooldridge, Co-firing of coal and biomass fuel blends. Progress in Energy and Combustion Science, 2001. 27(2): p. 171-214. 33. Demirbas, A., Sustainable cofiring of biomass with coal. Energy Conversion and Management, 2003. 44(9): p. 1465-1479. 34. Baxter, L., Biomass-coal co-combustion: opportunity for affordable renewable energy. Fuel, 2005. 84(10): p. 1295-1302. 35. Hammerschmid, A.S., I. Obernberger, G. Bios Bioenergiesysteme, Austria, R. Piatkowski, and D. IDEA, Germany, Demonstration and Evaluation of an Innovative Small-Scale Biomass CHP Module Based on a 730 kWel Screw-Type Steam Engine in 2nd World Conference and Technology Exhibition on Biomass for Energy, Industry and Climate Protecion, . 2004: Rome, . 127 36. Drescher, U. and D. Brüggemann, Fluid selection for the Organic Rankine Cycle (ORC) in biomass power and heat plants. Applied Thermal Engineering, 2007. 27(1): p. 223-228. 37. Heinimö, J., M. YTI Research Centre, Finland, J.P.v. Buijtenen, G. Tri-O-Gen, The Netherlands, J. Backman, F. Lappeenranta University of Technology, A. Ojaniemi, J. Elomatic Papertech Engineering, Finland, H. Malinen, and F. Mikkeli Polytechnic, High-Speed ORC Technology for Distributed Electricity Production in 2nd World Conference and Technology Exhibition on Biomass for Energy, Industry and Climate Protecion, . 2004: Rome, . 38. P.T. Thonhofer, E.R.R., I.O. Obernberger, G. Bios Bioenergiesysteme, Austria, M.G. Gaia, B. Turboden, Italy, M.B. Born, and G. Technische Universität Bergakademie Freiberg, Demonstration of a Fuzzy Logic Controlled Biomass CHP Plant Based on a 1,000 kWel Organic Rankine Cycle - EU Demonstration Project Lienz (A), in 2nd World Conference and Technology Exhibition on Biomass for Energy, Industry and Climate Protecion,. 2004: Rome,. 39. Nishiyama, A., H. Shimojima, A. Ishikawa, Y. Itaya, S. Kambara, H. Moritomi, and S. Mori, Fuel and emissions properties of Stirling engine operated with wood powder. Fuel, 2007. 86(15): p. 2333-2342. 40. Corria, M.E., V.M. Cobas, and E. Silva Lora, Perspectives of Stirling engines use for distributed generation in Brazil. Energy Policy, 2006. 34(18): p. 3402-3408. 41. Kuosa, M., J. Kaikko, and L. Koskelainen, The impact of heat exchanger fouling on the optimum operation and maintenance of the Stirling engine. Applied Thermal Engineering, 2007. 27(10): p. 1671-1676. 42. Scollo, L., P. Valdez, and J. Barón, Design and construction of a Stirling engine prototype. International Journal of Hydrogen Energy, 2008. In Press, Corrected Proof. 43. Obara, S.y., I. Tanno, S. Kito, A. Hoshi, and S. Sasaki, Exergy analysis of the woody biomass Stirling engine and PEM-FC combined system with exhaust heat reforming. International Journal of Hydrogen Energy, 2008. 33(9): p. 2289-2299. 44. Kautz, M. and U. Hansen, The externally-fired gas-turbine (EFGT-Cycle) for decentralized use of biomass. Applied Energy, 2007. 84(7-8): p. 795-805. 45. Cocco, D., P. Deiana, and G. Cau, Performance evaluation of small size externally fired gas turbine (EFGT) power plants integrated with direct biomass dryers. Energy, 2006. 31(10-11): p. 1459-1471. 46. Schulte-Fischedick, J., V. Dreißigacker, and R. Tamme, An innovative ceramic high temperature plate-fin heat exchanger for EFCC processes. Applied Thermal Engineering, 2007. 27(8-9): p. 1285-1294. 47. Distributed Generation. A future for bio-oils. Power Engineering International, 2004. Vol. 12(N. 1). 48. Palm pilot leads the way. Power Engineering International, 2006. Vol. 14,: p. N.7. 49. Sioli, G., Italian liquid biofuel-fired plant a commercial succes. Wärtsilä Energy News, 2005. Vol. 21: p. pp. 30-31. 50. Stenger, W., Biofuels plants. Spouting up all over. Twentyfour7, 2007. Vol.2: p. pp. 30-34. 51. Legge 222 del 29.11.2007, “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 1° ottobre 2007 n. 159, recante interventi urgenti in materia economico-finanziaria, per lo sviluppo e l’equità sociale”. 2007, G.U. 279. 52. Legge 244 del 24.12.2007, “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008)”, . 2007, G.U. 300 del 28.12.2007. 53. Ahnger, A., ECC with internal combustion engines. Twentyfour7, 2007. Vol.2: p. pp. 4-6. 54. Agarwal, K., Biofuels (alcohol and biodiesel) applications as fuels for internal combustion engines. Progress in Energy and Combustion Science, 2007. vol. 33: p. pp. 233-271. 55. Altin R. , C.S., Yucesu H.S., The potential of using vegetable oil fuels as fuel for diesel engines. Energy Conversion and Management, 2001. Vol. 42: p. pp. 529-538. 56. De Almedia S.C.A, B., C.R Nascimento M.V.G., Vieira L.S.R , Fleury G., Performance of a diesel generator fuelled with palm oil,. Fuel, 2002. Vol. 81: p. pp.2097-2102. 57. Bari, S.L.T.H., Yu, , Effect of preheating of crude palm oil (CPO) on injection systems, performance and emissions of a diesel engine,. Renewable Energy, 2002. Vol 27: p. pp. 339351. 58. Tashtoush, M.I.A.-W., A.M. Albatayneh, Factorial analysis of diesel engine performance using different types of biofuels. Journal of Environmental Management,, 2007. Vol. 84: p. pp. 401411. 128 59. 60. 61. 62. 63. 64. 65. 66. 67. 68. 69. 70. 71. 72. 73. 74. 75. 76. 77. 78. 79. 80. 81. 82. 83. 84. Karaosmanoglu G. Kurt, T.O., Long term CI engine test of sunflower oil. Renewable Energy, 2000. Vol. 19: p. pp. 219-221. Crookes, Comparative bio-fuel performance in internal combustion engines. Biomass and Bioenergy, 2006. Vol. 30: p. pp. 461-468. Hebbal, K., Vijayakumar Reddy, K., Rajagopal,, Performance characteristics of a diesel engine with Deccan Hemp oil. Fuel, 2006. Vol. 85: p. pp. 2187-2194. Agarwal, A.K.A., Performance and emissions characteristics of Jatropha oil (preheated and blends) in a direct injection compression ignition engine. Applied Thermal Engineering,, 2007. Vol. 27: p. pp. 2314-2323. Wang, T.A.