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VIVARIUM.VIV
di Mario Rotta
PROLOGO
La porta del trionfo incombe alla fine della scala mobile della metropolitana, oscurando
una parte del cielo. Speravo di rivedere l'azzurro dell'atmosfera e il verde dei platani
dopo il buio delle gallerie, ma un cancello di pietra chiude l'orizzonte. Su tutte le città
vegliano i propilei. Non importa per quale ragione sono stati costruiti, nei secoli dei
secoli. Esistono per ricordarti che l'ingresso è pericoloso. E sono tutti uguali: tre file di
colonne, capitello corinzio, architrave gigantesco, sporgente, cornicioni carichi di frutta
pietrificata e ghirlande di piccole foglie. Un sarcofago. L'unico cielo raggiungibile dalla
rampa è quello allo zenith, ma è velato dalla nebbia, che ancora non si è staccata
dalla madre terra. L'unico cielo visibile è uno sbarramento di marmo. E in cima, al
posto delle nuvole, un carro tenuto a freno da una donna cinta di lauro, le vesti al
vento, le mani strette sulle redini per trattenere, senza sforzo apparente, giganteschi
cavalli alati e muscolosi, tesi nel galoppo, protesi nel volo, sul punto di vincere l'attrito
del bronzo e la forza di gravità del mondo. Anche la pariglia avanza in una spessa
coltre di nebbia, questa mattina, fitta come una rappresentazione dello scorrere del
tempo. Anche qui, come in ogni altro luogo del mondo, le porta del trionfo imprigiona,
nega la libertà di godere della visione della distanza, senza neppure muoversi, senza
girare su uno stipite, senza bisogno di alcuna serratura. Non c'è chiave che possa
aprirla. E'il confine ideale di questa parte della terra, il limite di roccia e di metallo
posto da chi ha osato farsi divinità a guardia del territorio proibito dove a lui solo è
concesso decidere della vita e della morte. Sembrerebbe eterna, mura che si sono
generate da sole all'inizio della storia, se il marmo non fosse scorticato dai decenni e il
bronzo non fosse venato come un'impuro smeraldo. Sotto le colonne, l'archivolto è a
cassettoni fioriti, un prato rovesciato di stemmi illeggibili, rosette d'acanto, musi
protesi di grifoni e mostri di forma imperfetta. I passi risuonano cupi e tombali. Il sole
non penetra, nemmeno si insinua, amoroso come sa essere, simile alle note di un
concerto di viola, tra un varco e l'altro a illuminare la polvere e a ricordarci che non
siamo altro che poverissime presenze, un lampo, nulla di più che un lampo di chiarore
nell'oscurità. Non si può guardare in alto passando sotto la forca della porta del
trionfo. Il pavimento, piuttosto, attira lo sguardo del passante, inchioda i suoi occhi
vuoti sulle sue scarpe fangose. Immagino che ci sia un'orribile vuoto sotto il lastrico,
un labirinto di gallerie fumose che si estendono come la tela di un ragno sotto l'intera
città vecchia. Forse nascondono soldati in agguato, gli automi di una guarnigione
senza ombra di anima e di pietà, armati fino ai denti, pronti a sparare sui fuggitivi
distratti e su quei pochi che sanno esattamente che cosa significa attraversare di corsa
il colonnato per passare dalla prima alla seconda piazza, rompendo l'antico divieto.
Piazze deserte, tutte e due, di pietre chiare, e scivolose entrambe di guano di colomba
e chiazze di pioggia venate di riflessi di benzina. La porta del trionfo è simmetrica. Il
fronte dell'entrata non è diverso da quello dell'uscita. Solo la donna alata segue una
sua direzione. Il trionfo che canta è quello della morte che spia dietro il pilastro. Della
paura e dell'inganno che abitano sotto il terreno. Ma non mi dispiace, di tanto in tanto,
sottomettermi per qualche minuto al suo giogo imparziale. La piazza che cela appare
irragionevolmente più grande di quello che è, e per questo sembra più libera, quasi un
altro mondo. Splendida, la immagino, se solo potessi, anzichè strisciare al livello del
suolo, innalzarmi sopra la vittoria sorretto da un braccio meccanico, e vederla apparire
deserta, vasta come in una antica veduta a volo d'uccello o sul telone di un cinema.
Da quell'altezza potrei perfino scoprire che cosa si nasconde nella cornucopia della dea
coronata che cavalca il carro, e quale simbolo sta in cima al bastone che tiene
appoggiato accanto alle redini, se una corona di mirto o un serpente intrecciato con un
serpente in modo che ognuno morda la coda dell'altro. E leggerei finalmente quelle
parole incise sopra la cornice lungo il perimetro dell'architrave, così consumate dal
tempo e dalla pioggia che da quaggiù non si possono più interpretare. Disciolte dai
secoli, affogate nella nebbia. La distanza tra il colonnato e lo scalone è abbastanza
grande da poter essere misurata. La piazza è vasta, e non sono sufficienti quattro
povere aiuole di gerani appena piantati a renderla più umana e più intima, nè a
scandirne l'immaginario ritmo. Quando i fiori sbocceranno e una moltitudine di colori
coprirà il verde sbiadito delle erbe rasate, si avrà forse l'impressione che le piazze
diventino tante quanti sono gli spazi di selciato tra l'una e l'altra chiazza fiorita. Ma
adesso che nessun fiore spunta dai bulbi e dalle lance violacee piantate sul terriccio
appena arato, bruno come quello che si getta sui morti, non è possibile ripartire
l'intera distesa che separa la porta del trionfo dal timpano del museo in stanze più
consone alla nostra visione. Non potrebbe nemmeno un geometra, abituato
istintivamente a calcolare le distanze e le forme. E'come se tutto fosse stato
attentamente studiato per farci sentire perduti: la porta grigia e opprimente, le strette
ombre tra le colonne, e poi l'enorme vuoto da attraversare in ogni sua direzione prima
di raggiungere l'entrata di un qualsiasi edificio. Come se l'opportunità della
conoscenza potesse aprirsi solo a chi è capace di sottostare al macabro gioco di una
riflessione sulla morte, e poi di non perdersi nel vuoto che da essa scaturisce, o che
dietro di essa si svela. Ho constatato altre volte che questa distanza, in apparenza così
incolmabile, può essere percorsa in un arco di tempo relativamente breve, e che esso
sembra assai più breve di quello necessario per superare le tre colonne del grande
portale alato e vittorioso. Il vuoto dello spazio non evoca i pensieri, e il tempo che
trascorre senza che nulla si possa immaginare non è che un susseguirsi di attimi
uguali: è un attimo solo, una durata inesistente. Forse, se provassi a tracciare su una
pianta il percorso che compio dall'uscita della metropolitana allo scalone d'ingresso del
museo, otterrei una di quelle illusioni per cui il segmento più lungo di una linea retta,
opportunamente spezzato da linee trasversali, sembra più breve, mentre quello libero
da ogni punto di riferimento, benchè più corto, risulta all'inganno dell'occhio più lungo
di quanto effettivamente non sia. Così, la piazza sembra più piccola di ciò che sembra,
e il colonnato della porta più grande, contrariamente a ciò che è in realtà. La logica
fallisce di fronte all'immaginazione: per restituire la sua grandezza a questo enorme
quadrato privo di punti di riferimento, dovremmo sforzarci di considerarlo un oggetto
frattale, la cui delimitazione dipenda dal punto di vista da cui si osserva, ovvero da un
presupposto totalmente immaginario: definire la piazza, insomma, è una specie di
gioco. Il tentativo di restituire al tempo, che trascorre inutilmente mentre la
attraversiamo, lo spazio che scioccamente crediamo indispensabile alla sua
comprensione. Quando l'uno, invece, si evolve e si distende indifferente all'altro, e si
lascia intersecare solo per puro caso, e mai due volte nello stesso modo, perfino nelle
medesime circostanze. Così va il mondo, senza una ragione, e noi con lui, in un punto
qualsiasi. Ma finalmente sono in fondo alle scale. Tutte le arti mi osservano, mentre
salgo i gradini. Ne conto uno. E le statue sembrano anchilosate negli spioventi del
timpano. Ne conto due. E Atena si appoggia alla lancia, dividendo le maggiori dalle
minori. Ne conto tre. E penso che anche Archiloco si appoggiava alla sua lancia, ma
solo perchè le gambe gli si piegavano dopo l'ultimo bicchiere di vino. Ne conto
quattro. E constato che i frontoni dei musei non brillano in bellezza. Ne conto cinque.
E non so spiegarmi perchè la musica voli, mentre la scultura è costretta a rannicchiarsi
in un angolo come un guerriero inginocchiato. Ne conto sei. E da questa posizione
vedo solo piedi sporgenti, e il braccio della poesia che indica il cielo. Conto l'ultimo. E
calcolo che ne ho contati sette, maledetto numero. Sono arrivato presto, stamani. I
vetri stanno scattando in questo momento. Staccano per me il primo biglietto della
giornata. Devo assolutamente conservarlo. Ma è marcato F 437211. Non è logico. Vuol
dire che non sono il primo, pur essendolo. Il mio biglietto è solo il primo di oggi e
l'ultimo di ieri, uno dei tanti della settimana, del mese, dell'anno, dell'intera vita del
museo. Una cifra senza significato. Non posso nemmeno dire con certezza di essere il
quattrocentotrentasettemiladuecentoundicesimo visitatore. Perchè non sono sicuro che
ci sia veramente il biglietto A 000001. Dovrebbe esserci, dovrebbe esserci stato. Ma
non l'ho mai visto. Visito molti musei. Cerco sempre di arrivare all'ingresso poco dopo
l'orario di apertura. Ma non sono mai stato classificato primo. Non ho mai avuto
questa soddisfazione. Nessuno, forse, l'ha avuta. Chiamiamolo assioma di Von Klenze:
il biglietto numero uno non esiste. Corollario: visitando un museo, ogni individuo
occupa una posizione intermedia e non può essere collocato con precisione nella
totalità della serie, poichè non se ne conoscono il principio e la fine. Credo che
all'uscita lo butterò via, come tutti i biglietti. O meglio, butterò via ciò che ne resta,
visto che nel frattempo il guardiano me l'ha strappato di mano e me l'ha restituito
tagliato in due. Paradosso di Schinckel: ammesso che il primo biglietto della serie
esista, il visitatore non può usarlo se vuole dimostrarne l'esistenza; così, di fatto, non
potrà essere il primo visitatore, poichè se scegliesse di esserlo perderebbe la prova, se
invece volesse conservarla non lo sarebbe mai più. Assurdo, vero. Ma che importa ?
Anche se vengo considerato un numero qualsiasi, provo ogni volta la stessa emozione
a entrare nel tempio della civiltà. Salgo sempre volentieri il grande scalone di marmo
variopinto, scorrendo la mano sulle balaustre dorate. E il grande fregio che in alto
incorona il perimetro dello spazio mi appare ancora bellissimo. Sono arrivato,
finalmente. L'allestimento della mostra è molto sobrio. Lo immaginavo diverso. I
quadri sono appesi alle grandi pareti bianche, in questi saloni immensi, in queste bolle
di luce chiara filtrata dai lucernari. Nient'altro. Quadri chiusi nelle loro cornici, così
come la stessa parete, per quanto smisurata, è delimitata dai cornicioni di mattoni e di
legno dipinto a greche. Da qualche tempo, mi accorgo di non riuscire più a seguire la
sequenza di un'esposizione. Le cornici dei dipinti e i piedistalli delle sculture mi
appaiono come confini invalicabili. Ogni oggetto resta un mondo a sè. Lo interpreto
come una frase compiuta, come un capitolo chiuso. I quadri, nel loro insieme, hanno
certamente un unico significato e nascondono un solo racconto, e il curatore sa bene
quali sono gli elementi che stabiliscono l'ordine di lettura che lui stesso ha deciso. Ma
non riesco più a percepirlo. Se resto al centro della sala e osservo l'insieme da lontano
colgo soltanto le chiazze dei colori e l'entropia delle forme. Se mi avvicino a un'opera
mi perdo al suo interno, e la cornice mi impedisce di uscire dalla nitidezza dei singoli
particolari. L'uno e l'altro punto di vista insieme non costituiscono un metodo. A meno
che la memoria non riesca ad annodare tra loro gli elementi comuni di ogni lavoro
esposto con uno di quei fili invisibili e perfetti che a volte sa tessere. Allora potrei
calarmi nei singoli quadri indipendentemente dalla loro stessa collocazione, ignorando
le frecce delle transenne e la numerazione delle didascalie. Potrei scoprire gli infiniti
legami che rimandano dall'uno all'altro particolare perfino procedendo a caso. La
libertà è tutta lì. Il resto sono convenzioni dettate dall'utilità pratica, come stabilire in
un catalogo dove comincia la mostra, e dove finisce: non esiste un solo modo di
misurare il disordine. Posso perdermi come voglio nel caos, devo perdermi, se voglio
costruire un cosmo a mia immagine e somiglianza. La libertà è tutta lì. Non può essere
rinchiusa tra un ingresso e un'uscita. Dove comincia una mostra ? Quando comincia
una storia ? E'impossibile stabilirlo con esattezza. Ogni sua parte vale quanto l'altra, e
il suo valore non è mai quello che ci sembrava naturale che fosse. Ci sono mostre che
cominciano nella prima sala e si sviluppano lungo un percorso segnato da una striscia.
E ci sono vicende umane che, apparentemente, iniziano a partire da un anno, da un
giorno, o da un preciso momento. Ma nessuno può dire se altri fatti, ancora
sconosciuti, abbiano determinato gli eventi in precedenza, o se nel racconto siano stati
trascurati dettagli che avrebbero potuto mutarne il corso. Così come nessuno può
sentirsi certo della completezza di un'esposizione. Sono entrato nel museo per
lasciarmi accompagnare da un lucido schema. Ma la mia memoria si rifiuta di seguirlo.
Teme gli equivoci della logica. Le assurdità della misurazione dello spazio. Le trappole
della scansione del tempo. La storia che vorrei ripercorrere potrebbe aver avuto inizio
molto tempo prima di quello che a me sembra, oppure essersi sviluppata molto tempo
dopo l'apparente finale, continuare ancora ad evolversi senza che possa, non dico
intervenire sulla sua soluzione, ma neppure raccontarne il seguito. Nemmeno il
contorno della vita del protagonista, dal momento certo della sua nascita, fino a quello
della sua morte apparente, può definirne esattamente i limiti, poichè l'attimo della
morte è sempre incerto e confuso, e non è detto che sia. Sono venuto qui sperando
che una fredda sequenza di oggetti potesse aiutarmi a ricucire senza lasciarmi
trascinare dalle emozioni ciò che credevo una sequenza di avvenimenti. Ma ora che sto
per cominciare vedo con chiarezza che tutto quello che so e tutto quello che mi hanno
riferito non sono altro che quadri incorniciati appesi alle pareti di un palazzo così
grande che ci potrei vagare all'infinito. E non so più in quale direzione muovere il
primo passo.
Kaspar David Friedrich
Scogliere bianche a Rugen
Olio su tela, 1818
Winterthur, Stiftung Oskar Reinhart
Oggi è il 21 di maggio. Auguri a tutti quelli che si chiamano Vittorio e a tutti quelli che
si chiamano Valente e Teopompo, ammesso che ce ne siano. I nati illustri sono niente
di meno che Dante Alighieri, il sommo poeta, e il pittore tedesco Albrecht Durer. La
massima del giorno è una frase dell'oratore greco Alcifròne, o Alcìfrone: l'arroganza si
vince con l'indifferenza. Meditate, meditate. Matteo spense la radio in quello stesso
istante. E se in un giorno di primavera un passante sconosciuto, scivolando ai confini
di un baratro, sfiorasse la vostra tranquilla esistenza e vi lasciasse sconvolti e turbati ?
Questa è la storia di Matteo, che avrebbe potuto dimenticare rapidamente le emozioni
di un incontro, ma che invece inseguì il fuggitivo che aveva conosciuto
occasionalmente fino alla fine apparente dell'avventura. Quando Matteo sorrideva le
labbra gli si allargavano verso gli zigomi regalando al suo viso una particolare
espressione, di soddisfazione e rassegnazione insieme: ricordava quella delle statue
antiche, che non perdevano la calma arcuata della bocca nè quando erano vive e
amavano le femmine stuprate, nè quando morivano fulminate dalle armi o dagli occhi
degli dei. Matteo aveva diciannove anni, e gli capitava di non rendersi conto di dove si
trovasse, ogni volta che, inginocchiato come un arabo in preghiera, grattava la terra
per riscoprire le tracce dei suoi amati fossili, dopo milioni e milioni di anni. Quel giorno
trovò un frammento che scambiò per una rara testimonianza della presenza in quella
zona della salamandra gigante denominata Andrias Scheuchzer. Scrisse il primo
scopritore di quel particolarissimo animale, il cui cranio ricorda quello di un uomo
schiacciato o un elmo da guerriero, che esso manifestava la verità del diluvio
universale, riconosciuta da molti secoli. Ma si sbagliava, come erronea fu
l'interpretazione di Matteo, benché nell'uno e nell'altro caso le tracce di un cataclisma
fossero visibili nel paesaggio. Soltanto allora Matteo si guardò intorno e riconobbe il
luogo. Alle sue spalle vide i boschi di abeti, del colore intenso dello smeraldo, eterni e
inamovibili, i quercioli rigidi che crescevano all'ombra degli immensi castagni, i faggi e
i lecci sensibili alle più piccole folate di vento e mutevoli nelle stagioni, e nell'arco di
una giornata, ignari di tutto ciò che ci accade. Sulla sua testa tendevano gli ultimi
rami per benedirlo benevoli, e si sentì incantato fino alla commozione. Lui,
giovanissimo, sul ciglio dei calanchi di marna, franosi e fragili dirupi, chiari nella luce
chiara, scuri nella luce scura, si alzò appoggiandosi a una corteccia per perdersi nella
lontananza. Credendosi uomo, orma raggelata e delimitata impronta, volle elevarsi
toccando rocce orfane. Immaginando la distesa del mare. Amava il silenzio che
portava l'odore dell'erba, prima che fosse calpestata dalle sedie pieghevoli e dagli
asciugamani, dai bambini che schiacciano le formiche per uccidere la noia e dai palloni
di gommapiuma. Dai cappelli volati alle signore, dai capelli allargati sulla coperta delle
ragazze che non lo consideravano. Quasi tutti i giorni saliva su quella montagna.
Possedeva soltanto la sua curiosità, e l'assoluta verginità dello spirito. Era ricchissimo,
perchè non aveva ancora speso il periodo della vita che tutti ricordano, ma troppo
tardi, come irripetibile: poteva permettersi di assaporare il tempo goccia dopo goccia,
senza rimorsi, senza paura di averlo sprecato. Sappiamo come si sente Matteo, in
questo momento. Come un antico pastore che domina con lo sguardo il suo mondo
semideserto, segnato dalle rughe della lava dei vulcani, e prova compassione per la
monotonia della vita del suo gregge, la sola pietà capace di attenuare la rabbia per
essere costretto, consapevole ma senza volerlo, a condividerne la sorte. Solo e
pensoso. Aveva camminato lungo il costone di un pascolo fino a una collina
abbastanza alta: le punte degli alberi la circondavano come popolani accalcati sotto le
mura del castello del re, e la montagna scendeva verso valle ballando su cento
pinnacoli, che lasciavano passare un fiume. Il solco del letto ondeggiava come se non
volesse nemmeno urtarli: un millennario scambio di cortesie regolava quel rapporto
d'amore e di odio tra l'acqua e la terra. Infine si era fermato sulle forre d'argilla, come
se non si trovasse nel cuore di un continente, ma lungo le coste scoscese di un isola
perduta, battuta dal vento più gelido. Rovine spoglie e lavate dalle piogge. Rosate
come le dolomiti. Coincidevano con l'immagine del paesaggio primordiale che anche
lui, inconsciamente, conservava impressa nella memoria. Si leggeva sui giornali che
sotto alcuni di quei calanchi erano state costruite delle capanne di lamiera. Ma da
quell'altezza era impossibile vedere lo scempio, anche perchè al mattino una densa
foschia azzurra galleggiava sotto il cielo limpido e copriva ogni segno della presenza
umana. Matteo, cercatore di fossili, suggestionabile, poco più che un ragazzo, ora
lascia correre la sua immaginazione: vede le ossa dei dinosauri e delle tigri dai denti a
sciabola, sepolte sotto metri di terreno, ricomporsi miracolosamente, e gli animali
estinti passeggiare sotto le foglie cuoriformi degli alberi mutanti. Vede una donna,
improvvisamente apparsa, l'onnipresente ninfa del luogo, ammansire le belve con un
gesto della mano. Probabilmente crede che soltanto la visione di un orizzonte
vastissimo e puro consenta alla mente di raggiungere i pensieri più elevati. Ma anche
quei pensieri, quali che siano stati, non possono durare. La foschia si dirada. Appare,
nitido, lontano, il ponte della ferrovia: sette arcate rosse. Ora Matteo può decidere ciò
che vuole. Qualunque destino gli è concesso. Cercare altri fossili. Leggere lo zen e
l'arte della manutenzione della motocicletta. Respirare profondamente l'aria pura.
Ripassare le schede dell'esame della patente di guida. Accarezzare l'erba. E tutto ciò
che è inutile. Invece, arrivò un uomo.
Michelangelo Merisi da Caravaggio
Vocazione di San Matteo
Olio su tela
Roma, chiesa di San Luigi dei Francesi
"Scalabrino. Mi chiamo Scalabrino."
La voce ruppe il silenzio, così innocente e nitida che Matteo non ebbe neppure il tempo
di trasalire. Come una spada di luce di sole che entra dalla porta nel buio di una
stanza, fragorosa e chiara, leggerissima spuma di una rapida. La storia deve
cominciare con un tuono, e il suo cupo rimbombo si dovrà avvertire fino alla fine. O
con un nome, che dovrà insinuarsi in tutte le pieghe del libro, più forte di un tuono.
"Scalabrino. Questo è il mio nome. Vorrei confidarti un segreto, vorrei che tu mi
ascoltassi per un attimo soltanto."