-S., P. Eames, J. McMullan, N. Hewitt, Y. Huang, S. Rezvani, An experimental investigation of the performance and gaseous exhaust emissions of a diesel engine using blends of a vegetable oil. Applied Thermal Engineering,, 2006. Vol. 26,: p. pp. 1684-1691,. Pugazhvadivu, K.J., Investigation on the performance and exhaust emissions of a diesel engine using preheated waste frying oil as fuel. Renewable Energy, 2005. Vol. 30: p. pp. 2189-2202. Cocco D., , , Produzione di energia elettrica dalla filiera del colza con impianti integrati basati su motori diesel e cicli a vapore. 63° Congresso Nazionale ATI 23-26 Settembre 2008, Palermo, 2008. Han, J. and H. Kim, The reduction and control technology of tar during biomass gasification/pyrolysis: An overview. Renewable and Sustainable Energy Reviews, 2008. 12(2): p. 397-416. Kirubakaran, V., V. Sivaramakrishnan, R. Nalini, T. Sekar, M. Premalatha, and P. Subramanian, A review on gasification of biomass. Renewable and Sustainable Energy Reviews, 2008. In Press, Corrected Proof. Devi, L., K.J. Ptasinski, and F.J.J.G. Janssen, A review of the primary measures for tar elimination in biomass gasification processes. Biomass and Bioenergy, 2003. 24(2): p. 125-140. McKendry, P., Energy production from biomass (part 3): gasification technologies. Bioresource Technology, 2002. 83(1): p. 55-63. Wang, L., C.L. Weller, D.D. Jones, and M.A. Hanna, Contemporary issues in thermal gasification of biomass and its application to electricity and fuel production. Biomass and Bioenergy, 2008. 32(7): p. 573-581. Kinoshita, C.M., Y. Wang, and J. Zhou, Tar formation under different biomass gasification conditions. Journal of Analytical and Applied Pyrolysis, 1994. 29(2): p. 169-181. Knight, R.A., Experience with raw gas analysis from pressurized gasification of biomass. Biomass and Bioenergy, 2000. 18(1): p. 67-77. Kumabe, K., T. Hanaoka, S. Fujimoto, T. Minowa, and K. Sakanishi, Co-gasification of woody biomass and coal with air and steam. Fuel, 2007. 86(5-6): p. 684-689. de Jong, W., J. Andries, and K.R.G. Hein, Coal/biomass co-gasification in a pressurised fluidised bed reactor. Renewable Energy, 1999. 16(1-4): p. 1110-1113. Valero, A. and S. Usón, Oxy-co-gasification of coal and biomass in an integrated gasification combined cycle (IGCC) power plant. Energy, 2006. 31(10-11): p. 1643-1655. Sutton, D., B. Kelleher, and J.R.H. Ross, Review of literature on catalysts for biomass gasification. Fuel Processing Technology, 2001. 73(3): p. 155-173. Rabou, L.P.L.M., Biomass tar recycling and destruction in a CFB gasifier. Fuel, 2005. 84(5): p. 577-581. Bhattacharya, S.C., A.H.M. Mizanur Rahman Siddique, and H.-L. Pham, A study on wood gasification for low-tar gas production. Energy, 1999. 24(4): p. 285-296. Li, C. and K. Suzuki, Tar property, analysis, reforming mechanism and model for biomass gasification--An overview. Renewable and Sustainable Energy Reviews, 2008. In Press, Corrected Proof. Garcia, L., M.L. Salvador, J. Arauzo, and R. Bilbao, CO2 as a gasifying agent for gas production from pine sawdust at low temperatures using a Ni/Al coprecipitated catalyst. Fuel Processing Technology, 2001. 69(2): p. 157-174. Pfeifer, C. and H. Hofbauer, Development of catalytic tar decomposition downstream from a dual fluidized bed biomass steam gasifier. Powder Technology, 2008. 180(1-2): p. 9-16. Pletka, R., R.C. Brown, and J. Smeenk, Indirectly heated biomass gasification using a latent heat ballast -- 1: experimental evaluations. Biomass and Bioenergy, 2001. 20(4): p. 297-305. Cummer, K.R. and R.C. Brown, Ancillary equipment for biomass gasification. Biomass and Bioenergy, 2002. 23(2): p. 113-128. Hasler, P. and T. Nussbaumer, Gas cleaning for IC engine applications from fixed bed biomass gasification. Biomass and Bioenergy, 1999. 16(6): p. 385-395. 129 85. 86. 87. 88. 89. 90. 91. 92. 93. 94. 95. 96. 97. 98. 99. 100. 101. 102. 103. 104. 105. 106. 107. 108. 109. Houben, M.P., H.C. de Lange, and A.A. van Steenhoven, Tar reduction through partial combustion of fuel gas. Fuel, 2005. 84(7-8): p. 817-824. Raskin, N., J. Palonen, and J. Nieminen, Power boiler fuel augmentation with a biomass fired atmospheric circulating fluid-bed gasifier. Biomass and Bioenergy, 2001. 20(6): p. 471-481. Sridhar, G., P.J. Paul, and H.S. Mukunda, Biomass derived producer gas as a reciprocating engine fuel--an experimental analysis. Biomass and Bioenergy, 2001. 21(1): p. 61-72. Wander, P.R., C.R. Altafini, and R.M. Barreto, Assessment of a small sawdust gasification unit. Biomass and Bioenergy, 2004. 27(5): p. 467-476. Klimantos, P., N. Koukouzas, A. Katsiadakis, and E. Kakaras, Air-blown biomass gasification combined cycles (BGCC): System analysis and economic assessment. Energy, 2008. In Press, Corrected Proof. Fiaschi, D. and R. Carta, CO2 abatement by co-firing of natural gas and biomass-derived gas in a gas turbine. Energy, 2007. 32(4): p. 549-567. Walter, A. and J. Llagostera, Feasibility analysis of co-fired combined-cycles using biomassderived gas and natural gas. Energy Conversion and Management, 2007. 48(11): p. 2888-2896. Rodrigues, M., A. Walter, and A. Faaij, Co-firing of natural gas and Biomass gas in biomass integrated gasification/combined cycle systems. Energy, 2003. 28(11): p. 1115-1131. Albertazzi, S., F. Basile, J. Brandin, J. Einvall, C. Hulteberg, G. Fornasari, V. Rosetti, M. Sanati, F. Trifirò, and A. Vaccari, The technical feasibility of biomass gasification for hydrogen production. Catalysis Today, 2005. 106(1-4): p. 297-300. Brown, D., M. Gassner, T. Fuchino, and F. Maréchal, Thermo-economic analysis for the optimal conceptual design of biomass gasification energy conversion systems. Applied Thermal Engineering, 2007. In Press, Corrected Proof. Stahl, K. and M. Neergaard, IGCC power plant for biomass utilisation, värnamo, Sweden. Biomass and Bioenergy, 1998. 15(3): p. 205-211. US DOE, Fuel Cell Handbook, Seventh edition. DOE/NETL, Morgantown, West Virginia, 2004. Singhal, S.C., Kendall, K., High Temperature Solid Oxide Fuel Cells. Fundamentals, Design and Applications. Elsevier Ed, 2003. Bove R., L.P., “Experimental comparison of MCFC performance using three different biogas types and methane”. Journal of Power Sources, 2005. Vol. 145, : p. pp. 588-593. Tomasi C., B.M., Bosio B., Arato E., Baggio P, Process analysis of a molten carbonate fuel cell power plant fed with a biomass syngas. Journal of Power Sources, 2006. Vol. 157: p. pp. 765774. Donolo G., D.S.G., Fermeglia M., “Steady state simulation of energy production from biomass by molten carbonate fuel cells. Journal of Power Sources,, 2006. Vol. 158,: p. pp. 1282-1289. Kivisaari T., B.P., Sylwan C., Jacquinot B., Jansen D., De Groot A., , , , “The feasibility of a coal gasifier combined with a high-temperature fuel cell”, . Chemical Engineering Journal,, 2004. Vol. 100: p. pp. 167-180. Maggio G., F.S., Cavallaro S, Light alcohols/methane fuelled molten carbonate fuel cells: a comparative study”. Journal of Power Sources, 1998. Vol. 74: p. pp. 17-23. Seitarides, T., C. Athanasiou, and A. Zabaniotou, Modular biomass gasification-based solid oxide fuel cells (SOFC) for sustainable development. Renewable and Sustainable Energy Reviews, 2008. 12(5): p. 1251-1276. Karellas, S., J. Karl, and E. Kakaras, An innovative biomass gasification process and its coupling with microturbine and fuel cell systems. Energy, 2008. 33(2): p. 284-291. Rhodes, J.S. and D.W. Keith, Engineering economic analysis of biomass IGCC with carbon capture and storage. Biomass and Bioenergy, 2005. 29(6): p. 440-450. Corti, A. and L. Lombardi, Biomass integrated gasification combined cycle with reduced CO2 emissions: Performance analysis and life cycle assessment (LCA). Energy, 2004. 29(12-15): p. 2109-2124. Saxena, R.C., D. Seal, S. Kumar, and H.B. Goyal, Thermo-chemical routes for hydrogen rich gas from biomass: A review. Renewable and Sustainable Energy Reviews, 2008. 12(7): p. 19091927. Lv, P., Z. Yuan, L. Ma, C. Wu, Y. Chen, and J. Zhu, Hydrogen-rich gas production from biomass air and oxygen/steam gasification in a downdraft gasifier. Renewable Energy, 2007. 32(13): p. 2173-2185. Ishida, Y., K. Kumabe, K. Hata, K. Tanifuji, T. Hasegawa, K. Kitagawa, N. Isu, Y. Funahashi, and T. Asai, Selective hydrogen generation from real biomass through hydrothermal reaction at relatively low temperatures. Biomass and Bioenergy, 2008. In Press, Corrected Proof. 130 110. 111. 112. 113. 114. 115. 116. 117. 118. 119. 120. 121. 122. 123. 124. 125. 126. 127. 128. 129. 130. 131. 132. 133. 134. 135. Karellas, S., E. Kakaras, T. Papadopoulos, C. Schäfer, and J. Karl, Hydrogen production from allothermal biomass gasification by means of palladium membranes. Fuel Processing Technology, 2008. 89(6): p. 582-588. Gasafi, E., M.-Y. Reinecke, A. Kruse, and L. Schebek, Economic analysis of sewage sludge gasification in supercritical water for hydrogen production. Biomass and Bioenergy, 2008. In Press, Corrected Proof. Koroneos, C., A. Dompros, and G. Roumbas, Hydrogen production via biomass gasification--A life cycle assessment approach. Chemical Engineering and Processing: Process Intensification, 2008. 47(8): p. 1261-1268. Kumabe, K., S. Fujimoto, T. Yanagida, M. Ogata, T. Fukuda, A. Yabe, and T. Minowa, Environmental and economic analysis of methanol production process via biomass gasification. Fuel, 2008. 87(7): p. 1422-1427. Güllü, D. and A. Demirbas, Biomass to methanol via pyrolysis process. Energy Conversion and Management, 2001. 42(11): p. 1349-1356. Ahlgren, S., A. Baky, S. Bernesson, Å. Nordberg, O. Norén, and P.A. Hansson, Future fuel supply systems for organic production based on Fischer-Tropsch diesel and dimethyl ether from on-farm-grown biomass. Biosystems Engineering, 2008. 99(1): p. 145-155. Prins, M.J., K.J. Ptasinski, and F.J.J.G. Janssen, Exergetic optimisation of a production process of Fischer-Tropsch fuels from biomass. Fuel Processing Technology, 2005. 86(4): p. 375-389. Hamelinck, C.N., A.P.C. Faaij, H. den Uil, and H. Boerrigter, Production of FT transportation fuels from biomass; technical options, process analysis and optimisation, and development potential. Energy, 2004. 29(11): p. 1743-1771. Hamelinck, C.N. and A.P.C. Faaij, Future prospects for production of methanol and hydrogen from biomass. Journal of Power Sources, 2002. 111(1): p. 1-22. Chmielniak, T. and M. Sciazko, Co-gasification of biomass and coal for methanol synthesis. Applied Energy, 2003. 74(3-4): p. 393-403. Semelsberger, T.A., R.L. Borup, and H.L. Greene, Dimethyl ether (DME) as an alternative fuel. Journal of Power Sources, 2006. 156(2): p. 497-511. Galindo Cifre, P. and O. Badr, Renewable hydrogen utilisation for the production of methanol. Energy Conversion and Management, 2007. 48(2): p. 519-527. Zhang, Q., J. Chang, T. Wang, and Y. Xu, Review of biomass pyrolysis oil properties and upgrading research. Energy Conversion and Management, 2007. 48(1): p. 87-92. Zhang, S., Y. Yan, T. Li, and Z. Ren, Upgrading of liquid fuel from the pyrolysis of biomass. Bioresource Technology, 2005. 96(5): p. 545-550. Czernik, S., R. Evans, and R. French, Hydrogen from biomass-production by steam reforming of biomass pyrolysis oil. Catalysis Today, 2007. 129(3-4): p. 265-268. Chiaramonti, D., A. Oasmaa, and Y. Solantausta, Power generation using fast pyrolysis liquids from biomass. Renewable and Sustainable Energy Reviews, 2007. 11(6): p. 1056-1086. Goyal, H.B., D. Seal, and R.C. Saxena, Bio-fuels from thermochemical conversion of renewable resources: A review. Renewable and Sustainable Energy Reviews, 2008. 12(2): p. 504-517. Biofuels Technology Platform - Strategy Research Agenda & Strategy Deployment document. 2008. EEA Briefing. Transport biofuels: exploring links with the energy and agriculture sectors. 2004. Knote, G. and R.O. Dunn, Biodiesel: An alternative diesel fuel from vegetable oils or animal fats, in Industrial Use of Vegetable Oils, S.Z. Erhan, Editor. 2005, AOCS Press: Champaign. Van Gerpen, J. and G. Knothe, Basics of the Transesterification Reaction, in The Biodiesel Handbook, G. Knothe, J. Krahl, and J. Van Gerpen, Editors. 