Matteo alzò la testa, sicuro di vedere un bambino. L'orizzonte era scomparso, il luogo
dell'incontro era stato invaso da elegantissimi sconosciuti, spuntati dal nulla, ovvero
dalla incomprensibile molteplicità della vita della terra, mentre era assorto e
incosciente. Quelle parole semplici, dirette, immediate, quelle richieste ingenue,
dettate apparentemente da naturale curiosità, solo un bambino poteva averle
pronunciate. O un pazzo. Non certo a me erano rivolte, tra tutti i presenti, pensò
Matteo. Ma non era quella la verità. Mise a fuoco con qualche sforzo, accecato dalla
luce, un uomo che forse avrà avuto trent'anni, alto, vestito di nero, magro, senza
segni particolari. I suoi capelli erano troppo lunghi per essere stati curati negli ultimi
tre mesi, ma la barba era corta, perfetta, come se negli stessi mesi qualcuno l'avesse
spuntata e pettinata ogni giorno, con pazienza e con amore. Io, Matteo, ammise, non
conosco quest'uomo. Non so chi sia.
"Per favore, non giudicare male il mio comportamento. Ammetto di essermi presentato
bruscamente. So che decidere di parlare con qualcuno significa violare il suo territorio.
Ma in che altro modo avrei potuto farmi notare ? "
Matteo riconobbe i contorni del personaggio ritagliati nella sua stessa ombra, quasi
sospesi nell'aria, come se l'uomo fosse arrivato volando. Accennava appena ad un
movimento delle labbra. Aspettava un segnale di disponibilità. Era evidente che gli
altri, le improvvise apparizioni, non erano che ombre ai suoi occhi malinconici.
Tuttavia, aveva ancora l'impressione che avesse sbagliato interlocutore, che cercasse
un predestinato che in quel momento era assente, e che solo per errore si fosse rivolto
proprio a lui. Gli ricordò, nell'espressione, uno sfortunato viaggiatore che ha
finalmente trovato il meccanico capace di far ripartire la sua motocicletta, e non sa
come ringraziarlo. Gli sembrò invisibile agli occhi di tutti, ma non ai suoi. Era fermo, in
piedi, annegato in un controluce opaco, a un passo, con il braccio destro alzato, che
ancora accompagnava le parole che erano uscite dalla sua bocca verso l'inevitabile
destinatario. In lui crepitava informe e lucido ogni sguardo, ogni parola rimaneva
alata, benevola e regale, lasciando intatte nuove opportunità. L'aria aveva perso ogni
spessore. Non era quella tiepida e dolce della primavera, nè quella bollente e ansiosa
dell'estate, nè quella fresca e ossigenata dell'autunno, nè quella immobile e gelida
dell'inverno. Il ciclo delle stagioni era stato annullato. L'aria era diventata immateriale,
incolore, inodore e insapore, come acqua distillata, e un silenzio così leggero
l'accompagnava, che a Matteo parve di sentire dentro la testa un acuto sibilo, un
ronzio bassissimo, costante. Come il rumore della mente quando è accesa, ma sta
aspettando istruzioni che non arrivano, quel sottofondo vitale che rimbalza da una
parte all'altra del cervello creando geometrie complesse e che non possiamo avvertire
perchè è tanto esile che ogni forma di rapporto con la realtà lo copre e lo oscura, ogni
battuta sulla tastiera della volontà può cancellarlo. Secondi, minuti, forse ore intere
passarono prima che lo sconosciuto parlasse ancora. Quando la luce è immobile, e
quando è immobile la mente, il tempo non trascorre.
"Ascoltami - disse infine - non posso spiegarti tutto in poche parole. Ti chiedo solo un
po'di attenzione. Non sono un pazzo. Non voglio neppure conoscere il tuo nome. Credo
che capirai, se sei sensibile come sembri."
"Cosa le fa credere che l'ascolterò ?" Disse bruscamente Matteo. Audace, eppure con
reverenza, senza inutili scortesie, girandosi verso il cono d'ombra molto lentamente.
"Se tu non fossi ben disposto verso gli altri mi avresti già mandato via, o insultato.
Avresti finto di essere uno tra i tanti, assorto nei tuoi finti pensieri. Diffidente per
abitudine."
Il ragionamento apparteneva al ristretto dominio dell'ineccepibile, pensò Matteo. O
alla sfera inesatta delle sensazioni inspiegabili. Ma lo sconosciuto proseguì:
"Senza che tu te ne accorgessi, ti ho osservato a lungo. Non è facile vedere un
ragazzo che arriva a commuoversi immergendosi in ciò che lo circonda. Che conserva
e custodisce la sua solitudine ignorando le situazioni e le cose che possono disturbarlo.
E che ha il coraggio di rimanere in silenzio anche quando è circondato da infinite voci
che raccontano infinite e futili storie. Non so chi sei, ma immaginarti così mi piace. Ho
fiducia in te, e spero di essere contraccambiato."
Quel diavolo di apparizione non commetteva errori. Dalle sue labbra potevano uscire
come fiamme altre rivelazioni esatte. Matteo riuscì a scorgere nei suoi occhi che quasi
una lacrima stava per calare sulle sue guance. Ora lo sconosciuto Scalabrino, venuto
dall'ombra, non era più in piedi, e non lo chiamava. Si era inginocchiato in avanti,
vicino a lui, il prescelto, e con una mano stava toccando delicatamente la terra. Forse
era un angelo.
Hyeronimus Bosch
Trittico del Giudizio
Olio su tavola
Bruges, Groeninge Museum
Non è detto che una conoscenza occasionale diventi amicizia. Ogni persona che
incontriamo è un potenziale nemico, o può diventarlo col passare degli anni. Il minimo
dubbio potrebbe innalzare un muro. Ma tutto questo, Matteo, non volle pensarlo. Era
troppo giovane per temere gli altri. E lo stato delle cose seguì il suo corso. La
diffidenza fu eliminata sul nascere, e i misteriosi ingranaggi del meccanismo della
simpatia si misero in movimento. Disse Scalabrino:
"Lo sai dove siamo inginocchiati ? Lo sai che cos'è quest'avvallamento del terreno,
proprio qui, davanti a noi ?"
Matteo cercò invano di comprendere il significato di quelle parole, e si sforzò di
ripercorrere il tempo all'indietro, di tornare a qualche attimo prima dell'apparizione
dello sconosciuto e ritrovare così la grandezza dell'orizzonte e i connotati del luogo.
Non aveva notato il particolare che Scalabrino stava indicando: una piccola valle nella
terra bruna, circolare, larga una decina di metri, profonda tre o quattro, ricoperta degli
stessi sterpi e forse - ma era necessaria molta attenzione per accorgersene - segnata,
sfigurata da qualche sasso in più. Una piccola bizzarria della natura, certamente, di cui
si coglieva, però, immediatamente, la regolarità dei contorni, che come tale ha sempre
qualcosa di artificiale.
"E'il cratere di una bomba." Disse ancora Scalabrino.
E quelle poche parole crepitarono in Matteo: bomba è un termine onomatopeico che
molti poeti trovano affascinante. Ma a lui sembrò terribile.
"Non è facile capirlo perchè dopo tanti anni l'erba è ricresciuta. Ma è proprio il cratere
di una bomba, il segno di una grossa esplosione, forse una bomba di cannone. Ce ne
sono parecchi, su queste montagne. Quando ero bambino mio padre mi portava qui, e
me li indicava. Non parlava volentieri di certe cose, ma ogni volta che riconosceva un
cratere si fermava, e mi diceva: spero che tu non sappia mai cos'è la guerra."
Matteo sentì che qualcosa era cambiato intorno a loro, che il paesaggio non era più lo
stesso: l'orizzonte, diradata la nebbia, si tingeva di fuochi e di rovine. Provò a
ricostruire in quella piccola valle di sterpi una scena di paura e di orrore, gente che
scappa, sangue che scorre, feriti sepolti dalle macerie, morti senza sepoltura, ossa
calcinate. Ma non riuscì a vedere nulla.
"Io non conosco la guerra - disse - non l'ho mai vista, e non ne ho mai sentito parlare.
Non riesco a immaginarla. Mi viene in mente solo qualche film. Ma credo che la guerra
sia diversa dal cinema."
Parlò Scalabrino:
"Vicino alla mia casa, fino a pochi anni fa, c'era un palazzo sventrato. Era stato
bombardato durante l'ultima guerra, e nessuno l'aveva più ricostruito: erano rimaste
in piedi soltanto due pareti di un piano e un pezzo di solaio con una porta in mezzo. La
porta era ancora chiusa, ma dietro c'era il vuoto. Una situazione surreale. Assurda.
Tutto intorno, la città cambiava, cresceva. Le gru dei cantieri giravano su sè stesse
giorno e notte. Erano passati più di trent'anni dal bombardamento. Ma quel rudere era
ancora lì, abbandonato. Vedi, per gli esseri umani è più semplice. Gli uomini muoiono.
E tutto finisce lì. Ma sulle cose inanimate gli effetti di una bomba possono durare
all'infinito. Un giorno, però, mi accorsi che le rovine non c'erano più. Non c'era più
nulla, tranne che il vuoto. Le macerie erano state spazzate via da un bulldozer, le
pareti dei palazzi vicini erano state intonacate di bianco, il terreno era stato coperto di
bitume. La città aveva nascosto la casa bombardata, come gli sterpi, crescendo, hanno
nascosto questo cratere. Sembrava che non ci fosse più traccia della guerra. Ma ti dico
che solo quel giorno l'ho sentita, ho percepito, nell'aria, ciò che di più spaventoso
l'accompagna: il nulla. Si può cancellare la memoria, ma non il cratere che
cancellandola si crea. Fino a che una rovina rimane in piedi, essa è testimone del
terrore e della sofferenza di chi viveva in quella casa quando è scoppiata la bomba.
Anche una tomba può evocare il valore di una vita trascorsa. Ma se non c'è più niente,
nemmeno un epitaffio, se anche il ricordo della distruzione viene cancellato, è come se
gli uomini stessi non fossero mai esistiti. Dopo trent'anni di pace la guerra aveva
generato una tragedia irreversibile, una voragine definitiva, che solo un'altra guerra
potrà colmare. E'spaventoso ! Nemmeno io conosco la guerra, per fortuna. Ma anche
se non l'ho mai vista, so perfettamente che cos'è. Lo so, e non voglio vederla. Ci sono
sensazioni terrificanti che ognuno di noi eredita nascendo. La fame, la peste, la morte.
E la guerra. Viviamo cercando di dimenticarle, per non vivere nella paura. Eppure,
pensa che la paura non è che l'eco di una bomba che scoppia. L'esplosione, quella
vera, dev'essere infinitamente più terribile."
Ci fu una lunga pausa. Matteo non parlava, Scalabrino, probabilmente, stava cercando
un modo garbato ma intelligente per cambiare argomento. L'erba stava diventando
più chiara sotto il sole che saliva. E infinite immagini di morte si affollarono nelle due
menti affacciate sull'orlo del cratere. La divinità vendicatrice del giudizio universale
avrà la forma di un bombardiere stellare. Sfonderà le nuvole in un alone di vapori di
carburante, scortata dai suoi caccia, i cherubini alati. Il fuoco divamperà al suo
passaggio su tutte le cose. Anche le carcasse dei dinosauri risorgeranno dagli strati
geologici e niente potrà sfuggire alla punizione delle sue armi perfette. Con i suoi
giganteschi coltelli a serramanico sguainati infilzerà gli uomini terrorizzati nello stesso
modo in cui gli insensibili uccidono gli insetti che scappano dai formicai. Farà spuntare
dalla terra lunghi spilli d'acciaio e falli enormi e appuntiti, per collezionare, come
farfalle, le sfortunate donne, traforandone la tenera carne sulla superficie di una
bacheca di sbarre di ferro, togliendo la polvere magica dalle loro ali invisibili. Poi
nominerà sul campo i suoi attendenti, scegliendoli tra i peggiori e insegnando loro
ogni più raffinata tortura. Nemmeno le belve potranno opporsi. Il mare sarà dominato
da uomini-squalo perennemente affamati. I continenti da branchi di uomini-iena in
tuta mimetica, assetati di sangue, che annuseranno con il grugno ogni anfratto per
stanare chi avesse trovato un rifugio tra le macerie e circonderanno i bambini orfani e
fuggitivi per ucciderli con le sole zanne, lasciando le loro misere carogne in pasto agli
uomini-avvoltoio, padroni della parte più bassa del cielo. La pioggia chimica
completerà l'opera trasformando i sopravvissuti in mostri irriconoscibili, che non
potranno più nemmeno nascondersi per la vergogna. Le loro ossa si deformeranno. La
loro carne si scioglierà al sole come una foglia di debolissimo metallo cede alla fiamma
di una candela. Lentamente un'ombra velerà ogni deserto e la stagione effimera
risplenderà per essiccarsi nella timida estate.
"Forse dovrei spiegarti perchè mi chiamo Scalabrino - disse infine l'uomo, gravemente
- ma non è poi così necessario. Uno dei motivi che mi hanno spinto a parlarti, è la
certezza di esserti sconosciuto."
Matteo si risvegliò da un lungo torpore.
"Ascoltami, vorrei consegnarti delle lettere." Disse ancora Scalabrino. E Matteo reagì:
"Ma insomma, chi è lei ? Che cosa vuole da me ?"
Così disse, e tuttavia ebbe il timore di aver offeso o disilluso quell'uomo, che si
dimostrava gentile, nei modi, e molto attento alle parole che pronunciava.
"Le lettere non sono dirette a te. Sono un segreto. Un enigma. Che io stesso non
riesco a risolvere. Non sarei qui, ora, se ne potessi comprendere l'intero significato. Ma
nessuno può arrivare a conoscersi. Aiutami, per favore. Un ragazzo, forse un ragazzo
che non mi ha mai visto prima può essere un giudice migliore."
"Perchè proprio io ?" Disse Matteo.
Lo sconosciuto non rispose. Tirò fuori una busta, e fece l'atto di porgerla al cercatore
di fossili, che aveva gli occhi sgranati come se stesse fissando un fantasma. Non fu
necessario insistere. Benchè frastornato, Matteo prese la busta dalle sue mani con la
stessa facilità con cui avrebbe accettato da un qualsiasi conoscente la copia del
giornale. In quel momento così inconsueto per la vita di un ragazzo, com'era Matteo,
forse senza grandi ambizioni, ma certamente aperto e intelligente, ogni gesto, ogni
azione tendeva a rientrare, come se fosse attratta dalla forza di gravità, nei limiti della
più assoluta naturalezza. E nello stesso tempo ogni evento diventava un'affascinante
incognita, il pretesto di un'avventura.
"Le leggerai, vero ? Le leggerai, ne sono sicuro."
"Sono curioso, lo ammetto. Lei sapeva che mi sarei incuriosito, non è così ? Forse
tutto quello che mi ha detto è stato un calcolo, forse non ha trovato per caso le parole
giuste."
"Spesso il caso ci fa conversare in modo arguto e sottile, molto meglio che se
avessimo premeditato le frasi nascondendo tra le righe parte del loro senso." Disse
Scalabrino. E dopo un secondo aggiunse:
"Tra una settimana tornerò qui. Se ci sarai, e se avrai letto quelle lettere, finalmente
potremo parlare da amici."
"Una settimana mi basterà" - disse automaticamente Matteo. Poi tentò l'estrema
ribellione al fascino di quell'essere, che ormai lo aveva avvolto.
"Ma è proprio sicuro che verrò all'appuntamento ? Potrei gettare via tutto appena se
ne sarà andato. Potrei dimenticare. Potrei non farmi più vedere."
"Mi fido di te. Te l'ho già detto. Altrimenti non mi sarei nemmeno avvicinato. E tu non
avresti neppure considerato quell'uomo che, in lontananza, passeggiava vicino al
bosco. Tutto qui."
Lo sconosciuto possedeva il prezioso dono dell'ubiquità del linguaggio: le sue parole si
trovavano contemporaneamente ovunque il pensiero di Matteo stesse frugando nel
tentativo di definire e comprendere una situazione che oscillava tra l'assoluta
limpidezza e la più totale oscurità. Si sentì come Faust di fronte a un Mefisto che gli
offriva il più prezioso dei beni senza porre condizioni, senza chiedere in cambio
nemmeno un anno della sua anima. Non poteva far altro che recitare la sua parte,
anche se non sapeva quale fosse, orgoglioso di essere il prescelto.
"Se - disse Scalabrino - se. Anche le ipotesi possono diventare indizi, strumenti della
conoscenza e del giudizio. Se getterai via la busta. Se tra una settimana non ci sarai.
Tutto avrà un significato, ogni eventualità mi aiuterà a riflettere, a capire, o a
continuare a non capire. E poi non sarebbe una gran perdita. Quelle lettere sono
rimaste chiuse nel mio cassetto per anni. Nessuno le ha mai lette. E ciò che non viene
letto, non esiste."
Disse. E con un sorriso e un gesto della mano, un minimo accenno di panico sul volto,
simile all'espressione di un animale in fuga, si voltò, e si allontanò velocemente,
scendendo a valle. La busta rimase tra le mani aperte di Matteo, che appena la
sfioravano, come se fosse una statua di porcellana.
"E se io tornassi qui, tra una settimana, ma non ci fosse lei ?" Gridò Matteo.
"Rivolgiti alla polizia." Disse Scalabrino, senza voltarsi e infilando le mani nelle tasche.
Poi si fermò per un attimo e allargò le spalle.
"Sto scherzando - disse ancora - non vedo perchè non dovrei venire a un
appuntamento che io stesso ho richiesto e fissato. E non mi dare del lei."
Poi, scomparve.
Se Matteo non lesse subito le lettere, come ebbe la tentazione di fare, fu perchè si
ricordò di essere seduto sul margine di quel cratere infernale. Ora sentiva
distintamente l'eco, lontana ma persistente, di un improvviso, innaturale, ignobile
scoppio. E gli sembrò più opportuno nascondere le parole scritte nel silenzio della sua
giacca.
Lorenzo Lotto
Gentiluomo nello studio
Olio su tela
Venezia, Gallerie dell'Accademia
Anche Matteo se ne andò. E un ramarro lo seguì, invisibile sentinella, abbandonando
pezzi di caduche squame e di pelle invecchiata sulla polvere della terra compressa dai
suoi passi. Percorsero insieme la fragile scarpata, il bosco, il prato, il sentiero, il letto
asciutto del torrente, la lunga discesa asfaltata e una parte del piazzale del
parcheggio. Matteo si voltò soltanto per salire sulla sua motocicletta, e fu allora che
scorse il piccolo animale. Che dopo averlo fissato immobile secondo le abitudini della
sua specie, si nascose dietro uno pneumatico e tese le zampe pronto a spiccare il volo,
se soltanto avesse avuto le ali dei basilischi e dei draghi, suoi diretti antenati. Matteo,
come tutti i collezionisti di fossili, non provava repulsione per i rettili. Anzi, ammirava
in loro le forme sopravvissute alle ere. Si piegò, dunque, per osservare il ramarro più
da vicino, ma la bestia era già scomparsa, velocissima e furtiva come una spia. Come
Scalabrino. Matteo, allora, tornò verso casa. Percorse la provinciale fino alla rampa
della tangenziale e la tangenziale fino all'uscita del viale, poi la strada, la traversa e
l'interno, per arrivare infine al cortile e al garage. La lucertola fu la guida dei suoi
pensieri, la custode delle sue preoccupazioni, la protettrice della sua persona dai
pericoli. Vicina, più che se avesse potuto scaldarla sul suo petto e farla tornare la ninfa
che era prima che il mago l'incantasse. A casa, salì le scale, spalancò le porte,
camminò lungo il corridoio, si rintanò nella sua stanza e aprì la finestra sul cielo e
sulle cime degli alberi. Meditare. Riflettere. Finalmente. Non è possibile, prima che
tutti gli stipiti siano chiusi ai passanti e i vetri aperti al volgere del sole tra l'alba e il
tramonto. E così in quella stanza rimase per tutto il tempo che fu necessario, di fronte
all'immagine vigile della fata lucertola, che si era annidata nella sua testa, o forse
sulla sua scrivania, e lo aiutava a vincere la diffidenza e la pigrizia. Matteo, se tu fossi
un nobile cavaliere, in questo momento saresti invincibile. Capace con un solo gesto di
difendere i deboli, raddrizzare i torti, costringere in un angolo buio tutti i malvagi.
Matteo, se tu fossi innamorato, in questo momento capiresti che cosa significa
aspettare il ritorno di chi, pur desiderato, è già fuggito. Matteo, ancora non lo sai, ma
sei soltanto all'inizio di un lunghissimo viaggio. Che comincerà con l'epilogo di un
incontro, e finirà con il prologo di un libro. Forse quell'unico libro antichissimo e raro
che possiedi. L'ultimo libro, trovato in mezzo alla tempesta eterna, morto per essere
stato tagliato avidamente. Dalle mani ignare di abili artigiani insensibili, distruttori
della specie stampata. La prima lettera è stata sufficiente a ricordartene l'esistenza,
tra le infinite cose naturali e artificiali che accumuli nella tua stanza, e ora ti senti
rassicurato dal contatto delle tue mani con ciò che resta di quelle carte pesanti e
vecchissime. Se una biblioteca vale più di un regno, chi possiede un solo libro
sopravvissuto all'insensibilità del tempo, è più potente di un re. Anche se il libro non è
più integro. Anche se la terra è smembrata. Anche se è solo una coperta di cuoio che
tiene insieme poche pagine sfascicolate, strappate, squarciate per poter rivendere più
facilmente sotto forma di piccoli quadri tutte quelle illustrazioni che amano follemente
i raccoglitori di ninnoli da parete. Molti capitoli della storia impressa sul libro di Matteo
non esistevano più. Nè il titolo, nè l'autore. Nè il tipografo, nè la data di stampa. Ma
dalle pagine aperte, odorose di polvere, uscirono lo stesso i castelli di carta e di
cristallo del grande incantatore, e anche lui fu subito perduto nei loro sconfinati
corridoi, nei capoversi decorati di fili di rosso e di azzurro, nei meandri dei nessi
stampati con arte segreta e nella calligrafia delle consonanti sibilanti arricciate e
astruse nello spazio dell'interlinea. Nei frontespizi spezzati e nelle colonne d'inchiostro.