2005, AOCS Press: Champaign. p. 26-41. Knothe, G., J. Van Gerpen, and J. Krahl, eds. The Biodiesel handbook. 2005, AOCS Press: Champaign. Freedman, B., R. Butterfield, and E. Pryde, Transesterification kinetics of soybean oil 1. Journal of the American Oil Chemists' Society, 1986. 63(10): p. 1375-1380. Freedman, B., E. Pryde, and T. Mounts, Variables affecting the yields of fatty esters from transesterified vegetable oils. Journal of the American Oil Chemists' Society, 1984. 61(10): p. 1638-1643. Mittelbach, M. and C. Remschmidt, Biodiesel - The Comprehensive Handbook. 2nd ed. 2005, Graz: Martin Mittelbach Publisher. Knothe, G., Oxidative stability of Biodiesel, in The Biodiesel Handbook, G. Knothe, J. Krahl, and J. Van Gerpen, Editors. 2005, AOCS Press: Champaign. 131 136. 137. 138. 139. 140. 141. 142. 143. 144. 145. 146. 147. 148. 149. 150. 151. 152. 153. 154. 155. 156. 157. 158. 159. Dunn, R.O., Cold weather properties and performance of biodiesel, in The Biodiesel handbook, G. Knothe, J. Van Gerpen, and J. Krahl, Editors. 2005, AOCS Press: Champaign. p. 83-121. Nye, M., T. Williamson, W. Deshpande, J. Schrader, W. Snively, T. Yurkewich, and C. French, Conversion of used frying oil to diesel fuel by transesterification: Preliminary tests. Journal of the American Oil Chemists' Society, 1983. 60(8): p. 1598-1601. Hsu, A.-F., K. Jones, T.A. Foglia, and W.N. Marmer, Immobilized lipase-catalysed production of alkyl esters of restaurant grease as biodiesel. Biotechnol. Appl. Biochem., 2002. 36: p. 181186. Watanabe, Y., Y. Shimada, A. Sugihara, and Y. Tominaga, Enzymatic conversion of waste edible oil to biodiesel fuel in a fixed-bed bioreactor. J. Am. Oil Chem. Soc., 2001. 78: p. 703707. Nelson, L.A., T.A. Foglia, and W.N. Marmer, Lipase-catalyzed production of biodiesel. J. Am. Oil Chem. Soc., 1996. 73: p. 1191-1195. Shah, S., S. Sharma, and M.N. Gupta, Biodiesel preparation by lipase-catalyzed transesterification of jatropha oil. Energy and Fuels, 2004. 18: p. 154-159. Shah, S. and M.N. Gupta, Lipase catalyzed preparation of biodiesel from Jatropha oil in a solvent free system. Process Biochemistry, 2007. 42(3): p. 409-414. De Oliveira, D., M. Di Luccio, C. Faccio, C. Dalla Rosa, J.P. Bender, N. Lipke, S. Menoncin, C. Amroginski, and J.V. De Oliveira, Optimization of enzymatic production of biodiesel from castor oil in organic solvent medium. Appl. Biochem. Biotechnol., 2004. 113-116: p. 771-780. Chisti, Y., Biodiesel from microalgae. Biotechnology Advances, 2007. 25(3): p. 294-306. Banerjee, A., R. Sharma, Y. Chisti, and U.C. Banerjee, Botryococcus braunii: A Renewable Source of Hydrocarbons and Other Chemicals. Critical Reviews in Biotechnology, 2002. 22(3): p. 245-279. Chisti, Y., Biodiesel from microalgae beats bioethanol. Trends in Biotechnology, 2008. 26(3): p. 126-131. Tredici, M.R. Colture massive di microalghe: calamità o risorsa? http://www.georgofili.it/uploaded/570.pdf 2006 [cited. Molina Grima, E., F.G.A. Fernández, F. García Camacho, and Y. Chisti, Photobioreactors: light regime, mass transfer, and scaleup. Journal of Biotechnology, 1999. 70(1-3): p. 231-247. Gavrilescu, M. and Y. Chisti, Biotechnology--a sustainable alternative for chemical industry. Biotechnology Advances, 2005. 23(7-8): p. 471-499. A Look Back at the U.S. Department of Energy’s Aquatic Species Program:Biodiesel from Algae. http://www1.eere.energy.gov/biomass/pdfs/biodiesel_from_algae.pdf [cited. Fillières, R., B. Benjelloun-Mlayah, and M. Delmas, Ethanolysis of rapeseed oil: Quantitation of ethyl esters, mono-, di-, and triglycerides and glycerol by high-performance size-exclusion chromatography. Journal of the American Oil Chemists' Society, 1995. 72(4): p. 427-432. Salis, A., M. Pinna, M. Monduzzi, and V. Solinas, Biodiesel production from triolein and short chain alcohols through biocatalysis. J. Biotechnol., 2005. 119: p. 291-299. Kouzu, M., T. Kasuno, M. Tajika, Y. Sugimoto, S. Yamanaka, and J. Hidaka, Calcium oxide as a solid base catalyst for transesterification of soybean oil and its application to biodiesel production. Fuel, 2008. 87(12): p. 2798-2806. Ramos, M.J., A. Casas, L. Rodríguez, R. Romero, and Á. Pérez, Transesterification of sunflower oil over zeolites using different metal loading: A case of leaching and agglomeration studies. Applied Catalysis A: General, 2008. In Press, Corrected Proof. Benjapornkulaphong, S., C. Ngamcharussrivichai, and K. Bunyakiat, Al2O3-supported alkali and alkali earth metal oxides for transesterification of palm kernel oil and coconut oil. Chemical Engineering Journal, 2008. In Press, Corrected Proof. Suwannakarn, K., E. Lotero, J.G. Goodwin Jr, and C. Lu, Stability of sulfated zirconia and the nature of the catalytically active species in the transesterification of triglycerides. Journal of Catalysis, 2008. 255(2): p. 279-286. Park, Y.-M., D.-W. Lee, D.-K. Kim, J.-S. Lee, and K.-Y. Lee, The heterogeneous catalyst system for the continuous conversion of free fatty acids in used vegetable oils for the production of biodiesel. Catalysis Today, 2008. 131(1-4): p. 238-243. MacLeod, C.S., A.P. Harvey, A.F. Lee, and K. Wilson, Evaluation of the activity and stability of alkali-doped metal oxide catalysts for application to an intensified method of biodiesel production. Chemical Engineering Journal, 2008. 135(1-2): p. 63-70. Albuquerque, M.C.G., I. Jiménez-Urbistondo, J. Santamaría-González, J.M. Mérida-Robles, R. Moreno-Tost, E. Rodríguez-Castellón, A. Jiménez-López, D.C.S. Azevedo, C.L. Cavalcante Jr, 132 160. 161. 162. 163. 164. 165. 166. 167. 168. 169. 170. 171. 172. 173. 174. 175. 176. 177. 178. 179. 180. 181. 182. and P. Maireles-Torres, CaO supported on mesoporous silicas as basic catalysts for transesterification reactions. Applied Catalysis A: General, 2008. 334(1-2): p. 35-43. Ni, J. and F.C. Meunier, Esterification of free fatty acids in sunflower oil over solid acid catalysts using batch and fixed bed-reactors. Applied Catalysis A: General, 2007. 333(1): p. 122-130. Suppes, G., K. Bockwinkel, S. Lucas, J. Botts, M. Mason, and J. Heppert, Calcium carbonate catalyzed alcoholysis of fats and oils. Journal of the American Oil Chemists' Society, 2001. 78(2): p. 139-146. Leclercq, E., A. Finiels, and C. Moreau, Transesterification of rapeseed oil in the presence of basic zeolites and related solid catalysts. Journal of the American Oil Chemists' Society, 2001. 78(11): p. 1161-1165. Pinto, A.C., L.L.N. Guarieiro, M.J.C. Rezende, N.M. Ribeiro, E.A. Torres, W.A. Lopes, P.A.d.P. Pereira, and J.B. de Andrade, Biodiesel: an Overiview. J. Braz. Chem. Soc., 2005. 16: p. 13131330. Vicente, G., A. Coteron, M. Martinez, and J. Aracil, Application of the factorial design of experiments and response surface methodology to optimize biodiesel production. Industrial Crops and Products, 1998. 8(1): p. 29-35. Kaita, J., T. Mimura, N. Fukuoka, and Y. Hattori, Catalyst for transesterification, in US patent. 2001: US. Jaeger, K.-E. and T. Eggert, Lipases for biotecnology. Curr. Opin. Biotechnol., 2002. 13: p. 390397. Pandey, A., S. Benjamin, C.R. Soccol, P. Nigam, N. Krieger, and V.T. Soccol, The realm of microbial lipases in biotechnology. Biotechnol. Appl. Biochem., 1999. 29: p. 119-131. Vermue, M.H. and J. Tramper, Biocatalysis in non-conventional media: medium engineering aspects. Pure Appl. Chem., 1995. 67: p. 345-373. Salis, A., M. Monduzzi, and V. Solinas, Enzymes for biocatalysis in non aqueous media, in Biocatalysis: Chemistry and Biology, A. Trincone, Editor. 2005, Research Signpost: Kerala. p. 29-53. Salis, A., M. Monduzzi, and V. Solinas, Use of lipases for the production of Biodiesel, in Industrial Enzymes, J. Polaina and A.P. MacCabe, Editors. 2007, Springer: Dordrecht. Mittlebach, M., Lipase catalyzed alcoholysis of sunflower oil. J. Am. Oil Chem. Soc., 1990. 67: p. 168-170. Soumanou, M.M. and U.T. Bornscheuer, Lipase-catalyzed alcoholysis f vegetable oils. Eur. J. Lipid Sci. Technol., 2003. 105: p. 656-660. Bélafi-Bakó, K., F. Kovács, L. Gubicza, and J. Hancsók, Enzymatic biodiesel production from sunflower oil by Candida antarctica lipase in a solvent-free system. Biocatal. Biotransf., 2002. 20: p. 437-439. Selmi, B. and D. Thomas, Immobilized lipase-catalyzed ethanolysis of sunflower oil in a solvent free medium. J. Am. Oil Chem. Soc., 1998. 75: p. 691-695. Yesiloglu, Y., Immobilized lipase-catalyzed ethanolysis of sunflower oil. J. Am. Oil Chem. Soc., 2004. 81: p. 157-160. Soumanou, M.M. and U.T. Bornscheuer, Improvement in lipase-catalyzed synthesis of fatty acid methyl esters from sunflower oil. Enzyme Microb. Technol., 2003. 33: p. 97-103. Kaieda, M., T. Samukawa, A. Kondo, and H. Fukuda, Effect of methanol and water contents on production of biodiesel fuel from plant oil catalyzed by various lipases in a solvent-free system. J. Biosci. Bioeng., 2001. 91: p. 12-15. Samukawa, T., M. Kaieda, T. Matsumoto, K. Ban, A. Kondo, Y. Shimada, H. Noda, and H. Fukuda, Pretreatment of immobilized Candida antarctica lipase for biodiesel fuel production from plant oil. J. Biosci. Bioeng., 2000. 90: p. 180-183. Du, W., Y. Xu, and D. Liu, Lipase-catalysed transesterification of soya bean oil for biodiesel production during continuous batch operation. Biotechnol. Appl. Biochem., 2003. 38: p. 103106. Xu, Y., W. Du, J. Zeng, and D. Liu, Conversion of soybean oil to biodiesel fuel using lipozyme TL IM in a solvent-free medium. Biocatal. Biotransf., 2004. 22: p. 45-48. Noureddini, H., X. Gao, and R.S. Philkana, Immobilized Pseudomonas cepacia lipase for biodiesel fuel production from soybean oil. Biores. Technol., 2005. 96: p. 769-777. Kaieda, M., T. Samukawa, T. Matsumoto, K. Ban, A. Kondo, Y. Shimada, H. Noda, F. Nomoto, K. Ohtsuka, E. Izumoto, and H. Fukuda, Biodiesel fuel production from plant oil catalyzed by rhizopus oryzae lipase in a water-containing system without an organic solvent. J. Biosci. Bioeng., 1999. 88: p. 627-631. 133 183. 184. 185. 186. 187. 188. 189. 190. 191. 192. 193. 194. 195. 196. 197. 198. 199. 200. 201. 202. 203. 204. 205. 206. Watanabe, Y., Y. Shimada, A. Sugihara, and Y. Tominaga, Conversion of degummed soybean oil to biodiesel fuel with immobilized Candida antarctica lipase. J. Mol. Catal. B: Enzym., 2002. 17: p. 151-155. Shimada, Y., Y. Watanabe, T. Samukawa, A. Sugihara, H. Noda, H. Fukuda, and Y. Tominaga, Conversion of vegetable oil to biodiesel using immobilized Candida antarctica lipase. J. Am. Oil Chem. Soc., 1999. 76: p. 789-793. Watanabe, Y., Y. Shimada, A. Sugihara, H. Noda, H. Fukuda, and Y. Tominaga, Continuous production of biodiesel fuel from vegetable oil using immobilized Candida antarctica lipase. J. Am. Oil Chem. Soc., 2000. 77: p. 355-360. Abigor, R.D., P.O. Uaudia, T.A. Foglia, M.J. Hass, K.C. Jones, E. Okpefa, J.U. Obibuzor, and M.E. Bafor, Lipase-catalysed production of biodiesel fuel from some Nigerian lauric oils. Biochemical Society Transactions, 2000. 28: p. 979-981. Köse, O., M. Tüter, and H.A. Aksoy, Immobilized Candida antartica lipase-catalyzed alcoholysis of cotton seed oil in a sovent-free medium. Biores. Technol., 2002. 83: p. 125-129. Soumanou, M.M. and U.T. Bornscheuer, Lipase-catalyzed alcoholysis of vegetable oils. Eur. J. Lipid Sci. Technol., 2003. 105: p. 656-660. Kamini, N.R. and H. Iefuji, Lipase catalyzed methanolysis of vegetable oils in aqueous medium by Cryptococcus spp. S-2. Process Biochem, 2001. 37: p. 405-410. Lai, C.-C., S. Zullaikah, R.S. Vali, and Y.-H. Ju, Lipase catalyzed production of biodiesel from rice bran oil. J. Chem. Technol. Biotechnol., 2005. 80: p. 331-337. Lee, K.-T., T.A. Foglia, and K.-S. Chang, Production of alkyl ester as biodiesel from fractionated lard and restaurant grease. J. Am. Oil Chem. Soc., 2002. 79: p. 191-195. Hsu, A.-F., K.C. Jones, T.A. Foglia, and W.N. Marmer, Continuous production of ethyl esters of grease using an immobilized lipase. J. Am. Oil Chem. Soc., 2004. 81: p. 749-752. Salis, A., M. Pinna, M. Monduzzi, and V. Solinas, Comparison among immobilised lipases on macroporous polypropylene toward biodiesel synthesis. Journal of Molecular Catalysis B: Enzymatic, 2008. 