Come tutti i lettori fu prigioniero di un'illusione, resa in quel caso ancora più
affascinante e tentatrice dalla difficoltà della lettura. Gli sembrò, senza ragione, di
ritrovare le parole di Scalabrino in ogni pagina, in gran parte delle citazioni, in molti
dei frammenti che riuscì a ricostruire. Cercò vanamente nel libro superstite la risposta
alle infinite domande che la sua curiosità continuava a srotolare con chiarezza davanti
ai suoi occhi. Finchè non incontrò una nota aggiunta sul margine di una pagina da
qualcuno che aveva sfogliato, prima di lui, il volume, la sottolineatura di un passo.
Legendi sincerus affectus, intelligendi sobrium votum. Difficile da tradurre, per uno
studente inesperto, semplice, tuttavia, nel significato: poichè nemmeno se avesse
frugato in ogni angolo del labirinto di quella scrittura avrebbe ottenuto le risposte che
si aspettava, e solo con l'umiltà avrebbe potuto percorrerlo, lasciandosi entusiasmare
dalla sua arte retorica e cercando nello stesso tempo di non cadere nei suoi infiniti e
oscuri trabocchetti. Passarono i minuti. Matteo smise di leggere i pezzi del libro antico.
Alzò la testa e guardò fisso in avanti verso un inesistente spettatore. Giunge, a volte,
inesorabile, l'ora della decisione. L'ora in cui l'ombra si illumina di sicurezza. E quel
gesto elementare, quello sguardo di sfida verso il futuro, gli sembrò il simbolo perfetto
di quella sconosciuta volontà di potenza che avvertiva, quella stessa che in realtà non
abbandona mai chi è giovane nello spirito, e che da sempre gli apparteneva, solo che
non aveva avuto motivo di rivelarsi prima. I petali di rosa di cui i poeti ricoprono
l'abisso che separa il piacere dell'adolescenza dall'incertezza dell'età adulta salirono in
superficie. Appassiti. Matteo ebbe, per la prima volta, la terribile certezza che un
giorno sarebbe morto. E come lui tutti gli altri esseri umani, perfino quelli che si
credono immortali, o che immortali ci appaiono. In una vampata di terrore, pensò
anche che la morte sarebbe arrivata con il suo nero mantello solo qualche secondo
dopo, a partire da quel momento. Ma non accadde nulla. E tutta la fatica del
sopravvivere lo colse. Tutta la malinconia dell'eternità. Sentì che mai più avrebbe
rivisto Scalabrino, e che avrebbe dovuto scoprire il senso di tutte le cose nella più
totale solitudine. Fu solo un lieve presentimento. Ma ne fu subito schiavo.
Annibale Carracci
Ercole al bivio
Olio su tela
Napoli, Galleria Nazionale di Capodimonte
Dopo una settimana Matteo si presentò puntuale all'appuntamento. Salì in cima al
costone della montagna e riconobbe il cratere della bomba, anche se gli sembrò che
qualcuno ne avesse modificato la forma, fino a renderlo quasi del tutto irriconoscibile.
Per quanto si sforzasse, continuava a non essere capace di raffigurare la guerra nella
sua spaventosa brutalità. L'unico termine di paragone che riusciva ad evocare erano le
immagini dei vecchi cinegiornali, rese opache dal tempo. I soldati in bianco e nero che
correvano scattando in modo ridicolo, le cannonate che scoppiavano come improvvise
folate di polvere, e il sangue che non si vedeva mai, o era solo un grumo traballante,
poco più scuro della carne. Sapeva che quei fotogrammi graffiati erano l'unica
testimonianza reale di quell'ultima guerra che tutti i viventi erano stati costretti a
subire e a soffrire. Tuttavia, non riuscivano a spaventarlo. E neppure le più tremende
scene di violenza del cinema, ormai, lo emozionavano o lo condizionavano, poichè
conosceva buona parte dei trucchi e delle finzioni che le rendono verisimili. Quanto
alle immagini più recenti, quelle trasmesse in diretta dalla televisione, via satellite, a
colori e con il sonoro stereofonico, fu costretto ad ammettere che, benchè
consentissero di ipotizzare l'orrore e la brutalità delle guerre meglio dei documentari
ingialliti, di fatto non ne mostravano che una minima parte: non si vedeva quasi nulla
di veramente terribile, e si poteva quindi ragionevolmente pensare che di veramente
terribile non fosse successo niente. Erano molto più impressionanti certe fotografie:
quella del miliziano spagnolo che cade colpito da una pallottola, quella del soldato con
la testa fasciata che sorregge un compagno ridotto a una maschera di sangue tra le
foglie della giungla, quella dei guerriglieri che gettano in una fossa il corpo senza
nome di un compagno che sembrerebbe morto da poco, se non fosse che al posto
della testa c'è solo un teschio divorato dagli insetti. E tante altre. Ma rimaneva il
dubbio che anche in quel caso si trattasse, se non di falsi, quanto meno di sapienti
esagerazioni, elaborate e scelte per dare un pugno nello stomaco all'osservatore, per
rassicurarlo sulla sua lontananza dal teatro della tragedia. Probabilmente il vero orrore
della guerra consiste nella sua continuità, nella sensazione impercettibile della sua
terrificante presenza, di cui quei momenti drammatici che i fotografi pubblicano non
sono che pallide conferme indirette. Oppure, come diceva Scalabrino, nei suoi effetti
nel corso del tempo. Morire di mali sconosciuti, dopo decenni, per le radiazioni
atomiche. Ritrovarsi senza una ragione prigionieri del caos, come quella bambina
ebrea scampata al campo di sterminio che non riesce più a scrivere il suo nome sulla
lavagna, e si gira terrorizzata per non vedere la ragnatela di scarabocchi che le sue
mani hanno tracciato senza che lei potesse fermarle. Molte nuvole bianche velavano
l'orizzonte. Altissime. Stratificate. Matteo aspettò a lungo, ma ben presto non fu più
sufficiente il pensiero della guerra a distrarlo. Scalabrino non venne, e Matteo si
ritrovò a dover decidere che cosa fare. Era certo che sarebbe accaduto. Ma fu preso
ugualmente dal panico. Non sapeva se aspettare ancora, o se andare via. Se fosse
andato via, pensò, Scalabrino sarebbe certamente arrivato subito dopo, e lo avrebbe
biasimato, quando lo avesse rivisto, per non aver mantenuto l'impegno preso, come
gli aveva promesso. Se invece fosse rimasto ancora, qualcuno, alla fine, lo avrebbe
notato, e lo avrebbe giudicato sospetto, o sciocco, e tutto, comunque, sarebbe stato
inutile. Forse le cose non stavano esattamente così, ma così gli sembrava che fossero.
Saper aspettare è difficile quanto decidere di non aspettare più. C'è chi attende fino
allo sfinimento, chi invece va via subito, anche se non ha nient'altro da fare in quel
momento. Non si può dire con certezza a quale categoria appartenesse Matteo. Era
consapevole ma indeciso. Pieno di speranze ma rassegnato. Lasciò passare quasi
un'ora, poi si incamminò verso la strada, pianissimo, fermandosi spesso, guardandosi
indietro. Si illudeva ancora di vedere Scalabrino arrivare dal bosco, guardingo come
un animale. E di sentirsi chiamare. Ma c'era un grande silenzio, quel giorno, e troppo
tempo era trascorso dall'ora dell'appuntamento perchè Scalabrino potesse ancora farsi
vivo. Un senso di panico ancora più grande lo prese. Si sentì perduto, si sentì
invecchiare, e non fu più neppure sicuro di ritrovare la sua motocicletta dove l'aveva
lasciata. Lo agitavano il desiderio di conoscere meglio l'intera storia di Scalabrino, e la
pesante responsabilità di doverla imparare senza un maestro. I poeti e gli scrittori
hanno sempre descritto la crescita dell'individuo evocando la fragilità, l'indecisione, la
leggerezza. Anche Matteo cresceva tranquillo e spensierato, collezionando fossili e
qualche altra innocente testimonianza del passato. Ma ora assaporava, tutto in una
volta, il sabato del villaggio, la domenica della vita, la fuga senza fine, la boccata
d'aria, la linea d'ombra. Non poteva più illudersi che la vita fosse altrove. Come se
all'improvviso si fosse interrotta sotto i suoi passi quella strada dritta, monotona e
sicura che fino ad allora aveva calpestato senza neppure immaginare che potessero
esisterne altre, poichè nessuno conosce il segreto per intuirne la direzione senza prima
averle viste. Gli antichi rappresentavano volentieri questo momento, con un mito
insignificante e immortale. Ercole, nudo, era seduto su una roccia. E due donne, una
bruna, adornata con vesti austere e di colori brillanti e scuri, l'altra acconciata di
riccioli biondi e coperta di veli chiari e leggeri, gli apparvero. La donna che non
sorrideva gli indicò con la mano, solenne, un sentiero aspro che saliva verso una
montagna spoglia e si perdeva nella chiusa dell'orizzonte. In cima al sentiero un
cavallo bianco lo aspettava. La donna bionda, col sorriso sereno sulle labbra, appena
accennato, lo invitò invece a seguirla nel fresco oblio di un fitto e splendido bosco di
palme e di querce, e a raccogliere il suo bagaglio di violini, di maschere e di libri. Che
cosa farà, dunque, l'eroe dalla pelle di leone ? Andrà davvero dove il destino lo chiama
? E quale destino, tra i due ? E'meglio rischiare di rimpiangere l'incertezza, o essere
certo di un futuro rimpianto ? Non c'è che una possibilità. Essere dove il padre
onnipotente regna enigmatico. Ma non è sorte per un mortale. Un mortale deve
scontare la sua libertà. Probabilmente, Matteo non avrebbe desiderato trovarsi così
presto di fronte ad una scelta difficile come quella, e come quella definitiva. Avrebbe
preferito che la sua prima strada terminasse in mezzo a una pianura o a un deserto:
per non scegliere soltanto tra la metafora della destra o della sinistra, tra il bene e il
male, tra il piacere e la virtù, segnalate nettamente nella grande distesa, ma avere
nello stesso tempo infinite altre possibilità, come avventurarsi nei campi o sulla
sabbia, perdersi in cerca di un albero cavo o di una sorgente fatata che avrebbero
potuto essere ovunque. Per ritrovare Scalabrino là dove non gli fosse possibile
nascondersi. Ma non era nemmeno un eroe. Le muse non lo ispirarono. Prima di sera
era già in città, a camminare tra palazzi di vetro e di cemento, tra porte di metallo e
stucchi di plastilina, finestre dipinte di acrilico e piastrelle di ceramica opaca,
marciapiedi di bitume e pali di terra refrattaria, vetrine di alluminio anodizzato e
insegne di neon e di fuliggine, per incontrare, perpendicolare alla sua, un'altra via di
vetro e cemento, metallo e plastilina, bitume e alluminio, piena di gente, di lampi, di
motori e di negozi: e a destra e a sinistra tante vie regolari, che andavano a destra e a
sinistra, di bitume, di metallo e di cemento. Un dedalo di corridoi affollati, come il
magazzino di una pinacoteca, dove è impossibile distinguere i quadri sovrapposti sulle
pareti. La sua città. Tutto quello che Matteo decise di fare, dopo il mancato incontro,
fu per uscire da quelle strade soffocanti. Come se non avesse mai trovato il suo bivio.
Alla disperata ricerca di un uomo sconosciuto che aveva detto di chiamarsi Scalabrino.
E di quell'incognita terra che qualcuno, un giorno, aveva chiamato Vivarium.
Jacopo da Pontormo
Deposizione
Tempera su tavola
Firenze, chiesa di santa Felicita
Ora farai uno sforzo di immaginazione, Matteo. Ora che sei stato rapito dal panico e
temi di non poter fare più nulla nemmeno per salvare un uomo che una settimana fa
neppure conoscevi, e che mai e poi mai avresti pensato di dover aiutare. Il cielo
intorno a te è quasi del tutto scomparso, e della terra non rimane che una pallida
ombra tenuta insieme da una bassissima forza di gravità, quanto basta perchè tu non
precipiti nel vuoto cosmico della malinconia, sotto il rimorso intermittente dei ricordi
asteroidi. Sapere dove ti trovi in questo momento non ha più importanza. Ciò che ti
assilla è la sorte di Scalabrino, che credi dolorosa, sebbene siano ben pochi gli indizi
concreti al riguardo. Un uomo triste, forse disperato. Un sogno che sembrava sul
punto di avverarsi ma che invece è svanito senza una ragione apparente. Questo è
tutto quello che sai. Eppure hai temuto, temi ancora che quell'uomo, che non si è
presentato all'appuntamento che lui stesso ti aveva dato, sia morto, anzi, si sia ucciso.
Dovresti leggere più spesso i poeti, Matteo. Basta cercare nei libri. Un po'di
attenzione. Un po'di fortuna. E trovi sempre la frase giusta per esprimere un concetto
complesso. Una parola per tutte le occasioni. Il segnale, la freccia che indica la
direzione della verità. Credi davvero che Scalabrino si sia lasciato morire ? Per così
poco ? Leggi, allora. E scoprirai che sopravvivere ai desideri più cupi è naturale come il
respiro dell'universo. Come aviene a un disperato spesso, che da lontan brama e disia
la morte, e l'odia poi che se la vede appresso, tanto gli pare il passo acerbo e forte.
Vedi. E'tutto chiaro. La soluzione è semplice. Eppure sono solo quattro righe tra
parentesi, scelte a caso. Moltissimi romanzi si potrebbero costruire frugando nelle
scritture dei poeti e ricomponendo con la colla tutto quello che si può ritagliare con le
forbici. Romanzi pieni di domande e stracolmi di risposte. Inni sinceri alla vita. Partite
a scacchi senza fine con la signora vestita di nero. Immagina di poter estrarre schegge
di fossili dai giacimenti di tutta la Terra, e di poterli ricomporre molte volte in modo
tale che ogni volta appaia l'impronta di un essere diverso, vero o finto che sia. Niente
di tutto questo serve veramente a qualcosa, come l'orbita lontanissima di Plutone, che
c'è, ma se non ci fosse nessuno se ne accorgerebbe e non sarebbe obbligatorio
inventarla. Ogni frase esiste perchè la sua esistenza possa giustificare la sua futura
citazione. Ogni pezzo di vertebra, allo stesso modo, potrà incastrarsi nel fossile del
drago alato, ma non importa se veramente gli apparteneva, perchè il drago non
esiste. Le figure dolenti che pensi di vedere stanno recitando, invisibili ai più. Le
conosci soltanto perchè hai letto in una lettera l'elenco dei loro nomi. Sorreggono
Scalabrino, come se fosse morto. Ma non vanno a seppellirlo. Danzano in tondo sul
suo corpo privo di sensi. Simili agli anelli di Saturno. Girano perchè il Sole di
mezzogiorno apra finalmente un sorriso sulle sue labbra e riscaldi la sua pelle grazie
alla velocità della luce. Girano e danzano. E le loro mani si congiungono. Le schiene si
inarcano. Qualsiasi muscolo teso diventa aereo movimento, coda di una cometa. Il
lontanissimo vento australe, nevoso, gelato, estremo lampo orribile, scivola esitando
contro ogni nervo domato, ondeggia mentre alita tra tendini e ossa. Ricorda ogni
sensazione e non crede, rimane attore nel teatro, zitto e guardingo, ultimo ignoto
ladro di evanescenti nostalgie, si traveste e ribella, nega salvezza ogni notte, ora
muore, ora risorge terribile, inutilmente. E quando tocca gli uomini il colore degli
sguardi e delle pieghe dei mantelli si fa cangiante. Dicono gli alchimisti che mescolare
gli ingredienti e i pigmenti di una ricetta sia come ricreare l'essenza dei pianeti. Per
fare Mercurio, Venere, Marte, Giove, la Luna, Urano, e tutti gli altri corpi celesti
conosciuti, prendi un metallo, e sublimalo. Recipe Sol. Lo splendore roseo della sua
purezza uscirà intatto dal fumo delle urine e dalla puzza degli escrementi. Sarà
pesante ed eterno. E dell'opera, infame, faticosa e necessaria, non resterà che il
ricordo. Dal fuoco e dall'acqua, nascerà la terra. E dalla terra, l'uomo, pronipote della
merda, e tuttavia discendente dell'aria. Non preoccuparti, Matteo. Quando la danza
sarà finita, Scalabrino, forse, morirà. Non prima. Ancora deve scontare la sua
condanna. Tutta intera. Se potessi parlargli, ora che è assorto nel suo torpore, ora che
è quasi svanito, ti risponderebbe con un filo di voce. Non troverebbe le parole
sufficienti ad articolare una frase. E se pure ci riuscisse, non potrebbe riferirti altro che
qualche amara, ma superflua constatazione. Rosencrantz e Guildenstern sono morti.
Nessuno sa perchè, ma è così, e non importa a nessuno saperlo. In lui circola ormai la
linfa di un vegetale, non il sangue di un essere umano. Tu sei stato l'ultimo che lo ha
visto e che lo ha ascoltato. Hai subito intuito che era sotto l'effetto di un cattivo
incantesimo, e hai cercato di fare qualcosa per scioglierlo, dopo appena una
settimana. Ma quello che stai vivendo non è una favola. La sua sorte era scritta. Non è
orribile come pensi. Non è un passo senza ritorno. Scalabrino è stato condannato
senza che alcuna sentenza sia mai stata pronunciata. Questo è il problema. Vorrebbe
avere ragione. Vorrebbe essere giudicato. Se esistesse qualcuno così saggio da saper
valutare tutti i pro e tutti i contro. Gli errori e le intuizioni. La speranza e la delusione.
Lo cercherebbe, subito. Tu ne sarai capace ?
Arnold Bocklin
L'isola dei morti
Olio su tela
Basilea, Kunstmuseum
Il giudice viveva sulla cima di una bassa collina folta di cipressi, in una grande casa
bianca circondata da cornicioni dipinti a delicati motivi geometrici celesti, che
ricordavano vagamente le architetture orientali. Si vedeva una distesa d'acqua, da
lassù, il mare che all'alba, verso settembre, o poco prima del tramonto, come adesso,
alla fine di maggio, si tingeva di un rosso simile a quello del vino leggero, mentre il
cielo, per riflesso, appariva del colore del bronzo. Matteo si sentì trascinato da una
silenziosa nave di fantasmi fino all'immaginaria spiaggia. Mentre ogni nuvola, ovattata
nel caldo languore estivo, destinata a morire effimera, ruotava in qualche ultima
evoluzione. Si incamminò tra gli olivi fino alla porta del palazzo, e sentì nell'aria il
sapore di una piccola nube di vapori di carni appena arrostite sulle braci. Non trovò
subito la porta d'ingresso: le pareti esterne di quella casa non erano piantate sulla
terra, ma su uno zoccolo leggermente rialzato, uniforme, ricoperto di marmi bianchi
venati di rosso e contornato anch'esso di mattonelle azzurre. Ne percorse quasi tutto il
perimetro, passando più volte davanti a grandi finestre chiuse, finchè non sentì più
forte e nitido il profumo che riempiva l'aria. Si affacciò così a quell'ultima finestra,
l'unica spalancata, dimenticando tutti i doveri e i pudori del buon visitatore, e vide un
uomo intento a cucinare attorno al fuoco di un camino. L'uomo, in un primo momento,
non si accorse di lui, e Matteo si fermò volentieri ad osservarlo, affacciandosi
all'esterno della vetrata aperta. L'uomo trattava le carni ancora rosse di sangue, le
ceneri del focolare e le polveri delle spezie con l'amore e la calma che un antico
sacerdote avrebbe dedicato ad un rituale o ad un sacrificio. Se tanta dedizione fosse
sufficiente per raggiungere la perfezione si sarebbe detto che costui era depositario di
quel segreto, di solito negato ai comuni mortali. Canticchiava una vecchia canzone,
che era stata riproposta in quei giorni dalla radio in versione aggiornata. Attaccava
deciso, con una bella voce calda: Unforgettable; e poi seguiva il resto del motivo
farfugliando sillabe senza senso, spezzoni di solfeggio, liberi la la la. Matteo pensò che
il cuoco, in realtà, non voleva e non sapeva cantare: si era probabilmente svegliato
con quel motivo in testa, come capita spesso, e automaticamente ne ripeteva il
ritornello, che in quel caso era una sola parola, il titolo. Poi, finalmente, l'uomo si
accorse di Matteo, e dimenticò la canzone. Matteo si vide scoperto, provò imbarazzo, e
si aspettò un rimprovero per la sua impertinenza, poichè lo aveva spiato in un
momento particolarmente intimo della sua esistenza, tra le pareti domestiche. Ma la
sua reazione non fu affatto dura.
"Tu devi essere Matteo" - disse il giudice - "l'ultima volta che ti ho visto eri poco più
che un bambino. Non ti avrei mai riconosciuto ! Entra, entra pure nella mia casa."