54(1-2): p. 19-26. Chen, J.-W. and W.-T. Wu, Regeneration of immobilized Candida antarctica lipase for transesterification. J. Biosci. Bioeng., 2003. 95: p. 466-469. Du, W., Y. Xu, J. Zeng, and D. Liu, Novozym 435-catalysed transesterification of crude soya bean oil for biodiesel production in a solvent-free medium. Biotechnol. Appl. Biochem., 2004. 40: p. 187-190. Tuter, M., H.A. Aksoy, E.E. Gilbaz, and E. Kursun, Synthesis of fatty acid esters from acid oils using lipase B from Candida antarctica. Eur. J. Lipid Sci. Technol., 2004. 106: p. 513-517. Chang, H.-M., H.-F. Liao, C.-C. Lee, and C.-J. Shieh, Optimized synthesis of lipase-catalyzed biodiesel by Novozym 435. J. Chem. Technol. Biotechnol., 2005. 80: p. 307-312. Dossat, V., D. Combes, and A. Marty, Continuous enzymatic transesterification of high oleic sunflower oil in a packed bed reactor: influence of the glycerol production. Enzyme Microbial Technol., 1999. 25: p. 194-200. Shieh, C.-J., H.-F. Liao, and C.-C. Lee, Optimisation of lipase-catalyzed biodiesel by response surface methodology. Biores. Technol., 2003. 88: p. 103-106. Pedersen, S. and M.W. Christensen, Immobilized biocatalysts, in Applied biocatalysis, A.J.J. Straathof and P. Adlercreutz, Editors. 2000, Harwood Academic Publishers: Amsterdam. p. 213228. Adlercreutz, P., R. Barros, and E. Wehtje, Immobilisation of enzymes for use in organic media. Annals NY Accad. Sci., 1996. 795: p. 197-200. Reetz, M.T., Entrapment of biocatalysts in hydrophobic sol-gel materials for use in organic chemistry. Adv. Mater., 1997. 9: p. 943-953. Salis, A., E. Sanjust, V. Solinas, and M. Monduzzi, Characterisation of Accurel MP1004 polypropylene powder and its use as a support for lipase immobilisation. J. Mol. Catal. B: Enzym., 2003. 24-25: p. 75-82. Orcaire, O., P. Buisson, and A.C. Pierre, Application of silica aerogel encapsulated lipases in the synthesis of biodiesel by transesterification reactions. J. Mol. Catal. B: Enzym., 2006. 42(34): p. 106-113. Yagiz, F., D. Kazan, and A.N. Akin, Biodiesel production from waste oils by using lipase immobilized on hydrotalcite and zeolites. Chemical Engineering Journal, 2007. 134(1-3): p. 262267. Macario, A., G. Giordano, L. Setti, A. Parise, J.M. Campelo, J.M. Marinas, and D. Luna, Study of lipase immobilization on zeolitic support and transesterification reaction in a solvent freesystem. Biocatal. Biotransf., 2007. 25(2-4): p. 328-335. 134 207. 208. 209. 210. 211. 212. 213. 214. 215. 216. 217. 218. 219. 220. 221. 222. 223. 224. 225. 226. 227. 228. 229. 230. 231. Iso, M., B. Chen, M. Eguchi, T. Kudo, and S. Shrestha, Production of biodiesel fuel from triglycerides and alcohol using immobilized lipase. J. Mol. Catal. B: Enzym., 2001. 16: p. 53-58. Gelleti, R., R. Jodice, G. Mauro, D. Migliardi, D. Picco, M. Pin, E. Tomasinsig, and L. Tommasoni, Energia dalle biomasse. Le tecnologie, i vantaggi per i processi produttivi, i valori economici e ambientali. 2006, Trieste: Consorzio per l’AREA di ricerca scientifica e tecnologica di Trieste - AREA Science Park. Piraccini, M. and F.P. Ausiello, Bioetanolo da canna da zucchero, mais e lignocellulosa. ARPA Rivista, 2006: p. 58-59. INRA, TEAGSC Crop Research Center, McALoon, NREL,. 2000. Demirbas, A., Progress and recent trends in biofuels. Progress in Energy and Combustion Science, 2007. 33(1): p. 1-18. Sheoran, S., B.S. Yadav, P. Nigam, and D. Singh, Continuous ethanol production from sugarcane molasses using a column reactor immobilized Saccharomyces cerevisiae HAU-1”. Journal of basic microbiology, 1999. 38: p. 123-128. Bullock, G.E., Ethanol from Sugarcane. 2002, Sugar Research Institute: Australia p. 192 Goyes, A. and G. Bolaños. Un estudio preliminar sobre el tratamiento de vinazas en agua supercrítica. in XXIII Congreso Colombiano de Ingeniería Química. 2005 Manizales, Colombia. Carrascosa, A.V., Production of ethanol under high osmotic pressure conditions comprises a microorganism for fermentation of molasses must. 2006. Claassen, P.A.M., J.B. van Lier, A.M. Lopez Contreras, E.W.J. van Niel, L. Sijtsma, A.J.M. Stams, S.S. de Vries, and R.A. Weusthuis, Utilisation of biomass for the supply of energy carriers. Applied Microbiology and Biotechnology, 1999. 52(6): p. 741-755. Lee, W.-C. and C.-T. Huang, Modeling of ethanol fermentation using Zymomonas mobilis ATCC 10988 grown on the media containing glucose and fructose. Biochemical Engineering Journal, 2000. 4(3): p. 217-227. Sánchez, Ó.J. and C.A. Cardona, Trends in biotechnological production of fuel ethanol from different feedstocks. Bioresource Technology, 2008. 99(13): p. 5270-5295. Baltz, R.A., A.F. Burcham, O.C. Sitton, and N.L. Book, The recycle of sulfuric acid and xylose in the prehydrolysis of corn stover. Energy, 1982. 7(3): p. 259-265. Castro, F.B., P.M. Hotten, and E.R. Ørskov, The potential of dilute-acid hydrolysis as a treatment for improving the nutritional quality of industrial lignocellulosic by-products. Animal Feed Science and Technology, 1993. 42(1-2): p. 39-53. Sokhansanj, S., A. Turhollow, J. Cushman, and J. Cundiff, Engineering aspects of collecting corn stover for bioenergy. Biomass and Bioenergy, 2002. 23(5): p. 347-355. Kim, S. and B.E. Dale, Life cycle assessment of various cropping systems utilized for producing biofuels: Bioethanol and biodiesel. Biomass and Bioenergy, 2005. 29(6): p. 426-439. Theander, O., in Fundamentals of thermochemical biomass conversion, R. Overand, T. Mile, and L. Mudge, Editors. 1985, Elsevier Applied Science Publisher: New York. Ballesteros, M., J.M. Oliva, M.J. Negro, P. Manzanares, and I. Ballesteros, Ethanol from lignocellulosic materials by a simultaneous saccharification and fermentation process (SFS) with Kluyveromyces marxianus CECT 10875. Process Biochemistry, 2004. 39(12): p. 18431848. Ballesteros, I., J. Oliva, M. Negro, P. Manzanares, and M. Ballesteros, Ethanol production from olive oil extraction residue pretreated with hot water. Applied Biochemistry and Biotechnology, 2002. 98-100(1): p. 717-732. Hamelinck, C.N., G.v. Hooijdonk, and A.P.C. Faaij, Ethanol from lignocellulosic biomass: techno-economic performance in short-, middle- and long-term. Biomass and Bioenergy, 2005. 28(4): p. 384-410. Sun, Y. and J. Cheng, Hydrolysis of lignocellulosic materials for ethanol production: a review. Bioresource Technology, 2002. 83(1): p. 1-11. Wooley, R., M. Ruth, D. Glassner, and J. Sheehan, Process design and costing of bioethanol technology: A tool for determining the status and direction of research and development. Biotechnology Progress, 1999. 15(5): p. 794-803. Galbe, M. and G. Zacchi, A review of the production of ethanol from softwood. Applied Microbiology and Biotechnology, 2002. 59(6): p. 618-628. Lynd, L.R., P.J. Weimer, W.H. van Zyl, and I.S. Pretorius, Microbial cellulose utilization: Fundamentals and biotechnology. Microbiology and Molecular Biology Reviews, 2002. 66(3): p. 506. Kumar, A., J.B. Cameron, and P.C. Flynn, Pipeline transport and simultaneous saccharification of corn stover. Bioresource Technology, 2005. 96(7): p. 819-829. 135 232. Hari Krishna, S., K. Prasanthi, G.V. Chowdary, and C. Ayyanna, Simultaneous saccharification and fermentation of pretreated sugar cane leaves to ethanol. Process Biochemistry, 1998. 33(8): p. 825-830. 233. Alkasrawi, M., T. Eriksson, J. Börjesson, A. Wingren, M. Galbe, F. Tjerneld, and G. Zacchi, The effect of Tween-20 on simultaneous saccharification and fermentation of softwood to ethanol. Enzyme and Microbial Technology, 2003. 33(1): p. 71-78. 234. ITABIA, Le biomasse per l’energia e l’ambiente. 2004, Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio,. 235. Zimbardi, F., E. Viola, A. Gallifuoco, De Bari I., M. Cantarella, D. Barisano, and G. Braccio, Overview of the bioethanol production. 2002, ENEA - Università degli Studi de L’Aquila. 236. Zeeman G. and Lettinga G., The role of anaerobic digestion of domestic sewage in closing the water and nutrient cycle at community level. Water Sci & Tech, 1999. 39(5): p. 187-194. 237. Lettinga G. Hulshoff-Pol L.W., a.Z.G., Lecture notes: Biological Wastewater Treatment; Part I Anaerobic Wastewater Treatment. 1999, Wageningen University and Research: Wageningen, The Netherlands. 238. Lallai A., M.G.a.R.S. Fluid flow patterns in upflow anaerobic filters. in Proceedings, p., Proceeding of the European Meeting on Chemical Industry and Environment. 1996. Alghero (Italy). 239. Kennedy J.L., D.R.L., Startup of anaerobic downflow stationary fixed film(DSFF) reactors. Biotechnology and Bioengineering, 1985. 27: p. 1152-65. 240. Van den Berg L., K.K.J., Samson R.,, Anaerobic downflow sttionary fixed film reactor: performance under steady-state and non-steady conditions. Water Science and Technology, 1985. 17(1): p. 89-102. 241. Rajeshwari K. V., B.M., AKansai, Kusum Lata, Kishore V. V. N., State-of-the-art of anaerobic digestion technology for industrial wastewater treatment. Renewable and Sustainable Energy Reviews, 2000. 4: p. 135-156. 242. Perez M., R.L.I., Sales D.,, Comparative performance of high rate anaerobic thermophilic technologies treating industrial wastewater. Water Research, 1998. 32(3): p. 559-64. 243. Collivignarelli C., U.G., Farneti A., Bassetti A., Barbaresi U.,, Economic removal of organic and nutrient substances from municipal wastewater with full-scale UASB, fluidized and fixed-bed reactors. Water Science and Technology, 1991. 24(7): p. 89-95. 244. Lettinga G. Design, operation and economy of anaerobic treatment. in Proceeding of a specialized seminar of the IWAPRC. 1982. Copenhagen, Denmark. 245. Lettinga G. Anaerobic reactor technology. in Lecture notes by Prof. G. Lettinga in Interational Course on Anaerobic Wastewater Treatment. 1995. Wageningen Agriculture University Delft the Netherlands. 246. Sanz J.L., R.N.a.A.R., Effect of chlorinated aliphatic hydrocarbons on the acetoclastic methanogenic activity of granular sludge. Appl. Microbiol. Biotechnol., 1997. 47: p. 324-328. 247. Gelleti R., J.R., Mauro G., Migliardi D., Picco D., Pin M., Tomasinsig E., Tommasoni L.,, Energia dalle biomasse. Le tecnologie, i vantaggi per i processi produttivi, i valori economici e ambientali. 2006, Consorzio per l’AREA di ricerca scientifica e tecnologica di Trieste AREA Science Park. Progetto Novimpresa: Trieste. p. 1-261. 248. Mata-Alvarez J., M.S., Llabrés P.,, Anaerobic digestion of organic solid wastes. An overview of research achievements and perspectives. Bioresource Technology, 2000. 74: p. 3-16. 249. Nguyen P.H.L., K.P., Visvanathan C.,, Anaerobic digestion of municipal solid waste as a treatment prior to landfill. Bioresource Technology, 2007. 98: p. 380–387. 250. Tilche, A., Malaspina, F.C. Biogas production in Europe. in Paper presented at the 10th European Conference Biomass for Energy and Industry. 1998. Wurzburg, Germany. 251. RISE-AT, Review of Current Status of Anaerobic Digestion Technology for Treatment of Municipal Solid Waste. 1998, Regional Information Service Center for South East Asia on Appropriate Technology Institute of Science and Technology Research and Development Chiang Mai University: Chiang Mai. p. 1-30. 252. Verma S., Anaerobic digestion of biodegradable organics in municipal solid wastes, in Department of Earth & Environmental Engineering (Henry Krumb School of Mines) Fu Foundation School of Engineering & Applied Science. 2002, Columbia University. p. 1-50. 253. Kayhanian, M., Biodegradability of the organic fraction of municipal solid waste in a high solids anaerobic digester. Waste Management & Researchy, 1995. 13: p. 123-136. 254. Biogas from Municipal Solid Waste – Overview of Systems and markets for 136 Anaerobic Digestion of MSW. Bioenergy, Energy. 1996, Greenline, International Energy Agency, Recovery from MSW Task, Anaerobic Digestion Activity, Report . 255. Dayanthi, W.K.C.N., Visvanathan, C., Tränkler, J., Kuruparan, P.,. Pretreatment of domestic solid waste by enhanced leaching. in Proceedings of 3rd Asian PaciWc LandWll Symposium (APLAS). 