Il giudice aveva fama di uomo cortese e affabile, oltre che saggio, e per una volta
almeno la fama del personaggio sembrava corrispondere alla realtà. Così Matteo, che
aveva temuto un moto di rabbia, vedendo quel sincero sorriso dimenticò ogni remora
e prese l'invito alla lettera. I giovani, spesso, non attribuiscono eccessiva importanza
all'aspetto esteriore dei comportamenti sociali. Così intuiscono, senza volerlo, i mille
modi di semplificare l'esistenza: Matteo, anzichè continuare a cercare la porta, come
qualunque adulto avrebbe fatto, saltò sul davanzale della cucina e si lasciò cadere
nella stanza. E quel gesto spontaneo piacque al giudice, tanto che la fredda formalità
della presentazione si trasformò nel primo calore di quella che sarebbe diventata una
singolare amicizia. Non ci fu bisogno, così, di misurare ogni gesto prima ancora di
arrivare alla reciproca accettazione, cosa che di solito accade quando un incontro è
preceduto dall'asettica liturgia del campanello che suona, della chiave che gira e dello
stipite che si apre, azioni che spesso generano equivoci sull'argomento della
discussione e impediscono che la conoscenza si approfondisca. Il giudice parlò a
Matteo dell'affetto che lo aveva legato a suo padre, e Matteo, a sua volta, di quanto
suo padre gli avesse parlato di lui. Chiunque li avesse visti in quel momento non
avrebbe notato neppure la differenza di età che li separava. Sembravano soltanto due
ottimi amici. Il giudice, per un po', intrattenne Matteo su alcuni aspetti
apparentemente marginali della vita, e in particolare sulla sua passione per la cucina,
e sulla bellezza sugli odori, che sono l'essenza stessa dell'arte gastronomica. Poi, i due
cominciarono a scoprire certe affinità che altrimenti avrebbero richiesto giorni, mesi o
anni per essere comprese e assimilate, tra cui il comune interesse per i fossili e per la
preistoria del mondo. In breve, fu chiaro che Matteo non sarebbe riuscito a spiegare
facilmente al giudice che cosa desiderasse da lui. Il giudice comprese che doveva
trattarsi di una questione molto importante: le mani del ragazzo tradivano emozione e
incertezza, le sue dita grattavano le nocche, ed ebbe l'impressione che dalla sua bocca
volessero uscire parole che non osava o pronunciare, tanta era la rapidità con cui egli,
non appena si propagava nella stanza una pausa di assoluto silenzio, riportava il
discorso su argomenti piacevoli ma del tutto conviviali. In realtà, il giudice non si
rendeva conto che la sua figura austera, solida come l'immagine di una roccia, e il suo
stesso ruolo di personaggio pubblico, fotografato dai giornali, generavano negli
interlocutori un certo, naturale disagio. Eppure, nell'opinione che si formò di Matteo
c'era del vero, perchè il ragazzo non sapeva proprio da dove cominciare per spiegare
al giudice la ragione della sua visita, tanto essa era insolita, e poco avevano a che
vedere con il suo atteggiamento la reverenza e la soggezione. Matteo, in un primo
momento, provò perfino a scusarsi per averlo disturbato, poi cercò addirittura di
rimandare ad una prossima occasione un chiarimento che il giudice, ormai, mostrava
di attendere con insistente cortesia. Infine, a riprova del fatto che la confidenza tra le
persone passa talora per vie sconosciute e incomprensibili, accettò l'invito del giudice
a rimanere ospite per la notte, con entusiasmo, come se a porgerlo fosse stato un
compagno di liceo, e non un personaggio così noto e importante. Quella casa, in
realtà, lo spaventava, ma capì che non avrebbe potuto scegliere altrimenti. La notte
ha il potere di modellare le coscienze, pensò Matteo. Sia che essa trascorra insonne,
come una veglia prima della battaglia o di un'iniziazione, sia che essa voli via nel
sonno profondo e ristori il corpo dalla sua stanchezza e la mente dal vulcano dei
pensieri che la agitano, essa è capace di trasformare le incertezze della sera
precedente nell'improvvisa chiarezza del mattino successivo. Avrebbe voluto fuggire
via. Si sentiva come un topo in trappola. Ma non poteva farci nulla. Domani, domani
riuscirò a dirgli tutto, si ripeteva, mentre il giudice lo accompagnava nella penombra
verso una tetra camera degli ospiti.
Paul Gauguin
Contes barbares
Olio su tela
Essen, Folkwang Museum
Matteo si svegliò di colpo, e in un attimo si cancellarono gli incubi. Gli sembrò di
sapere perfettamente cosa fare e cosa dire, sebbene non potesse imputare ad
alcunché tanta sicurezza. Immaginò, guardando dalla finestra, che le rosee dita
dell'alba battessero sui tasti di una gigantesca macchina da scrivere le parole che il
suo cervello percepiva come informi sensazioni. Era giovanissimo, e solo dopo molti
anni capì che il dono della presunta rivelazione appartiene esclusivamente ai ragazzi
della sua età, mentre gli adulti sanno che un conto è racchiudere un pensiero in
un'intuizione che ci sembra una sfera
lucente (ma non è che una parentesi
nell'equazione della mente), e ben altro è tirarlo fuori, tradurlo dalla versione
originale, interiore, in uno qualsiasi dei fragili linguaggi nati perchè gli uomini possano
comunicare tra loro parlando o scrivendo. Ma quel giorno tutto avvenne senza sforzo.
Come se fosse stato tessuto sulla tela, direbbe chi crede nel destino. Matteo si alzò da
un letto morbido e comodo. Fece qualche passo nella sconfinata casa, che gli sembrò
accogliente e luminosa. Aprì due porte vicine a quella della sua stanza, con la cautela
di chi teme di sorprendere qualcuno nel sonno o, peggio ancora, mentre fa l'amore:
ma non riuscì a vedere nulla, nel buio che dietro di esse si nascondeva. Forse erano
altre camere per gli ospiti, chiuse perchè disabitate, forse erano ripostigli. La terza
porta era quella che stava cercando. Si spalancava in una grande stanza da bagno,
bianca e azzurra come l'esterno dell'edificio, interamente invasa dalla luce. Una vasca
enorme era incassata sul pavimento, ricoperta di smalto verdemare. Si avvicinò per
osservarla meglio, e volle toccarla, per sincerarsi che esistesse davvero. Sulla
superficie dello zoccolo che la separava dal pavimento era disegnata una teoria di
delfini che saltano sulle onde. Al di sotto dello zoccolo, verso l'interno, c'erano tre
gradini, che su un lato della vasca ne seguivano il bordo arrotondato, sull'altro
formavano i tre segmenti di un trapezio regolare. La vasca era profonda almeno un
metro, e ogni angolo interno era completamente smussato. A prima vista poteva
ricordare una conchiglia. In realtà sembrava anch'essa un grande e comodo letto dalla
forma inconsueta, che invitava l'ospite a distendersi, a dormire, coprendosi di una
coltre di acqua cristallina. Matteo cercò il rubinetto, ma non riuscì a vedere niente che
gli somigliasse. Trovò soltanto un pannello con alcuni bottoni colorati incassato al
limite dell'ellisse. Provò a schiacciare quello nero, e dopo pochi secondi vide che sul
fondo di quella specie di piscina si aprivano alcuni piccoli fori. Era evidente che si
trattava dello scarico. Schiacciò di nuovo lo stesso bottone, e i fori si richiusero. Provò
allora con quello verde, ma l'unico effetto che ottenne fu la fuoriuscita di un liquido
oleoso da un cassettino abilmente nascosto in uno dei gradini, sul lato opposto a
quello del pannello di controllo. Il liquido profumava di alghe e di muschio, e aveva
tutta l'aria di essere sapone o bagno schiuma. Schiacciò allora il bottone azzurro, e
questa volta l'acqua cominciò a scorrere nella vasca. Uscì silenziosa e impalpabile da
tanti forellini che si trovavano sotto la piega del contorno, e scivolò, così rarefatta,
verso il fondo della vasca: a contatto con il sapone di alghe che laggiù si era raccolto,
generò una morbida schiuma, di colore azzurro, prendendo, per effetto della rifrazione
della luce sullo smalto, l'aspetto del mare. Per riempire la vasca ci vollero parecchi
minuti. Matteo ne approfittò per spogliarsi con estrema lentezza e con gesti plateali,
imitando, sia pure goffamente, la modella Neutro Roberts, di cui era stato
segretamente innamorato. Poi scese i tre gradini della piscina, e prima di entrare nella
schiuma si fermò, nudo, in piedi, lasciandosi inebriare dal momento solenne. Dopo il
benefico effetto della notte e dell'aurora, l'acqua lo avrebbe purificato completamente.
Assorto ad occhi socchiusi nel silenzio dei suoi capelli che ondeggiano nel liquido come
i tentacoli di un polipo. Immerso, lubrico, filtrando in ogni respiro echi dell'estate
limpidissima, liberando energie molteplici, invitato, lui, libertino, eletto e unico
novizio, al notturno orientale, tra tende elegantissime. Così rimase per qualche tempo,
esitando per meglio assaporare il contatto con il bagno. Non si accorse minimamente
che due giovani donne erano entrate nella stanza dalla porta che aveva lasciato
inavvertitamente aperta, e lo stavano guardando, incuriosite, ma senza alcuna
apparente morbosità. Quando le vide non ebbe neppure il tempo di rendersi conto
della situazione: arrossì come il fuoco e sprofondò immediatamente nell'acqua per
scomparire. Si era lasciato sorprendere come in una telenovela. E gli venne in mente
solo adesso che aveva certamente abusato dell'ospitalità del giudice appropriandosi
senza chiedere il permesso a nessuno di quella stanza da bagno. E poi si stava
comportando come uno stupido. Due ragazze erano davanti a lui. Vicino a una polla
d'acqua. Quante volte aveva immaginato una scena simile ! Era un sogno che si
realizzava. Un'apparizione insperata: lo avevano visto nudo ed erano rimaste a
guardarlo. E lui si vergognava e si nascondeva nella schiuma come un bambino.
Un'occasione irrimediabilmente sprecata, pensò. Se ne andranno ridendo. Peggio. Mi
prenderanno in giro per parecchi giorni. Soltanto il giorno prima sarebbe annegato pur
di non rivelare il suo imbarazzo. Ma quel mattino Matteo era veramente deciso ad
affrontare tutte i volti della sorte multiforme. La sua rabbia improvvisa, il suo
disonore, non durarono più della sua resistenza in apnea. Riemerse, si tolse la
schiuma dal viso, respirò e si affacciò cautamente dal margine della vasca. Le ragazze
erano ancora nella stanza, come se non avessero sentito nulla di ciò che aveva
pensato. Una era giovanissima. Il suo corpo era già formato, ma nei capelli, lunghi e
rossi, portava un fermaglio fiorito, come una bambina. I suoi occhi, invece, erano di
ghiaccio, come quelli di una donna adulta. L'altra era più grande, molto alta, di
carnagione scura, incredibilmente attraente nei lineamenti e nelle forme, che si
potevano intuire, rigogliose, sotto il suo abito leggero, dalla vita segnata subito al di
sotto del petto. Se avesse dovuto darle un nome, l'avrebbe chiamata Ermione. Portava
due ceste di orchidee e di gigli. Non dissero nulla, ma la più alta sorrise, e cominciò
con disinvoltura a sistemare i fiori ai bordi della vasca. Matteo aveva pensato, in uno
sprazzo di lucidità, che le due ragazze potessero essere le figlie del giudice, sebbene
non gli risultasse che il giudice fosse sposato, o che, comunque, avesse delle figlie. Ma
fu costretto a ricredersi: possono comportarsi così con uno sconosciuto solo
un'amante, una cameriera o una santa. Non una figlia, nè una madre, nemmeno una
puttana. Forse due sorelle. Bellissime padrone di un luogo sacro che lui,
irresponsabile, aveva violato. Si sentì come un orribile demone dai piedi caprini, un
avvoltoio lordo di sangue con lunghi artigli al posto delle mani, un intruso. E pensò
che doveva rompere quel silenzio, che lo rendeva ogni attimo più mostruoso, a costo
di qualunque sacrificio. Così Matteo parlò, inaspettatamente, senza neppure informarsi
su chi fossero quelle due apparizioni nella stanza da bagno, vincendo ogni sua residua
vergogna. Raccontò, rivolto ad entrambe, ma seguendo con lo sguardo la ragazza più
alta e più bella, tutto quello che era venuto a riferire personalmente al giudice e che la
sera precedente non era uscito neppure a stento dalle sue labbra. Lo fece senza
misurare le parole, di getto, d'un fiato, senza immaginare che le ragazze avrebbe
potuto ignorarlo, che a loro forse non importava proprio nulla di quella storia. Parlò di
Scalabrino, e di come lo aveva conosciuto. Disse che aveva letto le sue lettere e che
aveva appreso di un luogo incredibile, chiamato Vivarium, che non sapeva
esattamente cosa fosse e dove si trovasse. Raccontò infine di come, tornando
all'appuntamento che avevano concordato, non avesse trovato quell'uomo, e ci fossero
buone ragioni per credere che egli fosse scomparso, o fuggito, o peggio.
"Dillo al giudice, per favore - implorò alla sorella maggiore - forse Scalabrino è in
pericolo, forse sta pensando di uccidersi. Dobbiamo trovarlo e fermarlo, prima che sia
troppo tardi !"
E senza rendersi più conto di ciò che stava facendo, prese per una mano la ragazza.
Una stalattite di schiuma porosa scivolò dal suo braccio, e cadde sulle piastrelle,
gocciolando dal gomito. La ragazza si tirò indietro gentilmente, e andò a cercare un
asciugamano, che passò sulla piccolissima porzione di pelle che Matteo le aveva
bagnato. La più giovane, intanto, come se non avesse sentito neppure una parola, si
era chinata su di lui, e stava cercando di attirare la sua attenzione su un pezzo di
sapone grigio, che odorava di cenere. Matteo lo accettò ringraziandola
automaticamente con un cenno della testa, incerto se osservarla meglio o continuare a
seguire i passi dell'altra, che si stava invece avviando verso la porta, sicura di sè. Fu
lei a parlargli:
"Il giudice è impegnato, questa mattina, ma vuole che tu rimanga suo ospite. Ero
venuta per riferire. Se hai bisogno di qualcosa chiedi pure a me. Tutto quello che
vuoi."
Si soffermò ancora per un secondo sulla porta, poi uscì, senza garantire a Matteo che
il suo racconto sarebbe stato a sua volta riferito, se se ne fosse presentata l'occasione.
Matteo strinse i denti e ingoiò la saliva. La bambina precocemente cresciuta restò un
po'più a lungo accanto a lui, poi si avviò anche lei verso la porta, salutandolo con dei
gesti della mano e due o tre movimenti impercettibili della bocca. Matteo ebbe la netta
sensazione che fosse muta dalla nascita.
Edvard Munch
La pubertà
Olio su tela
Oslo, Nasjonalgalleriet
Molte cose potrebbero accadere in una grande casa isolata sulla collina sopra il mare,
relativamente lontana dalle città, durante un'intera giornata di primavera inoltrata,
serena e limpida come le domeniche di gennaio quando soffia il vento di tramontana.
Nelle stanze, per metà arredate splendidamente e per metà semivuote, costellate di
mobili ricoperti di lenzuola bianche, come fantasmi, vagano, soli, un giovane e
taciturno cercatore di fossili momentaneamente infatuato di una vicenda che forse si è
svolta fuori dal tempo, una donna misteriosa, altissima, dal fisico prorompente e lo
sguardo accattivante, un'adolescente eterea, precoce e disinibita, affetta da mutismo.
Ci vorrebbe l'occhio indiscreto di una macchina da presa per cogliere i personaggi in
tutte le sfumature delle loro vicende. Azione. Carrellata avanti in piano sequenza
continuo. Il portone della villa si apre. Un atrio ricoperto di marmi fluorescenti. Uno
scalone a spirale che si avvolge attorno a una rosa del deserto grande come un
pilastro. Un'altra porta e un'altra stanza. Vuota. Stucchi alle pareti. Ancora una porta.
Una tavola al centro. Il campo si stringe. Carrellata da destra a sinistra. Posate
d'argento. Piatti decorati a filo d'oro zecchino. Bicchieri di cristallo di Boemia pieni di
vino rosato. Zuppiera di porcellana. Candeline rosse accese su festoni di fiocchi rossi e
dorati. Stelle natalizie. Dentro l'ultimo piatto minestra verde, fumante. Sulla minestra
galleggiano dadi di pane tostato. Primissimo piano. Fisso. Mano che spazza via il
piatto e fa largo sulla tavola. Rallentatore. Piatto che cade per terra e si rompe.
Minestra che si espande sul pavimento di marmo rosa. Posate che rimbalzano.
Bicchieri che vanno in frantumi. Primo piano. Tovaglia. La donna piomba sulla
tovaglia, schiena all'indietro, ansimante. Camicetta sbottonata. Labbra socchiuse. Due
mani strappano via il reggiseno. Piano americano. Donna distesa sulla tavola, a petto
nudo. Uomo che si china su di lei e la bacia tra i seni. Campo lungo. Uomo in piedi sul
bordo della tavola, curvo in avanti verso la donna. Donna che fa leva sullo spigolo,
alza le gambe da terra e le passa attorno alla vita dell'uomo. Primo piano. I tacchi a
spillo della donna si infilano nella cintura dei pantaloni dell'uomo, e li tirano giù
scalciando e spingendo. Gemiti. Campo lunghissimo. Stanza invasa dalla luce. L'uomo
e la donna fanno all'amore sul bordo della tavola sconvolta e a poco a poco tirano giù
la tovaglia e tutto quello che c'è sopra. Dissolvenza. Campo lungo. Soffitta polverosa.
Mura scrostate. Oggetti alla rinfusa. Immagini fisse in sequenza rapida. Da una porta
si affaccia la donna. Da un'altra l'uomo. La donna si nasconde. L'uomo la insegue. Si
alternano campo lungo e primo piano. Sguardi. Fugaci apparizioni dietro uno stipite
dell'una o dell'altro, sempre separati. Sia la donna che l'uomo cominciano a correre
nel labirinto, ridendo. Steady-cam indietro sulla corsa di lei. Steady-cam indietro sulla
corsa di lui. Ad ogni cambio di campo cambia la veste che indossano. Piccola stanza
vuota. Ancora steady-cam indietro, alternata su di lei e su di lui. Blocco. Campo lungo.
I due nella piccola stanza vuota, in piedi, di fronte. Momento di pausa. Bacio. Primo
piano. Dallo stipite di un armadio sfasciato si affaccia la giovane muta. Sguardo duro,
triste. Lacrima. Stacco. Salotto in giardino. Tre poltrone di vimini ricoperte di cuscini.
Sequenza. Piano americano. In una è seduto l'uomo, in una la donna, in una la
giovane non udente e non parlante, con un cappello. Tavolino di vetro. Tazze di tè alla
fragola, cestini di dolcetti vegetariani. Piano sequenza, campo corto. Una mano ne
prende uno e lo porta alla bocca delicatamente. E'la donna. Primissimo piano. Dialogo.
Donna: questi dolci sono squisiti; e pensare che sono fatti senza zucchero. Uomo
(prendendone uno e osservandolo): sembrano normali biscotti alle noci. L'adolescente
col cappello sta bevendo il tè, sguardo impassibile. Donna: ma posso mangiarne
quanti ne voglio; trasgredire senza ingrassare, il sogno di un'intera generazione.
Uomo (sorridendo): eppure dicono che lo zucchero faccia bene al cervello. Donna:
conosco un sacco di persone che ne dovrebbero ingoiare quintali, allora ! L'uomo ride.
La donna ride. L'adolescente vede gli altri ridere e sorride anche lei, guardando l'uomo
con interesse. L'uomo posa la sua tazza e cerca qualcosa nelle sue tasche. Tira fuori
una sigaretta e l'accende. La donna trasalisce improvvisamente. Campo largo. La
donna getta il tè della sua tazza addosso all'uomo che sta fumando. Poi gli strappa di
mano la sigaretta e la getta via, si alza e si avvia velocemente verso la casa. L'uomo
rimane perplesso. Cerca di asciugarsi. Improvvisamente l'adolescente, che ha visto
tutta la scena, scoppia in una crisi isterica. La sua bocca vorrebbe gridare, ma non ci
riesce. Si contorce, si rotola sull'erba. Primo piano. L'uomo dimentica la sua giacca
sporca e si china su di lei per cercare di calmarla, voltandosi verso la villa, cercando
l'aiuto della donna, che è ormai scomparsa. Dalla bocca della ragazza esce una bava
biancastra. Stacco. Piano sequenza. Interno della villa. La donna si avvicina a una
cassettiera e apre un cassetto. Primissimo piano: le sue mani tirano fuori una grossa
corda e la stringono. Stacco. L'uomo è chino sulla ragazza, che lentamente si sta
calmando, ma sembra esausta e rimane a terra. Controcampo. Carrello avanti.
Soggettiva. Donna che si avvicina. L'uomo è di spalle, chino sulla muta isterica. Prima
che abbia il tempo di voltarsi, sentendo i passi, la corda passa attorno alle sue spalle e
lo blocca. Stacco. Primo piano dal basso. Grandangolo. L'uomo è legato e non può
muoversi. La donna lo piega in avanti, lo inginocchia a terra e fissa la corda a due
colonne, in modo che l'uomo non possa muoversi da quella posizione. Controcampo.
Davanti all'uomo c'è un grande televisore acceso su un monoscopio. L'uomo è
vicinissimo e immobilizzato, ed è costretto a guardarlo. Primo piano della donna.
Punta un telecomando e preme un bottone. Soggettiva sul video. Zapping velocissimo.
Primissimo piano dell'uomo con gli occhi sgranati. Suda. Controcampo largo. L'uomo
legato alle colonne vede scorrere le immagini sullo schermo e non può distogliere lo
sguardo. Comincia a gridare. Soggettiva. Davanti al televisore c'è ora la donna, in
piedi, con le gambe allargate. E'nuda. Fa un passo in avanti. Primo piano laterale.
L'uomo vede il sesso della donna all'altezza del suo volto. Smette di gridare. Comincia
a baciarlo. Piano americano della donna che geme. Il suo sguardo si blocca.
Soggettiva. In fondo alla stanza l'adolescente la sta osservando. E'un'ombra nel cono
di luce della porta. Si gira e scappa. Stacco. Campo lungo. Stanza da bagno. La porta
si apre ed entra la donna, con addosso un'accappatoio rosa. E'sconvolta. Si appoggia
al grande lavabo a forma di conchiglia e si guarda nello specchio. Esita. Poi cerca in un
piccolo scaffale, rovesciando qualche vasetto di crema e qualche boccetta di profumo.
Infine, trova un pacchetto di sigarette, ne tira fuori una e l'accende. Osserva
attentamente, riflesso nello specchio, il fumo che esce dalla sua bocca. Stacco. Bianco
e nero. Un'ombra sul pavimento. In una mano stringe qualcosa. Un candelabro a sette
braccia. Soggettiva. Carrello avanti. Passi dell'ombra verso la donna che fuma davanti
allo specchio e che non si accorge di nulla. Il pesante candelabro si leva e colpisce la
donna più volte. La donna non riesce neppure a voltarsi. Ondeggia nella stanza,
sanguinante. Oscilla sul bordo della grande vasca da bagno piena d'acqua e di
schiuma. Controcampo. Ripresa subacquea della coltre di schiuma, un attimo prima
che la donna uccisa cada nell'acqua. Tuffo. Il sangue esce dalla bocca della donna e si
espande come una nuvola nel liquido. Stacco. L'uomo è ancora legato, la testa china
in avanti, spossato. Il televisore trasmette un incontro di tennis. L'uomo sente dei
passi e cerca di voltarsi, ma non ci riesce. Piano americano. La ragazza muta è a due
passi da lui, e impugna un grosso coltello. Primo piano dell'uomo inginocchiato. La
ragazza si piega. L'uomo vede il coltello e un lampo di terrore passa sui suoi occhi.