2004. Japan. 256. Mata-Alvarez, J., Biomethanization of the organic fraction of municipal solid wastes., ed. I. Publishing. 2003. 257. Biey, E.M., Musibono, E.D., Verstraete, W.,, Start-up of a multi-stage system for biogas production and solid waste treatment in low-tech. countries. Water Science and Technology, 2003. 48(4): p. 1–8. 258. Mata-Alvarez, J., Cecchi, F.,, A review of kinetic models applied to the anaerobic biodegradation of complex organic matter. Kinetics of the biometahnization of organic fractions of municipal solid waste. Biotechnology and Biodegradationering. Portfolio Publ. Comp., ed. D. Kamely, Chackrobordy, A., Ommen., G.S.,. 1990. 27-54. 259. Costello, D.J., Greeneld, P.F., Lee, P.L.,, Dynamic modelling of a single-stage high-rate anaerobic reactor. I Model derivation. Water Res, 1991. 25(7): p. 847-855. 260. Alatriste-Mondragon F., S.P., Cox H.H.J., Ahring B.K., Iranpour R.,, Anaerobic codigestion of municipal, farm, and industrial organic wastes: A survey of recent literature. Water Environment Research, 2006. 78(6): p. 607-636. 261. Ahring B.K., A.I., and Johansen K.,, Anaerobic Treatment of Manure Togheder With Organic Industrial Waste. Water Science and Technology, 1992. 7: p. 311-318. 262. Misi S.N., F.C.F., Batch co-digestion of multi-component agro-wastes. Bioresource Technology, 2001. 80: p. 19-28. 263. Pahl O., F.A., MacLeod I., Bairdÿ J.,, Anaerobic co-digestion of mechanically biologically treated municipal waste with primary sewage sludge – A feasibility study. Bioresource Technology, 2008. 99: p. 3354-3364. 264. Lallai, A., Loi, G., Mura, G., Vargiu, L. Anaerobic treatment of landfill leachate using a fixed film reactor. in Proceedings Sardinia, 95, Fifth International Landfill Symposium,. 1995. Cagliari, Italy CISA. 265. Lallai A., M.G., Filtri anaerobici a basso carico per il trattamento dei reflui acquosi dei frantoi oleari. Ing. Amb., 1996. 25(9): p. 485-491. 266. Andrews J.F., A mathematica model for the continuous culture of microorganism utilizing inibitory substrates. Biotechnology and Bioengineering, 1969. 10: p. 707-723. 267. Angelidaki I., E.L., Ahring B.K.,, A mathematical model for dynamic simulation of anaerobic digestion of complex substrates: focussing on ammonia inhibitor. Biotechnology and Bioengineering, 1993. 42: p. 159-166. 268. Zouari N., E.R., Toxic effect of coloured olive compounds on anaerobic digestion of olive oil mill effluent in UASB-like reactors. J. Chem. Tech. Biotech., 1996. 66: p. 414-420. 269. Aveni A., Biogas recovery from olive oil mill wastewater by anaerobic digestion., ed. F.M.P. Rreffero G.L., and Naveau H. 1984, Essex: Elsevier Applied Science Pubblisher. 489-491. 270. Boari G., B.A., Passino R. and Rozzi A.,, Anaerobic digestion of olive oil mill wastewaters. Agricul. Wastes, 1984. 10: p. 161-175. 271. Boari G., M.I.M., and Trulli E.,, Anaerobic digestion of olive oil mill effluent pretreated and stored in municipal solid waste sanitary landfills. Water Science and Technology, 1984. 28: p. 27-34. 272. Holliger C., The Anaerobic microbiology and biotreatment of chlorinated ethenes. Current Opinion Biotechnol., 1995. 6: p. 347-351. 273. Mohn W.W. and Tiedje J.M., Microbial reductive dehalogenation. Microbiol. Rev., 1992. 56(3): p. 482-507. 274. Eekert M.H.A. van, Gratuitous dechlorination of chloroethanes by methanogenic granular sludge. Appl. Microbiol. Biotechnol., 1999. 51: p. 46-52. 275. Speece R.E., Anaerobic Biotechnology for Industrial Wastewaters., ed. A. Press. 1996, Nashville, USA. 276. Grotenhuis J.T.C., P.C.M., Stams A.J.M. and Zehnder A.J.B., Hydrophobicities and electrophoretic mobilities of anaerobic bacterial isolates from methanigenic granular sludge. App. Environ.Microbiol., 1992. 58: p. 1054-1056. 277. Navarrete M., R.N., Amils R. and Sanz J.L.,, Effect of 1,1,1,2-TetraChloroEthane on the performance of upflow anaerobic sludge bed (UASB) reactors. Water Sci & Tech, 1999. 40(8): p. 153-159. 137 278. 279. 280. 281. 282. 283. 284. 285. 286. 287. 288. Lallai A. , e.a. Degradazione di clorofenoli mediante colture anaerobiche miste. in Atti del Congresso GrICU. 1998. Ferrara (Italy). Vallecillo A., G.-E.P.A.a.P.M., Anaerobic biodegradability and toxicity of chlorophenols. Water Science Technology, 1999. 40(8): p. 161-168. Lallai A., M.G., Onnis N., The effects of certain antibiotics on biogas production in the anaerobic digestion of pig waste slurry. Biotechnology and Bioresource, 2002. 82: p. 205-208. Kapdan I.K., K.F., Bio-hydrogen production from waste materials. Enzyme and Bicrobial Technology, 2006. 38: p. 569-582. Ren N.Q., C.H., Chan S.Y., Tsang Y.F., Wang Y.J. ,Sin N.,, Assessing optimal fermentation type for bio-hydrogen production in continuous-flow acidogenic reactors. Bioresource Technology, 2006. Hawkes F.R., D.R., Hawkes D.L., Hussy I.,, Sustainable fermentative hydrogen production: challenges for process optimisation. International Journal of Hydrogen Energy, 2002. 27: p. 1339-1347. Andreozzi R., L.G., Majone M. and Modesti G.,, Integrated treatment of olive oil mill effluents (OME): study of ozonation coupled with anaerobic digestion. Wat. Res., 1998. 32(8): p. 23572364. Khoufi S., A.F., Sayadi S.,, Treatment of olive oil mill wastewater by combined process electroFenton reaction and anaerobic digestion. Water Research, 2006. 40: p. 2007-2016. Ihara I., U.K., Kanamura K., Watanabe T.,, Electrochemical oxidation of the effluent from anaerobic digestion of dairy manure. Bioresource Technology, 2006. 97: p. 1360-1364. Fernàndez B., S.L., Ruiz-Filippi G., Roca E., Tarenzi L., and Lema J.M.,, Characterization, management and treatment of wastewater from white wine production. Water Sci & Tech, 2007. 58(2): p. 121-128. Beccari M., M.M., Dionisi D., Donadio A., D'Addario E.N., and Sbardellati R.,, High-rate anaerobic-aerobic biological treatment of a wastewater from a Fischer-Tropsch process. 138