Primissimo piano del coltello, che lentamente si abbassa fino ai fianchi della ragazza.
La ragazza bacia l'uomo sulla bocca. Si alza. Taglia i legami con il coltello. Campo
medio. L'uomo si tocca i polsi doloranti, ancora inginocchiato, e alza lo sguardo verso
la ragazza. La ragazza getta il coltello a terra. Primissimo piano della ragazza che
sorride. Campo lungo. La ragazza si gira e si allontana verso il giardino. Titoli di coda.
Tutto questo potrebbe accadere. O altro ancora. Non è difficile immaginarlo, nelle
pagine di un romanzo pensato e scritto per essere ridotto a sceneggiatura. Pochi
particolari. Situazioni sempre uguali, ma con opportune variazioni sul tema, quanto
basta perchè almeno una scena posa entrare nell'immaginario collettivo, o essere
utilizzata per la locandina. Stile rigorosamente minimalista. Dialoghi secchi.
Linguaggio duro. Un buon racconto ha bisogno di azione. Solo l'azione può essere
raccontata. In realtà, quel giorno, nella casa del giudice, non successe nulla di
altrettanto interessante: nè sesso, nè equivoci, nè delitti, nè miracoli; nè la quasi
totale assenza di eventi favorì il dialogo tra i personaggi, o portò alla nascita di una
visione filosofica del mondo, che spesso trae origine proprio dalla noia. L'azione non è
obbligatoria nella vita. Il tempo è sempre più lento di qualsiasi sua rappresentazione.
Le stesse ore e gli stessi minuti degli altri giorni passarono, e il loro ritmo fu regolare,
incurante della presenza dell'ospite. Matteo, forse, lasciò correre più del necessario la
sua immaginazione. Ma non per questo quella specie di film che aveva sceneggiato
diventò cinema. Fu solo sorpreso da una situazione che non si aspettava, e per uscirne
inventò una trama. La ragazza muta - questo in realtà era successo - lo aveva
chiamato con un cenno della mano, affacciandosi da una porta socchiusa e subito
sparendo. Lui aveva obbedito all'invito docilmente, anche perchè non aveva nulla da
fare. Una volta entrato nella stanza, aveva visto l'adolescente nuda, seduta su una
vecchia ottomana: si era sciolta i capelli, teneva le braccia incrociate sul sesso e si
stringeva nelle spalle per non esibire il suo piccolo seno acerbo. Piena di grazia, come
una Venere. Eppure impacciata, come una vecchia zitella. Lo guardava fisso, senza
paura, ma senza emozione. La prima e l'unica cosa che Matteo pensò fu che non
aveva via di scampo. Se avesse approfittato di lei, la ragazza lo avrebbe di certo
odiato. Ma lo avrebbe odiato anche se non ne avesse approfittato. E lui stesso si
sarebbe rimproverato, sia se avesse osato abusare di quella minorenne minorata, sia
se avesse perduto una così rara opportunità. Così rimase fermo sulla soglia, nella
certezza che ogni scelta sarebbe stata sbagliata. Agire e non agire. Fu la sorella
maggiore a risolvere bruscamente l'enigma. Si avvicinò alla porta, lo prese per un
braccio e lo portò via, sussurrandogli di non far caso a certe provocazioni della muta.
Matteo si sentì sollevato dalla responsabilità di prendere una decisione, e si lasciò
accompagnare volentieri in giardino, dove passò il resto della giornata, elaborando più
volte il giallo che lo vedeva protagonista estasiato, legato e indifeso. Sulla collina
regnava il silenzio. Se un sussurro si udisse ritornerebbe rapito indietro e giurerebbe
reverenza inchinandosi, dolce adolescente. Poi, verso sera, tornò il giudice. E i
lampioni si accesero.
Giuseppe Pellizza da Volpedo
Girotondo
Olio su tavola
Milano, Galleria d'Arte Moderna
"La vita è una sfera" - disse il giudice - "e noi tutti siamo come bambini che si tengono
per mano e girano intorno ad un perno. Non riusciamo a trovare quelli che cerchiamo.
Eppure sono solo poco più in là. Girano anche loro, presi nel vortice interminabile."
"Io credo che vivere sia come camminare in un bosco che non conosciamo" - rispose
Matteo - "fitto, scuro, senza fine. E'per questo che non ci incontriamo mai."
Il giudice osservò attentamente il ragazzo. E Matteo ricambiò lo sguardo. Era proprio
vero: una reciproca simpatia li univa. Inimmaginabile, fino a due giorni prima. Matteo
era sereno: si era finalmente liberato da un peso opprimente. Aveva raccontato al
giudice poco più che lo spezzone di una storia incompiuta, ma era come se gli avesse
rivelato tutta la sua saggezza e tutti i suoi dubbi. E ora era in attesa di una soluzione.
Erano seduti sull'erba che circondava la bella casa, e Matteo non poté fare a meno di
tornare con la memoria al suo primo e unico incontro con Scalabrino. La situazione
era, per molti aspetti, simile. Uguale il colore violaceo del crepuscolo. Uguali i raggi di
luce che le foglie degli alberi riflettevano come specchi e che brulicavano sul terreno
come uno sciame di lucciole. La vera differenza consisteva nella perfezione del prato.
La collina dove viveva il giudice era un luogo toccato dalla bellezza della pace:
nessuna traccia di bombe e di scoppi nei dintorni, nessuna cicatrice sul terreno. Tutta
la storia poteva chiarirsi e concludersi in quel preciso momento.
"Perchè sei venuto da me ?" Chiese il giudice.
"Non lo so - rispose semplicemente Matteo - in questi ultimi giorni ho imparato
qualcosa che non conoscevo. Ho imparato soprattutto che conoscere significa avere un
mistero da risolvere. Non riesco a spiegarmi la scomparsa di Scalabrino. Questo è il
mio mistero. E ho pensato che un giudice potesse aiutarmi. Che fosse la persona
giusta."
"Il mistero della scomparsa di Scalabrino. Suona bene, come titolo."
"Non scherzi. Temo che gli sia successo qualcosa di terribile."
"Si vede che non lo conosci." Disse il giudice, e gettò istintivamente uno sguardo nella
direzione del tramonto.
Matteo cercò di interpretare il tono di quelle ultime parole: era una semplice
affermazione ? Un'esclamazione ? O piuttosto una sottile illazione ?
"Lei sì !?" Chiese timidamente, avendo cura, però, di non accentuare troppo il punto
interrogativo.
"L'ho conosciuto - ammise il giudice con un'inflessione indefinibile - e se la memoria
non m'inganna non è persona di cui ci dobbiamo preoccupare."
"Quando l'ha conosciuto ? Perchè ? Non lo vede da parecchio tempo ?"
"Sì. Da molto tempo. Mi aveva parlato di un certo esperimento, che aveva chiamato
Vivarium. Ma non mi ha mai spiegato esattamente di che cosa si trattasse. Una specie
di roccaforte del sapere, credo."
"Vivarium è veramente esistita, allora ?"
"Ah ! Certamente ! Nel sesto secolo dopo Cristo."
Matteo appoggiò il mento sul palmo di una mano e lasciò dondolare la testa sulla leva
del braccio. Non volle ammettere la sua ignoranza, anche se sapeva benissimo che
una sola domanda del giudice avrebbe potuto mettere a nudo la sua malafede.
"Perchè sono venuto da lei ?" Disse, tentando di deviare il senso del discorso.
"Non lo so. Davvero ! Solo tu puoi saperlo."
Il giudice lo guardò fisso negli occhi, e vide che Matteo esitava ancora. Allora gli tese
democraticamente la mano.
"Stringila. Immagina di parlare con un amico."
Matteo accettò, e sentì che la stretta del giudice era forte, calda, sincera. Così, forse,
si davano la mano quell'uomo e suo padre, parecchi anni prima.
"Vorrei che indagasse sulla sorte di Scalabrino e su quella dei suoi compagni." Disse
spontaneamente. "E su Vivarium." Aggiunse.
Il giudice strinse la mano di Matteo ancora per qualche istante. Poi la lasciò e provò a
rivolgersi al ragazzo con calma, ma con estrema chiarezza:
"Vedi. Io sono un giudice. Non posso negare che avviare un'indagine rientri tra le mie
facoltà. Ma ci deve essere una ragione precisa per farlo: un reato, un delitto, un
processo da istruire. Non mi sembra questo il caso. Non credo che a Vivarium sia
accaduto nulla di illecito, e Scalabrino non è certo un criminale: probabilmente ha solo
cercato di inseguire e raggiungere un più alto grado di libertà. Non posso processarlo
per questo, e nemmeno giudicarlo. Leggi i giornali, penso. Saprai che in questo
momento accadono fatti molto gravi. E che un giudice ha problemi più urgenti da
risolvere."
"Sono venuto da lei perchè non conosco nessun'altro" - confessò Matteo - "Lei può
scoprire certamente molte più cose di me, su Scalabrino, su Vivarium. Su tutto."
La sincerità di Matteo colpì il giudice.
"E'fuggito ! E'disperato ! Dobbiamo fare qualcosa !" Insisteva il ragazzo.
"Sono un giudice, non un poliziotto. E nemmeno la polizia può ricercare una persona
se qualcuno non ne denuncia la scomparsa. Scalabrino è maggiorenne, probabilmente
vive solo. E'un uomo libero. Può andare dove vuole, e nessuno può farci nulla."
Lo smarrimento fu palese nello sguardo di Matteo. Il giudice ne fu quasi commosso.
Non riusciva a capire perchè il ragazzo si fosse appassionato a tal punto a quella
vicenda, e perchè insistesse tanto sull'assoluta necessità di ritrovare al più presto le
tracce di un uomo che appena conosceva, e che in quello stesso momento poteva
essere ovunque, tranquillo come se niente fosse, incurante di ciò che si pensava e si
diceva di lui.
"E'questa la libertà ? - azzardò Matteo, improvvisamente, alterando leggermente la
sua voce - Scappare via ? Abbandonare gli amici ?"
"Non scambierei la mia sacra libertà con tutte le ricchezze d'Arabia."
"Scalabrino ha detto questo ?"
"No. Orazio, credo."
Il giudice guardò ancora una volta il ragazzo, che ora aveva chinato la testa in avanti,
sempre più sconsolato.
"Il saggio Nestore - gli disse allora - consigliò a Telemaco di ripercorrere gli itinerari
dei viaggi di Odisseo, se voleva avere sue notizie, e di ascoltare tutti coloro che ne
erano stati testimoni. Tu non stai certo inseguendo l'astuto Ulisse, ma forse posso
darti lo stesso consiglio, se lo accetti: parti da quel poco che sai, e segui il filo delle
tue intuizioni finchè puoi. Per quello che mi riguarda, cercherò di aiutarti. In forma
non ufficiale, naturalmente."
Matteo lo guardò attentamente, e accennò un sorriso.
"Raccoglierò qualche informazione sui progetti di Scalabrino e sui suoi amici, e te la
riferirò. Non temere." Aggiunse il giudice.
Dietro quelle parole poteva nascondersi sia l'affetto spontaneo di un uomo per il figlio
di un caro amico scomparso che l'abituale diplomazia di chi è troppo impegnato in
faccende ben più importanti per dar peso a ciò che non merita altro che un cortese
scambio di opinioni. Matteo, però, fu particolarmente soddisfatto di quel
suggerimento, tanto che fu sul punto di alzarsi e abbracciare il giudice, così come
avrebbe abbracciato suo padre. Tuttavia si trattenne. Non si sa perchè. Ma rimase
seduto. La luna era sorta, molto presto quella sera. I riflessi cangianti sulle foglie e
sull'erba erano più bianchi che neri. Il bosco era illuminato a giorno sulle cime degli
alberi, e oscuro d'ombra sotto le fronde. L'antichissimo tronco tagliato in mezzo
ondeggiava formando una grande gabbia, e non trasmetteva eco. Il giudice si era
momentaneamente allontanato verso la casa, chiedendo confidenzialmente al ragazzo
di aspettarlo. Non per questo Matteo si immaginò più grande di quello che era. Ma una
certa curiosità lo colse. Trascorsero soltanto pochi minuti. Poi il giudice tornò,
stringendo qualcosa in mano.
"Anch'io, da ragazzo, collezionavi fossili" - gli disse, mentre camminava - Questo è un
regalo per te".
Matteo si alzò in piedi, e aspettò che il giudice percorresse il prato fino al punto in cui
si trovava. L'uomo aprì il palmo e offrì il fossile al ragazzo, che l'osservò meravigliato.
La stromatolite calcarea è una roccia formata dal processo di fossilizzazione delle
alghe unicellulari caratteristiche dell'era archeozoica. Le alghe formano sul taglio della
pietra figure che ricordano in modo impressionante gli insiemi frattali, e in quello
splendido frammento il disegno era così completo che evocava una sorta di spirale
continua. Le alghe unicellulari della stromatolite sono probabilmente la testimonianza
più antica della vita sulla Terra. Due miliardi e mezzo di anni. L'inizio stesso della vita,
e nello stesso tempo la rappresentazione elementare della sua fine. Matteo non riuscì
nemmeno a dire grazie. Non ce n'era bisogno. Si sentiva al centro del mondo.
Paul Delvaux
La fine del giorno
Olio su tela
Venezia, Peggy Guggenheim Collection
Dopo che ebbe ricevuto il fossile in dono, Matteo disse al giudice che era l'ora di
andare. Ma il giudice lo trattenne, spiegandogli che stava aspettando alcuni amici e
che ci sarebbe stata una piccola festa informale. Matteo provò a insistere. Disse
dapprima al giudice che aveva già abusato della sua gentilezza, e che non poteva
approfittarne oltre. Poi, visto che le scuse non sembravano avere alcun effetto sulla
decisione dell'ospite - che anzi lasciò intendere di non voler prendere in considerazione
il benchè minimo complimento - affermò decisamente che non amava le feste, il che,
in parte, era vero. In realtà Matteo non voleva rivedere nè la giovane donna dalla
carnagione dorata la cui presenza lo aveva tormentato per tutto il giorno, nè
l'enigmatica adolescente muta, ma non poteva ammetterlo apertamente, non sapendo
esattamente chi fossero o che cosa rappresentassero per il giudice le due presunte
sorelle. Da parte sua, il giudice si accorse della debolezza dei tentativi di fuga del
ragazzo, e si limitò a pregarlo ripetutamente di accettare l'invito. A malincuore, Matteo
fu infine costretto a dire di sì, non potendo fare altrimenti, e si avviò verso la scala
della casa con l'aria di un condannato che, mentre si avvicina al patibolo con le mani
legate dietro la schiena, si convince che in fondo morire non è poi così terribile quando
il resto della vita si è rivelato vano. Il giudice provò a prenderlo sottobraccio, ma
quando si rese conto che quell'eccesso di confidenza disturbava e irrigidiva il ragazzo,
lo lasciò, e si limitò a scortarlo. Quando furono nell'atrio della villa, Matteo vide le due
giovani correre verso di loro, sfiorando appena il pavimento, e trattenne a stento un
grosso sospiro. Erano innegabilmente belle e interessanti, e assolutamente misteriose.
Sembravano ballerine sul palcoscenico. Si fermarono di fronte al giudice e lo
salutarono piegando leggermente la testa in avanti, senza dire una parola. Matteo
notò nuovamente l'ambiguità dei loro atteggiamenti: trattavano il giudice con la
familiarità propria di un parente stretto, e nello stesso tempo con la reverenza
caratteristica di un servitore. Il giudice disse qualcosa alla più piccola, gesticolando
con il linguaggio dei muti, e accarezzò delicatamente la più grande; le ragazze, senza
rispondere, corsero via rapidamente verso una delle tante porte che delimitavano
l'interno dell'atrio. Matteo non capì il perchè di quei gesti, e non osò neppure intuirne
il significato. Tuttavia si sentì sollevato quando le due sorelle se ne andarono; non le
vide più per tutto il resto della serata. Poco dopo arrivarono i primi invitati. Il giudice
spiegò a Matteo che di solito li aspettava sulla soglia per vederli sfilare nel vialetto del
giardino con le loro belle macchine. Tutti gli ospiti delle sue feste, infatti, si
presentavano ogni volta al suo cospetto con un'automobile nuova, dopo essersi messi
d'accordo tra loro per evitare che ce ne fossero due uguali: uno scherzo innocente nei
confronti del giudice stesso, che si era sempre rifiutato di guidare, e non aveva mai
posseduto mezzi di trasporto a motore di nessun genere. Lui accettava la
provocazione di buon grado, e da impeccabile padrone di casa qual'era, rimaneva a
guardare l'inconsueta processione, mostrandosi divertito e affascinato. Anche perchè,
essendo gli amici degli snob innati, la sequenza delle carrozzerie era davvero uno
spettacolo da non perdere, una teoria di meraviglie d'epoca, una galleria di prototipi
stravaganti e raffinati, un catalogo di pezzi da collezione che avrebbe fatto impazzire
anche un antiquario londinese. Pezzi che il giudice, peraltro, a dispetto della sua totale
mancanza di predisposizione verso la guida, mostrava di saper riconoscere a prima
vista con estrema competenza; a tal punto che, scherzo per scherzo, avrebbe
chiamato per tutta la durata della festa i suoi ospiti coi nomi esatti dei loro mostri
meccanici. Così presentò a Matteo, mentre parcheggiavano, la monumentale Ford
Model-T, con il volante altissimo e il seggiolino che sembra un trono, la Citroen
D.S.19, fatta di una materia, disse un ammiratore, che, in senso magico, risponde al
gusto della leggerezza, la Hudson modello 1947, volutamente trascurata nella
manutenzione ordinaria, la Rolls Royce coupè Silver Ghost, raffinatissimo bolide
bianco panna come l'impermeabile del perfetto dandy, eccetera eccetera eccetera.
Quasi un'antologia della cultura contemporanea. Matteo, motociclista incallito,
ascoltava simulando la massima attenzione, ma le belle macchine non lo
appassionavano troppo. E neppure gli ospiti gli sembrarono interessanti: non erano
altro che un'emanazione delle loro automobili, tutti molto più vecchi di lui, e troppo
elegantemente vestiti perchè potesse sentirsi a suo agio in mezzo a loro. Ben presto,
si ritrovò nell'angolo più appartato del salone, solo, su una piccola sedia di paglia di
Vienna, con un bicchiere in mano. Passò il tempo osservando la grossa ciliegia che
navigava sulla superficie del cocktail, sperando perfino, malgrado tutto, che almeno
una delle due sorelle venisse a consolarlo. Il giudice, intanto, girovagava tra gli
invitati, regalando sorrisi cortesi a tutti, e le signore si erano ormai lanciate nel
piacere del pettegolezzo. Un brusio costante e crescente avvolse la villa. E tutte quelle
voci che si accavallavano l'una sull'altra, senza che nessuna parola di senso compiuto
si potesse distinguere, e nemmeno il volume di ogni riso e di ogni grido, fecero sentire
Matteo estremamente solo: un muro di suoni incomprensibili lo divideva dai presenti,
un muro invalicabile. Il giudice si accorse che il ragazzo si era rattristato. Forse lui
stesso non amava eccessivamente l'insensata confusione della festa, quel balletto di
passi incerti, senza coreografia, quel vortice di tessuti e di ciocche disfatte. Così,
improvvisamente, si allontanò dal centro del salone e si diresse a grandi passi verso
Matteo, che lo guardò come l'improvvisa entrata sulla scena di un deus ex machina.
Senza aprire bocca, si mise a sedere accanto al ragazzo, e gli sorrise con gli occhi. I
due non parlarono per qualche minuto, mentre il rumore dei monosillabi degli ospiti
dava l'impressione di crescere di intensità. Poi, senza una ragione, ci fu un attimo
irreale di silenzio. Accade, durante un convivio galante. I presenti smettono di parlare
e riprendono fiato tutti insieme, nello stesso momento, come se si fossero messi
d'accordo, come se avessero sincronizzato le corde vocali. I pochi argomenti di
discussione che ognuno aveva disposizione si esauriscono contemporaneamente, e
regna l'imbarazzo, sovrano incontrastato. Tutti si rendono finalmente conto
dell'incomunicabilità che divide gli esseri umani. E particolarmente quelli che il silenzio
ha colto in silenzio. Incerti, lanciano gemiti altissimi, trattenendoli, tramano omelie
protese alla ricerca dell'oblio. Un vuoto che dura pochissimo, eppure sembra eterno.
Poi, il motore della laringe si rimette in moto. Una qualsiasi parola diventa la prua di
una nave corazzata che spezza il gelido ghiaccio della banchisa polare
dell'indifferenza: subito il colpo si ripercuote su tutto il pack, e infinite crepe si
diramano in tutte le direzioni. Fino ad arrivare al giudice e a Matteo, seduti ai margini
del continente bianco. Se uno dei due, in quel momento, si alzasse e se ne andasse,
l'altro non ne rimarrebbe affatto impressionato, e si domanderebbe soltanto perchè lui
stesso non ci aveva pensato prima. Se però questo non accade si crea una situazione
contingente ad alto tasso di empatia, maggiore o minore a seconda dei personaggi e
della singola circostanza. Il ghiaccio è rotto, ormai. Tutti hanno voglia di dialogare, e
si guardano affettuosamente. Ma i due si sentono peggio di prima.
"Conosco un buon sistema per combattere la noia - disse il giudice. "Paragonare i
presenti a dei vegetali, e riderci sopra".
Matteo, che sarebbe stato felice di ascoltarlo, qualunque cosa avesse detto, lo scrutò
come se non avesse capito. E il giudice, uomo di mondo, precisò:
"E'un vecchio pettegolezzo, che pare fosse molto di moda nell'età vittoriana. Il
pettegolezzo della metamorfosi. In realtà, se vogliamo giustificarlo, ha origini molto
più antiche, più serie, addirittura nobili. Pensa soltanto agli uomini e alle donne
trasformati in piante dagli dei o dai maghi. Il gioco è questo. Se tu potessi fare un
incantesimo, in che cosa trasformeresti i presenti ?"
Matteo non capì, ma l'idea non gli dispiacque.
"Devi lasciare che siano le tue impressioni a suggerirti la soluzione - continuò il
giudice. "Guarda quella donna: non ti pare che somigli ad un albero di susine ? Magra
magra, con quei capelli gonfi, quegli orecchini e quella collana. Ecco: io la trasformerei
in un susino."
Non aveva torto, pensò Matteo. La testa della signora era smisurata per il suo corpo
allampanato, e i suoi gioielli somigliavano in modo impressionante a una ghirlanda di
prugne mature.
"Quell'uomo direi che potrebbe diventare un bel pioppo - disse ancora il giudice.
"Osservalo bene. Alto, ma rigido sul tronco, giacca lucida e cangiante, del colore delle
foglie. Ha perfino la faccia da pioppo, e la carnagione chiara, slavata, chiazzata,
proprio come il legno del pioppo."
Matteo non aveva notato tutti quei particolari, ma il gioco del giudice cominciava a
piacergli. Non aveva mai pensato che dei viventi potessero somigliare a dei vegetali,
ma doveva ricredersi. Il fiammante metallo delle automobili con cui aveva rivestito gli
ospiti fino a quel momento si stava sciogliendo, e i corpi nudi e inanimati di tutti
quegli sconosciuti prendevano una parvenza di vita. Una signora che esibiva senza
ritegno una scollatura profondissima su due seni cadenti, la pelle lentigginosa e i
capelli tinti in rosso rame, gli ricordò improvvisamente un pino marittimo bruciato
dalla salsedine. Il giudice scoprì perfino che uno degli ospiti più importanti, una
signora con l'espressione perennemente rattristata da qualcosa che non era accaduto,
la chioma lunghissima e liscia come quella delle antiche Maddalene e le vesti ampie e
morbide, avrebbe potuto diventare, con pochi ritocchi, un salice piangente: per sua
stessa natura sembrava già il disegno di un trattato di botanica. Matteo prese gusto al
gioco. Era fin troppo facile: una donna piuttosto bella gli ricordò una palma, per come
la sua bocca ondulava nel parlare, per il modo in cui gesticolava tenendo le braccia
alzate e le mani aperte e per le lunghe dita affusolate e taglienti, coperte di grossi
anelli ovoidali, che certamente erano i datteri. Come due goliardi, andarono avanti
così per parecchio tempo, ridendo e passando in rassegna quasi tutti i presenti. Li
tramutarono in faggi, castagni, cactus, olivi, abeti, baobab ricoperti di liane, eucalipti
punteggiati di orchidee e in molti cespugli caratteristici della macchia mediterranea.
Matteo era entusiasta. Quel gioco, tra l'altro, non era volgare, e non riduceva gli
individui a simboli di un luogo comune, come ogni altro pettegolezzo. Belli o brutti,
Intelligenti o stupidi, una volta ricoperti di corteccia e di foglie, i presenti apparivano
certamente migliori di quanto, magari, non fossero in realtà: le piante arricchiscono il
mondo, e poco importano la forma delle loro foglie, e le loro stesse radici. Così
sopravvissero alla festa, il giudice e Matteo. Ma infine furono costretti a fermarsi. Non
perchè avessero esaurito i personaggi del loro erbario. Ma perchè a tutti e due venne
in mente la stessa domanda impertinente. E noi, noi che trasfiguriamo gli amici e i
nemici, che alberi siamo ? Sembriamo anche noi dei vegetali, se soltanto proviamo a
guardarci con gli occhi degli altri ? In che cosa ci trasformerebbe la magia di un
malvagio, la pietà di una fata, o il tedio di una sera ? Allora si sentirono persi in quella
foresta.
Jan Gossaert detto Mabuse
Danae
Olio su tavola
Monaco, Alte Pinakothek
Il giudice si accomodò sulla sua larga poltrona di pelle marrone bullonata di ottone e
guardò gli occhi intimiditi della ragazza che, adagiata come una regina sul trono,
sedeva davanti a lui: gli sembrarono di un metallo sconosciuto, e fu costretto a
constatare che non ne aveva mai visti di simili, e di così magnetici. Era quasi
mezzogiorno, e fuori, probabilmente, c'era il sole. Ma le veneziane nere abbassate
lasciavano filtrare pochissima luce, in forma di lunghe striature spesse di polvere.
Chiunque fosse entrato nella stanza in quel momento avrebbe riconosciuto l'alba del
cinema, quella stessa che di solito appare dopo la dissolvenza incrociata sul momento
del bacio tra i protagonisti; dopo una notte di un attimo, durante la quale tutto
potrebbe essere successo, ma niente, in realtà, era stato svelato dalle immagini in
bianco e nero. Le sofferenze interiori. Le orge inimmaginabili. Le ore liete insieme,
timidi amanti.
"Lei è Lara ?" Chiese il giudice, dopo aver cercato invano un modo diverso per
cominciare quella specie di interrogatorio informale.
"No - rispose la ragazza - io sono Eva Maria Silvia Domenica Primavera. Perchè mi ha
fatto venire qui ? Cosa vuole da me ?"
E istintivamente portò una mano aperta sull'addome, subito al di sotto del petto, come
se dovesse discolparsi, placare il suo affanno e nello stesso tempo proteggersi,
sporgendosi in avanti sulla sedia. Il giudice era abituato ad ascoltare ogni genere di
alibi, soprattutto quando non ne aveva richiesto espressamente uno, ma non poteva
immaginare una reazione così franca e così accorata, nè un nome così complicato.
"Come ha detto che si chiama ?"
"Eva Maria Silvia Domenica Primavera. Ma tutti mi chiamano Monica."
"E perchè non Eva ?"
"Quando sono stata registrata all'anagrafe si sono dimenticati di separare con una
virgola i primi cinque nomi. Soltanto dopo Primavera hanno messo finalmente la
virgola. Poi ce ne sono altri trentaquattro, di nomi. Monica è il primo dopo la virgola.
Lo so che non le sembrerà possibile, ma è così."
"Le credo, le credo. Lara è per caso uno di quei trentaquattro nomi ?"
"No. Le ho già detto che non mi chiamo Lara."
La ragazza, ora, sembrava spaventata, e lo guardava come una cerbiatta che ha
appena incontrato il lupo nel bosco solitario. Cercò di farsi venire in mente una parola
per tranquillizzarla, ma non ci riuscì.
"Sto cercando una donna che si chiama Lara - le disse, in tono asettico e professionale
- soltanto lei potrebbe raccontarmi la verità su questa storia. Può aiutarmi ?"
"Conosco una donna che si chiama Lara - rispose la ragazza - ma è morta. E non so se
è la stessa persona che sta cercando. Se quello che vuole è soltanto una versione della
storia, posso raccontarle la mia. Se sapessi da dove cominciare."
Il giudice la guardò attentamente: notò prima di tutto le labbra, che erano carnose,
socchiuse e protese in avanti, come in un gesto spudorato di offerta. Poi si soffermò
sul busto e pensò a tutto il resto, ingoiando qualcosa che non era nemmeno saliva e
cercando di nascondere, per cortesia o per sincero imbarazzo, lo sfogo di calore che
cominciava a scorrere nel suo corpo, sebbene la ragazza, in penombra contro le lame
di luce della veneziana, non potesse certamente notarlo. Rapidamente, immaginò, fino
al punto di poterle quasi toccare, le punte di quei seni turgidi, quelle gambe
lunghissime, le ciocche di peluria del suo sesso, e si vide fotografato da varie
angolazioni mentre la possedeva. Poi, meravigliandosi per aver lasciato correre fino a
tanto la fantasia su un avventura che non era nemmeno cominciata, cercò di tornare
in sè. Niente lasciava presupporre che la ragazza si fosse accorta dei suoi pensieri
osceni, nè che l'avventura che aveva tracciato per sommi capi potesse realmente
avverarsi; tuttavia, per quelle differenti ragioni, e per altre più difficili da spiegare, si
vergognò e si rattristò.
"Non importa, signorina - disse infine, cercando di tagliar corto - la ringrazio
ugualmente per essere venuta. Probabilmente mi sono sbagliato sul suo conto. La
storia che sto cercando di ricostruire nei particolari non è così importante da farle
perdere altro tempo. Dovrei proprio parlare con Lara. O con Scalabrino. Ma lui non si
trova. A proposito, quando lo ha visto per l'ultima volta ?"
"Lara è morta, le ho detto. E Scalabrino, non lo vedo da almeno un anno. Si
dev'essere perso. A lui succede."
"Scalabrino si è perduto." Sottolineò il giudice guardando in cielo. Lo fece senza
intenzioni particolari, e tuttavia si rammaricò per quelle tre parole, che gli sembrarono
una stupida precisazione formale, una superflua ridondanza o, peggio ancora,
un'evidente scortesia. Si sentì costretto a dire sommessamente:
"Mi scusi."
"Scalabrino." Annuì Monica, senza che nella sua voce si potesse riconoscere alcun
sentimento.
Ci fu una pausa di silenzio. Naturlich , non si dice così, forse ? Nell'aria il giudice vide
le traiettorie delle sue occhiate, nitidamente tracciate, come in una scatola
prospettica. E lei, al centro esatto dello spazio, regina sul trono, Eva o Pandora, prima
donna.
"Grazie - le disse. "Arrivederci."
Monica abbassò leggermente la testa in avanti per salutare, senza pronunciare una
sola parola, ma esitò prima di alzarsi. Contrariamente a ciò che si poteva pensare
guardandola, si comportava con eccessivo ossequio, quasi con timidezza. Forse era
stata colpita da quella convocazione, che, sebbene non fosse ufficiale, l'aveva portata
davanti a un magistrato, in un luogo dove non era mai stata prima e che certo le
incuteva un qualche timore. Tutte le più acute contraddizioni dell'esistenza presero
forma concreta nell'ufficio del tribunale. Il vecchio arredamento di puro stile fascista,
fortunatamente consunto, incrociò torvo lo sguardo romantico e sognante del giudice,
che sembrava sul punto di leggere una poesia decadente, di chiedere estatico a
quell'apparizione per quale ragione gli olimpi in consesso l'avessero creata,
semidivina, così simile a loro, forse perchè la fronte di Giunone non rimanesse per
sempre soltanto un segno, o il portamento di Pallade Atena una vaga posa fatale, e
perchè gli uomini tutti potessero scorgere negli occhi di Venere lo smarrimento di
Proserpina. Dalla parte opposta della scrivania, i gioielli di cuoio nero che Eva Maria
Silvia Domenica Primavera, detta Monica, indossava, borchiati di strass e di acciaio
lucente, si specchiarono senza riconoscersi sul suo viso dolcissimo, toccato da una
vergogna antica, velato dalla paura arcana di cadere vittima di una giustizia illogica e
di genere maschile, che da donna attraente che era la trasformava in un'eterea
creatura che di umano aveva solo le sembianze, ma anche quelle trascendevano le
sue belle linee. Di casto pudore splende la fiamma. Basterebbe aspettarla senza
impazienza, certo il suo tremendo impatto non ci tradirebbe. In quella somma di
circostanze era come se tutti e tutto fossero fuori posto: lui, uomo di mondo rapito da
una visione, lei, bellissima eppure imbarazzata, e le cose, i fogli di carta, le buste, i
timbri, i raggi di luce. Probabilmente se ne accorse anche la ragazza, che prima di
andarsene raccolse alcune grappette e due elastici dalla scrivania, e li mise,
separandoli accuratamente, negli scomparti di una scatola di bronzo e vilpelle dipinta
di verde e di oro, scostando con la mano tutta la polvere che si era accumulata sul
piano. Quasi a voler ricomporre con un solo gesto un intero mondo che si stava
volatilizzando. Il giudice osservò con interesse quel gesto istintivo, e si chiese come
mai la ragazza si accanisse, vanamente, contro la polvere. La polvere, pensò, non è
fisicamente eliminabile. E'il sedimento dei secoli che passano, l'unica sostanza capace
di sfidare l'eternità gli dei, e non a caso è composta quasi esclusivamente di Titanio.
E'umanamente impossibile portarne via anche una sola manciata, in una procura della
Repubblica, poi ! Ma quella splendida donna ne era stata capace: il suo colpo di mano
sulla scrivania sarebbe rimasto pulito, come un frammento di tempo cancellato dalla
sua sublime presenza. Monica, infine, si avviò verso la porta. Il giudice si sforzò di non
alzare la testa e di non guardarla andare via per non rimanere turbato dal suo
ancheggiare, che doveva essere estremamente provocante. Pensò soltanto a come gli
impiegati, tutti maschi, si sarebbero affacciati sul corridoio vedendola passare, e si
vergognò per loro. I tacchi della donna scandirono il suo allontanarsi, ma nessuno
sfogò il suo istinto animale tanto da correrle dietro. Il giudice si sentì sollevato, per
quello e per molti altri motivi facilmente intuibili. Solo per poco, però, perchè almeno
uno dei suoi collaboratori, proprio quando ormai sembrava tutto risolto, si comportò
esattamente come aveva temuto. Avrebbe dovuto saperlo: Oreste, Oreste Liguori,
detto Rubens - per la sua passione per le donne formose - è uno di quelli che si sente
quasi obbligato a commentare, perfino se vedesse passare un manichino, purchè
abbia un bel culo e sia indecentemente vestito.
"Bella gnocca !" Disse, soddisfatto, senza alcuna delicatezza e senza preoccuparsi di
abbassare la voce. La ragazza, ormai lontana, ignorò del tutto l'approvazione, o finse
di non sentirla. E Rubens tornò subito nella sua stanza, come se niente fosse
accaduto, dopo aver incontrato per un istante la faccia turbata del suo capo, immobile
come un merluzzo surgelato dietro la porta ancora socchiusa. Nella sua espressione
non ci furono accenni di curiosità, nè la condiscendenza del complice. Solo un accenno
di sorriso, un'occhiata più furba e smaliziata delle altre. Il giudice ne fu estremamente
imbarazzato, e nello stesso tempo ammaliato. Rubens non si stupiva di nulla. Rubens
ne aveva viste tante. Come osava ? Come poteva ? Si alzò per non doverlo guardare e
per riprendere il normale ritmo del respiro. Si mise le mani sui fianchi e si avvicinò alla
finestra per tirare il filo delle veneziane: la luce, inondando la stanza, avrebbe fatto
svanire quella presenza che lo aveva così emozionato. E così fu. E il panorama della
città antica gli apparve, più bello che mai. Le torri, i campanili, le guglie, le cupole, le
colonne di alabastro dei loggiati, le nervature intricate delle bifore e le ombre delle
terrazze sulle pareti dei vicoli gli sembrarono gli arabeschi di un arazzo tessuto da
mani sapienti solo per il suo sguardo. Quasi un emiciclo levigato, labirinto oscuro,
scolpito come un retablo, ordito, ornato greco, grottesca, encarpo, tarsia, teatro
originario dell'estrema leggerezza, dove esistono solo il desiderio e rare icone
occidentali. Una sequenza di aperture e di chiusure su strati di pareti chiare che il solo
caso non avrebbe potuto disporre così, come lo spartito di un organo. In una di quelle
infinite finestre viveva una donna di cui conosceva appena il nome e il volto, ma che lo
aveva già incantato come una maga. Eva Maria Silvia Domenica Primavera, detta
Monica. La prima, la pura, la natura, la festa, la rinascita. La sola. Per un giorno
almeno avrebbe voluto essere il dio del tuono, una sottilissima pioggia dorata, per
cercarla, ovunque si trovasse, e per penetrare nelle più strette fessure della sua casa,
fino a cadere, sconfitto, nel suo grembo.
Amedeo Modigliani
Nudo sul cuscino
Olio su tela
Milano, Collezione privata
Quando la bella Monica se ne fu andata, il giudice pensò che non l'avrebbe mai più
rivista, e cercò perfino di dimenticare il motivo per cui l'aveva convocata,
interrogandosi tuttavia sulle ragioni dell'errore che gli avevano fatto ritenere che sotto
quell'aspetto sensuale e provocante potesse nascondersi Lara, se fosse stata ancora
viva. Ma Eva Maria Silvia eccetera, nonostante tutto, riapparve più splendida che mai
nei suoi pensieri più reconditi, chè quasi lui stesso non credeva di poter dar vita con
l'immaginazione al corpo di una donna a tal punto da essere tentato di tendere la
mano per toccarla ogni volta che gli sembrava di vederla. Per tutta la giornata non
riuscì a togliere dalla mente la nitidissima visione di quei fianchi divini che lo
possedevano ballando sopra di lui, di quei capezzoli eretti sul busto drittissimo, di
quella bocca, socchiusa mentre godeva di lui cavalcandolo con le mani protese in
avanti ad accarezzargli dolcemente il collo e la base della testa. E questo era ancora
niente. Gli sembrò che prendesse forma in ogni angolo del suo vecchio ufficio
polveroso: sulla poltrona consumata che non si decideva a cambiare, sulla sedia dove
poco prima la donna era veramente seduta, o in piedi accanto alla finestra, illuminata
dal sole in tutta la sua bellezza, colta mentre si gira di scatto verso il corridoio, come
se si fosse accorta di qualche passo improvviso, nell'attimo in cui ogni più piccolo
lineamento del suo volto si contrae, passando dal calore della luce alla freddezza di
uno sguardo indagatore. Infine il fantasma si sdraiò sul divano rosso. Il divano era
l'enigma dell'ufficio. Nessuno sapeva perchè fosse stato messo nella stanza del
giudice, poichè tra quelle quattro mura era del tutto fuori luogo. Era uno di quei divani
di velluto che poteva avere dieci oppure duecento anni: di forma immutabile, antico
dal momento stesso che era uscito dal laboratorio del falegname. Il giudice non
l'aveva mai potuto sopportare, e nessuno di tutti coloro che erano stati in quella
stanza vi si era mai seduto. Tuttavia non si era mai provveduto a portarlo via, e
l'unico risultato delle rimostranze del giudice fu che una mattina lo trovò spostato in
un angolo morto: solo tirando le tende dell'ultima finestra il margine di un cono di luce
poteva toccarlo, e poichè, nel frattempo, era stato dimenticato, la polvere si era
depositata sul tessuto tanto da diventare densa come la lana grezza, e da non poter
essere alzata, nè rimossa, se non con un grosso aspiratore, che nessuno, ovviamente,
avrebbe mai sprecato per una ragione così fatua. Il giudice stava camminando
nervosamente davanti alla scrivania, quando si ricordò che nel suo ufficio esisteva
anche quel divano, e si voltò per cercarlo. Monica era sdraiata sulle pieghe del velluto
polveroso, nuda e senza ombra di vergogna, corporea come le fanciulle indiane che si
bagnano nel fiume sacro, pigra come un'odalisca che sta lasciando distillare tutti i
minuti di una giornata di attesa. Allargando le braccia, e dondolando la testa. Così
carnale, così concreta, ma così leggera da sembrare ultraterrena e intoccabile, la bella
scontrosa. Con un accenno di sorriso invitò il giudice a distendersi accanto a lei, e il
giudice capì che sarebbe stato capace di spogliarsi completamente e restarle vicino
senza dire una parola, sfiorandola appena con la superficie della pelle ed evitando
perfino di guardarla negli occhi, per assaporare meglio l'eternità del tempo e per poter
godere interamente della sola esistenza di lei. L'apparizione, dolcemente, oltre la
cortina evanescente, violò il terreno assegnatole. Si alzò, si mosse verso di lui
ondeggiando come se camminasse sull'acqua e si rese manifesta nella totalità del suo
splendore, chè per poco il giudice non ne fu accecato. Comprese in quell'istante che
arrivare a stringere quella donna tra le braccia sarebbe stato l'unico scopo della sua
vita. E stava già per raggiungerlo. Ma il nudo di donna che era rimasto immobile a
contemplare mentre si avvicinava a passi solenni fu cancellato di colpo dal rumore
secco di un paio di forbici che si schiantarono nel corridoio. Trappole di metallo
sfuggite di mano a qualche insensato insensibile, che non poteva sapere. Il giudice si
sentì prigioniero del vuoto più assoluto. Si scoprì improvvisamente solo. Mentre il
sussurro impercettibile della sua stessa coscienza lo richiamava ai doveri quotidiani
della carica che ricopriva. Guardandosi intorno non riconobbe altro che le sue carte e
la sporcizia di tutti i giorni, e maledì sè stesso e l'idea della giustizia. Provò allora a
distrarsi nella maniera più consueta, lavorando svogliatamente; ma lo stato di
malinconia che gli derivava dal sapere che niente di ciò che aveva visto era vero
aumentò col passare delle ore. E ben presto fu di nuovo in piedi di fronte al divano
rosso, cercando di restituire la forma perduta a un'allucinazione che lo aveva
ammaliato, ma che ormai poteva percepire soltanto come una vaga nebulosa
immagine di donna. Provò per qualche minuto, sforzando inutilmente la memoria, e gli
vennero quasi le lacrime, effetti sconosciuti di un'improvvisa eccitazione. Si disse
perfino che sarebbe stato opportuno sdrammatizzare la scena accendendo
nervosamente una dopo l'altra tre o quattro sigarette e tracannando un bel bicchiere
di bourbon. Ma non fumava, e il bourbon gli faceva schifo. Allora, senza neppure
sapere perchè lo facesse, decise di distendersi lui stesso sul divano, forse per afferrare
ciò che era rimasto di una sensazione bellissima, e più impalpabile della stessa
polvere. Ma non accadde nulla. La sua immaginazione era senza elettricità. Guardava
il soffitto, le tende, le virgole argentate che turbinavano nei coni di luce, e intanto il
tempo passava senza una ragione. In quello stesso istante Rubens entrò nella stanza.
Il giudice non si voltò nemmeno. Capì che era lui per come aveva aperto la porta, con
la furia e l'irruenza di un poliziotto americano che a due minuti dalla fine trova il covo
del colpevole. Si sentì più nudo di un bambino sorpreso a masturbarsi e più impacciato
di un paziente alla sua prima seduta sul lettino dello psicanalista.
"Che cosa fa disteso sul divano, signor giudice ? - disse Rubens. "Sta poco bene ?"
"Non è niente, Oreste" - rispose automaticamente il giudice. "Grazie."
Rubens era il più rude, ma certamente il più acuto dei suoi impiegati. Lesse
prontamente quell'eccitazione insolita scritta sulla sua faccia, e gli sembrò strana,
addirittura pericolosa: tutti conoscevano il giudice per la sua forza d'animo, e ne
apprezzavano l'equilibrio interiore e la sicurezza di fronte agli eventi. Non era bello
vederlo ridotto così, abulico, stanco. Misterioso. Per naturale curiosità nei confronti
delle vicende altrui, provò a informarsi sulle ragioni di quel cambiamento:
"Se c'è qualche problema, lo dica pure a me..." - gli ripeteva, cercando di apparire
comprensivo e amichevole. Ma il giudice, che si era finalmente alzato dal divano e si
era rimesso alla scrivania scrollandosi di dosso le ragnatele e la lanugine, evitava
accuratamente ogni sfogo. In realtà Rubens voleva tentare di scoprire quelli che lui
chiamava aspetti umani in un personaggio che non credeva ne possedesse alcuno,
tanto era il suo distacco apparente dalle cose quotidiane. Voleva diventare suo
complice in una storia qualsiasi, e fu sul punto di chiedergli se quella sera avesse per
caso voglia di uscire, di giocare a biliardo, di gridare sotto le finestre di qualcuno, di
andare insieme a puttane, di vivere, insomma. Non lo fece solo perchè aveva un
innato rispetto per la sua autorità. Ma continuò a informarsi insistentemente sulla sua
salute e sui suoi desideri, senza ottenere risposta. Quelli come Rubens, pensò il
giudice, in fondo conoscono la vita meglio dei filosofi, perchè ne accettano le
contraddizioni e le bassezze senza confrontarle con i cosiddetti momenti cruciali
dell'esistenza - che forse non concepiscono neppure - e senza interrogarsi mai su ciò
che i saggi ritengono una condanna o definiscono una gioia. Quelli come Rubens
avrebbero potuto istruirlo sulle piacevoli noie della realtà quotidiana meglio di un
romanziere, e sul modo stesso di corteggiare una ragazza molto più giovane di lui ne
sapevano certo una più del demonio. Quelli come Rubens non si innamorano di
nessuno in particolare, ma vogliono sinceramente bene a tutti. Se accetti il loro aiuto,
se lasci che ti comprendano, si infilano nella tua anima e non ti abbandonano più. E
questo non è il momento: il giudice non vuole la complicità di Rubens, gli basta la sua
ammirazione, e si rende conto che solo recitando fino in fondo e nel migliore dei modi
il suo ruolo di pubblico ufficiale potrà difendere la sua sfera privata, che da quel giorno
non sarà più trasparente come il cristallo, ma incerta come la nebbia. Di conseguenza,
agisce, mettendo, ad esempio, per qualche giorno almeno, un entusiasmo nel lavoro
ben superiore a quello consueto, dimostrandosi così rapido nelle decisioni, puntuale
nelle richieste ed efficiente nell'organizzazione dell'ufficio che tutti, e Rubens per
primo, non avrebbero potuto far altro che esprimere, apertamente o in cuor loro, un
generale apprezzamento, dimenticando rapidamente tutto il resto. Cercando così di
appagare la stessa vanità che lo aveva turbato, anche se la sincerità degli impiegati
sarebbe stata dovuta più al riconoscimento della sua superiorità di professionista che
all'apprezzamento critico del suo stile di uomo, che solo una donna avrebbe potuto
cogliere. Trovando così, pur senza dimenticare l'impegno preso con Matteo, un'ottima
scusa per non occuparsi di quell'oscura storia, di cui aveva colto fino a quel momento
solo la visione più bella, senza scoprire nulla di interessante o di certo. Finchè lo
stesso Matteo, ignaro, non telefonò per informarsi timidamente sui suoi progressi. Fu
proprio Rubens a porgere al giudice la cornetta:
"Un certo Matteo" - gli disse, sottolineando il suo disinteresse con un gesto delle
labbra.
Il giudice fu turbato da tanta indifferenza. Prese il telefono e rispose seccamente alle
richieste del ragazzo:
"Lara è morta" - affermò, perentorio. "Per il momento non posso dirti nient'altro".
Aveva mentito, e soprattutto a sè stesso: la malinconia riapparve, rapidissima, sotto
gli occhi di Oreste, subito dopo il click.
Paul Brill
Paesaggio con Mercurio e Argo
Olio su tela
Torino, Galleria Sabauda
Il giudice prese la penna, malvolentieri, e pensò di scrivere una lunga lettera. Caro
Matteo - immaginò di mettere in nero su bianco sulla carta - la tua gioventù ti salva
dalle tentazioni degli uomini maturi. Alla tua età, quando pensavo a una donna, e
cercavo di raffigurarla nella mente, vedevo subito i suoi occhi e i suoi capelli.
Nient'altro. La donna era il volto, e un volto era sufficiente a eccitare la mia fantasia.
Ora non posso fare a meno di pensare alla bellezza di una donna mentre le sue tenere
labbra fingono di baciare il mio fallo eretto, mentre le sue mani accarezzano i miei
fianchi, mentre le sue natiche si allargano e si stringono. Forse la tua opinione di me
cambierà, ora che ti dico questo. Ma non posso farne a meno, e credo, dopo tutto, che
confessare apertamente la mia debolezza sia l'unico modo per spingerti a considerarmi
un amico. Ho conosciuto una delle protagoniste della storia, la donna che tutti
chiamano Monica, anche se non è il suo vero nome. Dovrei scriverti per riferirti ciò che
ho saputo da lei, e invece sono qui, che vorrei parlarti per ore delle sue anche, delle
sue gambe, dei suoi seni, della sua schiena, della sua nuca, della peluria profumata
che ricopre il segreto del suo sesso. E poi, perchè la sua figura sia completa, anche dei
suoi occhi e dei suoi capelli. Hai tutto il diritto di credere che sono un pessimo giudice,
e ti garantisco che comincio a pensarlo anch'io. Non so esattamente che cosa mi stia
succedendo. Non è l'amore - come in un primo momento mi era sembrato - ma il
desiderio che alimenta le mie visioni. E il desiderio scompone ciò che l'amore affida
agli occhi e ai capelli di una donna in tante parti separate tra loro, sublima il corpo in
un catalogo di elementi, ognuno dei quali vorrei toccare, poichè il tutto è
irraggiungibile. L'armonia, l'armonia non è altro che poter disporre nello stesso
momento di tutti quei frammenti che mi accontenterei di possedere separatamente.
E'il riformarsi spontaneo di una persona dietro una serie di attributi di femmina. Ti
stupisce, che io giunga a simili conclusioni ? Sei giovane. Tu non corri ancora il rischio
di perdere di vista la totalità, tu non credi certamente che la lista dettagliata delle
apparenze valga più delle prime impressioni d'insieme. Eppure, per poter esprimere
un giudizio, l'opinione che si forma in noi deve essere sorretta da un confronto tra
sensazioni esatte e riconoscibili, e non dall'istinto. L'istinto serve soltanto a mettere in
movimento il desiderio di conoscere. E amare profondamente una donna significa
imparare a conoscerne ogni centimetro di superficie, e ad apprezzarlo per quello che
è: la sua bellezza sarà una somma, solo allora niente potrà più dividerla dal risultato.
L'amore che sapremo darle sarà il frutto maturo della perfetta conoscenza che
abbiamo di tutti gli angoli di lei. Così pensò di scrivere, ma non scrisse nulla. E quando
incontrò Matteo, poichè comprendeva perfettamente che il ragazzo aveva bisogno di
continui segnali di amicizia, gli propose di accompagnarlo sulle montagne delle rocce
appiattite, a disseppellire fossili - pare che ce ne fossero anche in quella zona - e a
respirare un'aria più pura di quella della città, correre via, dimenticare. Le colline non
erano lontane. Si incamminarono direttamente dalla piazzetta dove si erano dati
appuntamento a mezzogiorno, scendendo, fuori da porta Romana, per una ripida
discesa completamente delimitata da bassi muretti, alcuni dei quali, sulla cima,
conservavano tracce della barbara usanza di difendere la proprietà dell'orto con cocci
aguzzi e spezzoni arrugginiti di filo spinato. La discesa si perdeva nella periferia. Una
specie di deserto che sembrava più esteso di quanto non fosse nella realtà, tracciato
da una dritta via polverosa e segnato, come se fosse l'America, da qualche storto palo
del telefono, qualche bidone di metallo arrugginito, una lunga linea ferroviaria, sterpi
volanti, stazioni di servizio fluorescenti. Se proprio avessero voluto attribuire un
particolare significato alla loro passeggiata, difficilmente avrebbero trovato un
correlativo oggettivo negli spezzoni degli oggetti abbandonati lungo il percorso.
Fuggirebbero a nord dell'autostrada nelle grandi occasioni. Ma non adesso, mentre
desiderano entrambi un diversivo. Alle fondamenta delle gole il paesaggio esplodeva
finalmente nella sua incontaminata consistenza selvaggia. La strada diventava un
sentiero, le cui banchine si confondevano con l'erba del primo sottobosco.
Camminarono ancora a lungo, il giudice e Matteo, ma si fermarono quando furono in
vista dell'antico ponte a schiena d'asino. Il giudice lo indicò con la mano e parlò al
ragazzo di certe vecchie credenze, secondo cui il ponte era stato costruito dal diavolo
in una sola notte. L'Europa intera era costellata di ponti gettati dai demoni. Dovevano
essere attraversati senza indecisioni: il pericolo della tentazione era in agguato al
centro dell'arco, nel punto più alto della balaustra. Le povere anime dei vagabondi
potevano precipitare senza scampo nei gorghi del fiume, se non riuscivano a superare
la prova dell'incertezza e della velocità.
"Bisogna ammettere che queste vecchie superstizioni hanno il loro fascino." Disse il
giudice.
"Non ci crederà mica !?" Azzardò Matteo.
"No, naturalmente. Cercavo soltanto di analizzarne la struttura narrativa, e di
apprezzarne l'originalità."
Il ragazzo sorrise. Probabilmente, non afferrò del tutto il senso della risposta. Poi, più
timidamente, cercò di tornare all'argomento che lo interessava:
"Ha saputo qualcosa di più, a proposito di Vivarium e di Scalabrino ?"
Il giudice si guardò intorno come un pittore in cerca di ispirazione o come un maestro
prima della lezione.
"Sai che cosa ti dico. Che vorrei pensare a Vivarium come al corpo di una bella donna.
Non ha senso cercare di capirlo. E'meglio limitarsi a contemplarlo, o immaginare di
possederlo. Ecco, non possiamo fare altro."
Matteo osservò il giudice attentamente, e il giudice proseguì:
"Non so dirti che cosa sia successo a Vivarium, nè che cosa ne sia stato di Scalabrino.
Ma, quello che conta di più, è che non me la sento di affrontare il problema in questi
termini. Spero che tu possa capirmi. Non è accaduto niente di irreparabile. Per quello
che mi riguarda, potrei anche archiviare il caso. Oppure potrei dirti che Scalabrino ha
cercato di concretizzare l'utopia di una comunità di saggi concepita a sua immagine e
somiglianza, e che per la delusione di non essere riuscito nell'intento è fuggito, in
cerca di solitudine, di ascesi. Ma questo lo sai già. A che varrebbe ripeterlo ? Sì. Come
magistrato dovrei assolvere Scalabrino per non aver commesso il fatto. Ma come
amico lo invidio, anche se non riesco a capirlo. Non dovrei dirtelo, proprio io, ma
comincio a credere che gli uomini non si debbano giudicare per quello che sono e per
quello che fanno."
"Può darsi che abbia ragione, signor giudice."
"Non mi chiamare signor giudice."
"Mi scusi. Ma non credo a ciò che ha detto. Continuo a pensare che Scalabrino sia in
pericolo, o abbia brutte intenzioni. E questo significa che Vivarium non può essere
stato soltanto qualcosa che doveva accadere e non è accaduto, ma molto, molto di
più. Almeno per lui. Se voleva dimenticare quello che era successo, se voleva
rimanere solo, perchè mi ha cercato, perchè mi ha dato quelle lettere ? A me, uno
sconosciuto !"
"Vivarium ! Che bel nome ! Qualunque cosa sia stata, è finita, come finiscono tutte le
esperienze umane. Può essere stato il tentativo di realizzare un sogno, di dare forma a
un'idea. E c'è chi nelle idee crede troppo, tanto da dedicare loro la vita. Scalabrino è
uno di questi. Tu non lo conosci bene. Non è capace di accettare la realtà della
sconfitta. Deve fuggire, di fronte alla delusione. Fugge per sopravvivere, per non
morire di disperazione. Ma come tutti gli intellettuali, prima di fuggire, vuole lasciare
la memoria di ciò che ha fatto o ha immaginato di fare. E sceglie te. Per caso.
Credimi: Scalabrino non è scomparso per disperazione, ma per eccesso d'amore, e da
questo punto di vista non importa nemmeno sapere se Vivarium sia stato un
monastero, uno scriptorium, una fortezza, un falansterio, la città del sole o la
repubblica dei filosofi. Niente sarebbe cambiato. Così sarebbero andate le cose."
"No. Questa volta no" - disse Matteo, velato di tristezza - "Lara è morta. E le cose
cambiano."
"Anche a me hanno parlato di Lara come se fosse morta da tanto tempo. Ma forse non
è mai esistita, forse è il nome di qualcuno che Scalabrino ha resuscitato con
l'immaginazione. Non si può dire con sicurezza quando muore un essere umano che è
vivo soltanto nella fantasia di un altro essere umano."
"Non credo che sia così semplice. Scalabrino ha parlato spesso di lei. L'amava. E se
Lara è veramente morta, lui non tornerà, non lo rivedremo."
Il giudice non parlò più. Gli dispiaceva constatare che nell'espressione di quel ragazzo
così giovane la naturale allegria dell'età era già scomparsa, e che la capacità di
dimenticare il dolore propria dell'adolescenza si era già trasformata in una malinconica
consapevolezza del persistere della memoria. L'unico fossile che trovarono fu quello di
una bottiglia. Il mondo, visto attraverso il vetro scuro e polveroso, sembrava soltanto
un grigio orizzonte velato di nubi, al di sotto del quale ogni essere umano, ogni
animale, ogni albero, perfino la città, apparivano insignificanti. Decisero di seppellirla
di nuovo. Sarà una meravigliosa scoperta, tra qualche milione di anni.
Rembrandt Van Rijn
La lezione di anatomia del dottor Tulp
Olio su tela
Den Haag, Mauritshuis
La poltrona in legno di betulla curvato disegnata da Alvaar Aalto nel 1935 per Artek
non somiglia affatto a una poltrona: non è imbottita, non ha molle, non è reclinabile, e
non possiede neppure un nome che permetta di identificarla tra tutte le altre. Est, si
potrebbe dire, telegraficamente. Questo significa, tuttavia, che la sua stessa esistenza
deve in qualche modo essere provata e giustificata. Per scoprire che essa è
determinata dalla pura funzione, che consiste solamente nel sedersi; poichè sull'asse
di quel bellissimo legno scandinavo che ne costituisce la struttura, sagomato in una
sola rigida forma tra tutte quelle possibili, non è lecito distendersi, stravaccarsi,
assopirsi, incrociare le gambe o stiracchiarsi, come si farebbe su qualsiasi altra
poltrona. La prima volta che il giudice la vide non provò emozioni di sorta, e non si
stupì della propria apparente insensibilità di fronte all'oggetto. Una poltrona, pensò,
non è che un mondo dove stare seduti, e il mondo è multiforme, è vario, ci appare
sempre diverso da come credevamo che fosse, sempre nuovo. Nella sostanza, non
riconobbe a quell'oggetto la dignità di poltrona, e scambiò per un incidente di
percorso, per il gioco di un designer, ciò che in realtà era un raffinato esercizio della
ragione costruito su diagrammi invisibili. Fu soltanto utilizzandola che cambiò la sua
opinione. Era l'ultima rimasta libera nella sala d'attesa del suo dentista. Probabilmente
anche agli altri presenti aveva dato l'impressione di qualcosa che non è ciò che
sembra, e nessuno l'aveva deliberatamente scelta, lasciandola, extrema ratio,
all'ultimo arrivato. Ora, dice il saggio: se non puoi aggirare l'ostacolo, sieditici. E così il
giudice, rassegnandosi all'idea di essere lo strumento involontario di un esperimento
di ergonomia, si avvicinò alla betulla e piegò le gambe all'indietro. Con cautela, per
evitare di perdersi all'interno di quel sistema di forze e di linee in cui, evidentemente,
non si poteva sprofondare, come dentro qualsiasi altra poltrona, ma solo sedersi, o,
meglio ancora, compiere un'insolita azione per descrivere la quale sarebbe stato
necessario coniare un verbo adatto, che però non gli venne in mente. Infine si decise,
e fu subito piacevolmente sorpreso dalla comodità del sedile, tanto che istintivamente
gettò su tutti i presenti - alcuni dei quali lo avevano seguito morbosamente mentre si
sacrificava in nome della scienza empirica - un'occhiata di sfida, accompagnata da un
sorrisetto ironico, quanto bastava per far capire loro che avevano perso qualcosa. Ma
sì, la sedia di Alvaar Aalto è davvero comoda. Ma non per questo è una poltrona. Non
per questo favorisce la distrazione. Il tempo dell'attesa è sempre più pesante della sua
durata reale, e non esistono supporti capaci di abbreviarlo, soprattutto dal dentista,
quando il nostro numero è troppo alto e il nostro turno deve ancora venire. In breve, il
giudice si ritrovò a dover fare i conti con la noia - che non è poi così grave come
sembra - e poi con la consapevolezza della totale inutilità di ciò che sta accadendo che è invece una delle poche sensazioni veramente terribili che un essere umano può
provare nella vita, forse seconda soltanto al dolore fisico prolungato. Per combattere la
noia, durante l'attesa dal dentista, la natura offre tre soluzioni elementari: la prima
consiste nell'accettare di dialogare con gli altri pazienti seduti nella saletta, cercando
di dimostrare loro quanto il nostro mal di denti sia più forte e più difficile da
sopportare di quello di chiunque altro o, in alternativa, di lamentarsi sull'attuale
situazione del paese, l'inefficienza delle poste, la disonestà della classe dirigente,
l'esosità delle tasse e il prezzo della carne di primo taglio; la seconda nello sfogliare
molto velocemente i giornali e le riviste disponibili, perchè è così che dal barbiere si
sfogliano Playboy, Playmen o Excelsior, mostrando un certo disinteresse per quelle
donne nude distese sulle pagine aperte o negli inserti, ovvero simulando abilmente la
distrazione; la terza possibilità, infine, si risolve nel vagare con lo sguardo nel vuoto,
passando in rassegna tutte le litografie appese nella stanza, che in genere riproducono
scheletri in movimento, braccia senza pelle, fasci di muscoli messi a nudo, gengive
scoperte e radici cariate enormemente ingrandite. Il giudice scartò la prima ipotesi,
considerandola tra tutte la più detestabile. Constatò che nessun dentista è abbonato a
Playboy, Playmen o Excelsior, e che non si possono sfogliare svogliatamente
Panorama, L'Espresso, Epoca, L'Europeo, King, Moda, Bell'Italia, Airone e National
Geographic, poichè lo snobismo può permettersi di eccedere su tutto, ma non può
essere eccessivo. Infine, rabbrividì al solo pensiero di trovarsi di fronte all'immagine
incisa di un corpo anatomizzato, e si ricordò di medicina legale, il più terribile esame
di tutto il suo corso universitario. Così lontano nel tempo e nello spazio che gli venne
voglia di lasciarsi andare ai ricordi. Laurea in Giurisprudenza. Febbraio 1968. Era
giovanissimo e già stimatissimo. Il professore di procedura penale lo chiama alla
cattedra e gli chiede di dimostrare agli altri allievi su quali elementi debba essere
impostata un'istruttoria, e come possa essere adeguatamente sostenuta. Facendo un
esempio, se possibile. Lui, attacca. Illustri e gentili colleghi. Cominciare con una
formula è d'obbligo. Tutti ascoltano più attentamente, dopo, soppesavano le parole,
analizzano i gesti. Vorrei richiamare la vostra attenzione su ciò che sto per dirvi,
poichè il caso che stiamo affrontando potrebbe rivelarsi ben più importante di ciò che
sembra. Di fronte al cadavere di Vivarium, signori, non possiamo rimanere del tutto
insensibili, come pure vorrebbero le consuetudini della nostra professione. Il problema
che ci è stato chiesto di risolvere è troppo strano perchè il nostro approccio sia
improntato al puro spirito delle leggi, nè può aiutarci una dose di esprit de finesse, che
come tale è forse sufficiente a sciogliere un mistero, ma si dimostra tuttavia inefficace
quando perfino i contorni dell'enigma sono oscuri in partenza, e la sua soluzione non
può essere improntata alle dinamiche della logica, per quanto esse siano liberamente
manipolabili. La ragione non serve in un questione nella quale l'immaginazione ha un
ruolo più importante della realtà stessa. Sarà allora nostro dovere compiere uno sforzo
che vorrei definire di simpatia, dimenticando se necessario quei precetti non scritti che
guidano il nostro stesso agire. Le circostanze apparenti di questa indagine sono note a
tutti: non è stato commesso alcun reato, non dobbiamo scoprire alcun colpevole, nè
difendere un innocente. Non è quindi necessario istruire un processo seguendo alla
lettera il regolamento. Si tratta tuttavia di stabilire, mi correggo, di desiderare di
stabilire, che cosa sia accaduto, e perchè sia accaduto, e questa, cari colleghi, se ci
pensiamo bene, è la sostanza stessa del nostro lavoro, anche se, in questo caso, non
esiste una ragione di fatto per essere obbligati a svolgerlo. E'anche per questo che
faccio appello al vostro senso di responsabilità: siamo finalmente liberi non solo di
giudicare, ma di stabilire gli stessi criteri della sentenza che decideremo di emettere,
se ci sembrerà opportuno farlo, e liberi di definirne le motivazioni. Siamo cioè nelle
stesse condizioni di ogni vivente. Ed è proprio in questa occasione che dobbiamo
dimostrare, prima di tutto a noi stessi, che cosa è la giustizia, e fino a che punto essa
è penetrata nei nostri cuori. Vedo nei vostri sguardi la perplessità propria di tutti
coloro che si trovano di fronte ad una situazione nuova. E tuttavia voglio ricordarvi che
ogni caso dovrebbe essere considerato una novità assoluta, anche se ci appare
semplice, o simile a infiniti altri, di cui già conosciamo l'esito. Sappiamo tutti che solo
applicando con rigore e senza pregiudizi un metodo di indagine potremo giungere a
una parvenza di verità, quale che essa sia, quali che siano gli indizi capaci di rivelarla
o le prove che potrebbero nasconderla. Ma sappiamo anche che il metro del nostro
giudizio non potrà essere astrattamente depositato: esso dovrà adattarsi alle misure
dell'oggetto della nostra attenzione, per definirlo meglio, e per essere più giusti nei
suoi confronti. E neppure questo potrebbe essere sufficiente, perchè potremmo
trovarci di fronte ad oggetti non misurabili in alcun modo. In quel caso, dopo aver
verificato fino a che punto i nostri parametri sono applicabili, dovremmo inventarne di
nuovi, farci guidare non più da una scelta cosciente tra due sole possibilità, il giusto e
l'ingiusto, il colpevole o l'innocente, ma dalla volontà di capire la semplice diversità tra
le infinite ipotesi che, pur senza spiegare nulla, indirizzano l'agire degli uomini. E'così
che vi chiedo di procedere. Su binari in parte già tracciati, in parte cercando di
tracciare un sentiero in un territorio sconosciuto e infido. Seguendo un nome suadente
e terribile, braccando ogni uomo libero e volentieri ascoltando ragioni diverse. So che
è molto difficile chiarire un concetto che per sua stessa ammissione non può essere
chiarito. Vi prego, dunque, di ascoltare la sommaria ipotesi d'azione che ho elaborato,
perchè nella pratica, paradossalmente, potrebbe risultare possibile ciò che nè la teoria,
nè la dottrina, sono in grado di accettare come plausibile. Ecco, dunque, che cosa sto
pensando di fare per affrontare correttamente il caso Vivarium. Primo: effettuare una
ricerca negli archivi per verificare se sull'argomento esista o meno una
documentazione di qualsiasi
genere. Secondo: ricostruire, attraverso la
documentazione esistente, le caratteristiche e le finalità dell'oggetto dell'indagine.
Terzo: individuare esattamente i nomi di tutte le persone coinvolte, ovvero di tutti
coloro che hanno contribuito ad elaborare l'idea, o che in essa hanno creduto. Quarto:
convocarle separatamente o cercare di parlare con ciascuna di loro per raccogliere una
serie di testimonianze oculari sull'accaduto e contemporaneamente chiedere loro conto
delle ragioni che lo hanno determinato. Quinto: confrontare le testimonianze raccolte
con quanto scaturisce dalla documentazione, se questa esiste. Sesto: verificare i
risultati dell'indagine così condotta con tutti coloro che possono contribuire ad un
chiarimento complessivo, e in particolare con Matteo o con altri osservatori esterni.
Settimo: sforzarsi di considerare avvincente questo caso, che in fondo non esiste.
Siete perplessi ? Eppure non ho ancora finito. Ultimo: Monica, ovvero Eva Maria Silvia
Domenica Primavera, la bellissima giovane donna, incontrastata signora della mia
mente da più di una settimana, si accorgerà di me, un giorno ? E che fare, con lei ?
Accettare senza condizioni l'idea, la speranza di amarla ? Signori, un momento ! Dove
andate ? Come potete sperare di diventare giudici se non sapete perdonare un segno
di debolezza ! Colleghi, per favore ! Forse non è di Vivarium e della sua sorte che
stiamo parlando. Forse davanti ai nostri occhi che non vedono c'è davvero il corpo
inanimato di un essere umano, che di quella esperienza è stato vittima. Forse le
vittime sono due. Dobbiamo sapere ! E se per sapere bisogna amare, dobbiamo
amare, anche se per amare non occorre sapere altro. Aspettate !
"Signor giudice, prego, tocca a lei." Disse, inaspettatamente, la voce dell'infermiera. Il
giudice si scosse dal torpore della fantasia. Non era poi passato molto tempo da
quando era arrivato. Gli appuntamenti del dentista sono quasi sempre molto precisi, e
il dentista è molto bravo: o almeno è inevitabile ripeterlo a sè stessi passando dalla
nuda poltrona di Alvaar Aalto al sedile attrezzato del medico, rivestito di tutti quegli
straordinari strumenti di tortura.
"Non mi farà del male, vero ?"
"Si rilassi. Non si preoccupi. Non sentirà nulla."
Jean-Leon Gerome
Frine davanti all'Areopago
Olio su tela
Amburgo, Kunsthalle
"Posso parlare, signor giudice ?"
Rubens si era seduto senza chiedere alcun permesso, e con il tono confidenziale che
chi non lo conosceva avrebbe potuto scambiare per irriverenza verso il suo superiore
stava aspettando che il giudice mettesse giù la cornetta del telefono e si degnasse di
ascoltarlo. Il giudice si limitò a fare un cenno con la mano, e chiunque avrebbe capito
che ben altre cose passavano per la sua testa in quel momento. Ma non Rubens, che
prese il gesto alla lettera, come una pacata approvazione, e cominciò a leggere tra i
fogli che teneva in mano:
"Dunque, signor giudice, risulta dagli atti che i componenti del gruppo chiamato
Vivarium, con sede ignota - nè si sa dove si riunissero - non costituivano grave motivo
di turbamento dell'ordine costituito secondo la Costituzione. Costituito secondo la
costituzione. Bel gioco di parole, no ?"
Il giudice appoggiò delicatamente il telefono e fece un altro cenno.
"Essi, i componenti, si limitavano a: primo, stilare elenchi di parole che a detta di loro
medesimi andavano eliminate dai vocabolari, inviando detti elenchi alle case editrici, e
talora praticando fisicamente l'eliminazione delle parole suddette mediante pennarelli
o altre matite indelebili su alcune copie in possesso della locale biblioteca, fatto per il
quale uno dei componenti il gruppo è stato sottoposto a denuncia, poi ritirata subito
dopo, immediatamente, perchè il fatto non costituisce reato. Secondo, a colpire e se
possibile distruggere, ma in modo che sembrasse un incidente, alcuni oggetti,
massime - c'è scritto così, non so che vuol dire, ma c'è scritto così - televisori e altre
macchine moderne. I componenti dell'associazione, che non risulta regolarmente
registrata presso gli appositi uffici, erano sei o sette. Un tale Scalabrino, che era il
presidente, e altri, tra cui una signorina che si chiamava - ascolti bene, perchè è
divertente, è incredibile - Eva, Maria, Silvia, Domenica, Primavera. Ma tutti i nomi
insieme, scritti di seguito sulla carta d'identità. Pensi, quando deve fare la firma.
Infine, era iscritta al gruppo, pare, anche la fidanzata di Scalabrino, che si chiamava,
aspetti un momento, ecco, Lara; c'è un appunto a parte, perchè i carabinieri non sono
riusciti a identificarla, a differenza di tutti gli altri. Vuole che le legga i nomi per esteso
e tutti gli indirizzi, signor giudice ?"
"No, grazie, non importa, lascia pure qui sopra il fascicolo. Penserò io a contattarli, se
sarà necessario."
"Di che si tratta, signor giudice ?" Provò ad insistere Rubens. "E'un'indagine delicata ?
Droga, pornografia, sfruttamento della prostituzione ? Qualcosa del genere ?"
"Questo non è un film, Oreste."
"Che c'entra il cinema, signor giudice ? Certe cose sono vere. Lei lo sa meglio di me."
"Voglio dire, Oreste, che a volte non è necessario che ci siano di mezzo certe cose,
come dici tu, perchè un giudice indaghi. Al cinema è sempre così, ma nella realtà può
essere diverso."
"Non la seguo. Io vado al cinema perchè mi piace vedere, che so, un bel massacro,
con le vittime che si contorcono quando sono colpite. C'è movimento, c'è azione, è
qualcosa che ti prende per la gola. Non mi fraintenda. Mi piacciono anche certi film
romantici: quando vedo qualche bella ragazza che si perde nei suoi sogni al chiaro
della luna, a volte mi vengono le lacrime. E'questo il cinema."
Il giudice alzò le sopracciglia e allargò leggermente le spalle. Non è che volesse salire
in cattedra e dare a Rubens una lezione, ma, insomma, ebbe la tentazione di farlo.
Rubens si accorse che il giudice non era d'accordo nemmeno con una sola delle sue
affermazioni, e volle provocarlo:
"Perchè, per lei che cos'è il cinema ? Eh ? Non è mica facile. E'la classica domanda da
un milione di dollari."
"Il cinema ? E'un messaggero d'amore" - disse il giudice, con l'aria soddisfatta di chi
sente di essere riuscito a sintetizzare in una sola metafora una miriade di problemi
complessi. "Proprio così, un messaggero d'amore."
Rubens lo ascoltò con sincera ammirazione:
"Bello, come concetto" - disse. "Lei è un'appassionato di cinema ? Non lo sapevo. Però
non mi ha ancora detto di che indagine si tratta" - aggiunse, mentre passava
l'incartamento al magistrato.
"Non è neanche un'indagine." Rispose il giudice, che sapeva benissimo che in certi casi
è sempre meglio ammettere più del necessario ma farlo in modo tale da lasciare
qualche dubbio. Intanto aveva preso il fascicolo, e lo stava sfogliando rapidamente.
"Ne conosco uno, è un professore. Una brava persona, forse un po'pazzo, ma proprio
una brava persona."
"Mi scusi se insisto, signor giudice. La gnocca, insomma, la biondona che era qui da lei
l'altro ieri, c'entra qualcosa in questa storia ?"
Il giudice sospirò. Sospirava sempre ogni volta che Rubens parlava di una donna.
L'espressione di quel ragazzone senza età si illuminava quando poteva arrivare a ciò
che per lui era l'unico cuore di ogni discorso, e il giudice aveva imparato a
controbattere quel lampo di innocente morbosità sempre uguale a sè stesso con un
sospiro altrettanto monotono. Non sapeva neppure lui perchè si atteggiasse, così come
stava facendo, a padre indulgente, ma era sicuro di doverlo fare, in un modo o
nell'altro.
"Perchè lo vuoi sapere ?" Disse infine, paziente.
"Mah, se dovesse tornare saprei di che cosa si tratta." Disse Rubens, fingendo
diplomazia.
"Oreste, dimmi la verità, la gnocca, come dici tu, ti piace, non è vero ?"
Rubens allargò le labbra e quasi si leccò i baffi:
"Eh, quella è una che fa perdere la testa soltanto a guardarla, signor giudice, glielo
dico io. Quella è una dea !"
"Ma pensa ! Che novità, Oreste ! Per te tutte le donne sono uguali, non è vero ?" Si
trattenne dallo scrollare le mani giunte avanti e indietro solo perchè gli venne in
mente che quasi tutti i magistrati lo fanno, chi sa poi per quale oscura abitudine.
"No, non sono tutte uguali, signor giudice. Mi piacciono tutte. Ma questo non vuol dire
che sono tutte uguali. Anzi. Come faccio a spiegarle....." Rubens tracciò istintivamente
una forma nell'aria, la forma di un violoncello, o quella di una donna in carne.
"Lascia perdere, che qui abbiamo tanto da fare." Tagliò corto il giudice, che del resto
non amava discutere sullo stesso argomento più dello stretto necessario.
Rubens lo sapeva, e non volle insistere. Si alzò e si allontanò verso la porta, lasciando
sulla scrivania il piccolo fascicolo giallo intestato Vivarium.
"Grazie, Oreste. Se mi fai mandare un caffè...."
"Di niente."
Stava quasi per dire "se torna la gnocca mi avverta", ma si trattenne. Nei confronti del
giudice provava una reverenza particolare: si sentiva come la pecora nera di fronte al
capo della famiglia, e dire che non si vergognava di nulla e di nessuno. Il giudice era
l'unico essere al mondo che non poteva permettersi di contrariare. Ma non sapeva in
quale altro modo definire quella bellona. Gnocca gli era sembrato il termine giusto.
Certo, poteva usare mille altri termini, narda, bella fica, stanga, topa, bonazza. Il
concetto era lo stesso. Ma forse certe parole più volgari potevano urtare la sensibilità
del giudice, che non aveva mai pronunciato una sola parolaccia, almeno in sua
presenza. Il nome non lo conosceva, bionda era troppo generico, e poi non è che fosse
proprio bionda. Gnocca, gnocca era la parola esatta. Certo, però, che non poteva
continuare a chiamare gnocca una donna. Il giudice, in fondo, aveva ragione. Anche le
gnocche hanno un'anima, c'è qualcosa che le contraddistingue. Ed è vero che le donne
non sono tutte uguali. Certe sono meglio di altre. Se quella tornasse in tribunale
completamente nuda, anzi, con un bel mantello addosso, e a un certo punto, a metà
strada tra l'archivio e la sala delle udienze, via, via il mantello, il giudice se ne
renderebbe conto, di che cosa vuol dire. Chissà che faccia farebbero quelli della
cancelleria ! Una donna come quella, tutta nuda, fresca, belle tette, bel culo, proprio
qui, che le poche impiegate, per capire che sono femmine, ti devono dare il
documento. Anche il giudice direbbe bella gnocca, anche lui. E dopo non ci sarebbe più
bisogno nemmeno di darle un nome. Una donna completamente nuda, è qualcosa che
rimane nella mente, è quella la sua vera carta d'identità. Se ne potrebbe parlare
perfino col giudice. Ti ricordi ? Era lì, era nuda, era lei. Basta. Basta prenderla. Domani
ci racconteremo com'è quando scopa. Io lo dirò a te, se sarà stata con me, tu lo dirai a
me, se sarà stata con te. Magari mettici una parola buona, io lo farei. Messaggero
d'amore ! Però, che genio, quell'uomo !
Gustave Courbet
L'incontro
Olio su tela
Montpellier, Musée Fabre
Il giudice era un uomo strano, molto diverso sia da tutti gli altri uomini che da tutti gli
altri giudici. Chiunque lo abbia conosciuto può confermare che l'impressione che si
aveva di lui non differiva dalla sostanza. In tutte le cose cercava di mettere l'equilibrio
proprio del suo mestiere, e nello stesso tempo, nel suo mestiere, metteva sempre
qualcosa della sua indole: la sua vita e il suo lavoro, insomma, il suo essere, nella
profondità dell'io, e il suo manifestarsi ai presenti, coincidevano, o meglio, erano una
cosa sola, e questo è davvero un privilegio concesso a pochi. Il giudice era dolce e
gentile con tutti - anche perchè lo era con sè stesso - e tuttavia non era privo di
qualche nevrosi, come tutte le persone veramente equilibrate. Ma la sua nevrosi non si
scaricava mai sugli amici o sui conoscenti, e tanto meno sugli imputati. Si limitava ad
una costante insoddisfazione nei confronti degli oggetti, tutti gli oggetti. Che certo
aveva a che vedere con la generale sfiducia, o meglio, con l'intuitiva diffidenza nella
totalità degli uomini che lo aveva trasformato, da semplice magistrato che era, in un
giudice stimato e reputato saggio, ma che prima di tutto era dovuta al bisogno di
ritrovare in ogni momento della vita i tratti stessi della perfezione, ovvero la giustizia
allo stato puro. Così, prima di fare un acquisto, passava in rassegna tutte le
possibilità, e non decideva mai prima di aver mentalmente acquisito l'intero catalogo
della gamma o aver verificato le caratteristiche - e quindi le differenze - di tutti gli
oggetti di una medesima categoria. Nei negozi si soffermava per ore, e non usciva se
non si sentiva soddisfatto: era un buon cliente, ma un pessimo consumatore. In quei
giorni era alle prese con una poltrona, o una sedia, qualcosa, insomma, che potesse
finalmente sostituire la vecchia e consunta Frau del suo ufficio. Non è che si fosse
proprio deciso a cambiarla, ma in qualche modo sentiva che era arrivata l'ora di porsi
anche quel problema: era lui che stava cambiando, e quel pezzo da museo, dove in
fondo passava gran parte del suo tempo, non gli piaceva più. Grande e bella, la Frau,
monumentale e indistruttibile, così preziosa, ora che la pelle si era assottigliata e
ammorbidita fino a diventare quasi umana; se avesse potuto venderla a un antiquario
avrebbe ricavato di che comprare poltrone per tutto il tribunale. Ma, alla lunga, lo
aveva stancato. D'accordo, la Frau era comoda e spaziosa, aveva il sapore delle cose
durevoli, ma non era adatta alla meditazione e al rilassamento interiore di cui
avvertiva il bisogno in quel momento particolare della sua vita. La vedeva galleggiare
nella stanza da quasi vent'anni, come se fosse nata insieme all'ufficio, una collega
senza occhi e senza parola, e aveva sempre pensato che le pieghe della vecchia pelle
bombata fossero l'ombra magica di quelle signore travestite da dive che dominavano i
salotti, loro regno naturale, nei vecchi manifesti della ditta tedesca, l'impronta di Lili
Marlene. Vent'anni di silenziosa ammirazione. Eppure, da neanche una settimana, ogni
mattina, quando apriva la porta, intuiva in quella forma qualcosa di violento, di
oppressivo, qualcosa di hitleriano. Perfino il nome, benchè non significhi altro che
signora, gli suonava imperioso come un ordine, pericoloso, un invito a sedersi in un
mortale riposo di pelle gelida. E le bombature dello schienale gli ricordavano le canne
puntate di un plotone d'esecuzione. Così si era messo a cercare per mari e per monti
qualcosa di diverso, ma non aveva ancora visto niente che lo colpisse, nulla che gli
sussurrasse, come avrebbe voluto, eccomi, sono la tua nuova poltrona. Ne voleva una
che non fosse nè costosa nè vistosa, nè imponente nè duratura, e tuttavia pretendeva
la buona qualità dei materiali, la comodità, l'accoglienza, la bellezza. Segretamente,
avrebbe desiderato un oggetto pensato e costruito sulla misura dei suoi desideri, cosa
che mal si concilia con gli schemi della produzione industriale, che forse potrebbe
personalizzare per lui un rivestimento, ma non rendere unica la struttura stessa della
sedia. Questo era il giudice: non essendo capace di adattarsi alle cose quel tanto che
basta per costringerle ad adattarsi alla sua persona, preferiva inseguire ciò che
esisteva soltanto nella sua immaginazione: una poltrona che forse un buon artigiano
avrebbe potuto riprodurre seguendo le sue istruzioni, ma che si sarebbe rivelata, col
tempo, una cattiva poltrona. Fu da uno dei migliori arredatori della città che incontrò
due illustri e potentissimi colleghi. Non si era accorto di loro. Stava osservando, più
per curiosità che con interesse, un insieme di poltroncine multicolori che l'architetto
aveva disposto senza un'apparente logica su un enorme tappeto che riproduceva un
prato di sterpi solcato da un sentiero. Sia sulle poltrone che sul tappeto erano seduti
alcuni manichini, e l'effetto era molto estraniante, metà salotto buono, metà
accampamento di nomadi. Alzando la testa, incrociò lo sguardo degli altri giudici, che
lo salutarono con un freddo buongiorno, senza nascondere la loro sorpresa. Non volle
ammettere a sè stesso che erano le ultime persone al mondo che avrebbe voluto
vedere in quel momento, ma se fosse stato un personaggio diverso è certo che lo
avrebbe pensato. Rispose al saluto senza entusiasmo.
"Non mi sono ancora congratulato con voi per la vostra recente nomina- disse loro.
"Ormai siete ai vertici della carriera. Deve essere una bella soddisfazione."
"Ti ringraziamo - gli rispose uno dei due - anche se in magistratura essere promossi
significa che stiamo diventando vecchi."
L'altro rise. La battuta non era che un esercizio di stile e di falsa modestia, era chiaro.
Il giudice si limitò ad allargare le labbra. Non voleva nè apparire invidioso, nè
accondiscendente.
"Tu, piuttosto ?" - Gli chiese il secondo collega. "Vuoi proprio diventare famoso !"
"Cerco soltanto di fare il mio mestiere di giudice. Che sciocchezza ! Voi sapete meglio
di me qual'è il mestiere del giudice."
I due si guardarono per un attimo. Poi il primo prese sotto braccio il secondo e fece
cenno che era l'ora di andare. Ma l'altro continuò, e le sue parole si sarebbero anche
potute interpretare come una velata minaccia:
"Abbiamo saputo che ti stai occupando di un caso molto particolare. Così particolare
che nessuno sa esattamente di che cosa si tratta. Ma chi te lo fa fare ? Dai retta a me,
non perdere il tempo così, per accontentare i ragazzi. Se proprio ti interessa, vieni
pure da me quando vuoi, che ti spiego tutto."
Sentì una vampata d'orgoglio e di rabbia, come l'allievo di fronte all'ebreo errante.
Perchè ? Cerco. Cosa cerchi ? Una riposta. Una risposta a che cosa ? Alle mie
domande. Hai delle domande ? Sì, ne ho. Dammele, te le renderò risolte. Se puoi
rispondere alle mie domande, allora non ne ho più. Non era mai stato un buon allievo,
sotto certi aspetti. Intelligente, sì, ma indisciplinato, irriverente se necessario. E non
aveva voglia di imparare nulla da quei due, quei due che non meritavano nè la
reverenza dovuta ai superiori nè il rispetto dovuto ai saggi. Nulla giustificava la loro
odiosità, e quindi non c'era motivo di credere alle loro parole o di ascoltarli come si
ascolta un maestro.
"Sapete sempre tutto, voi" - disse, pacatamente sarcastico. "Siete proprio bravi. E'per
questo, forse, che siete diventati così importanti. Io faccio indagini che non sarei
tenuto a fare, voi conoscete già la fine di un'indagine che non avete nemmeno
cominciato."
"Sei sempre il solito scavezzacollo." Disse il secondo magistrato. E mentre si
allontanava dette un colpetto sulla spalla del giudice. Non è che fosse un segno di
amicizia, ma così si usava tra colleghi. Il giudice non si mosse e salutò con le
palpebre. Avrebbe potuto fermarla, quella mano, prima di essere toccato; avrebbe
potuto rispondere. Ma credeva sinceramente che la forza di ogni essere umano, la sua
capacità di non piegare la testa, non dipendessero dai suoi gesti: le apparenze
possono essere libertà ibride che uccidono le astratte differenze e legittimano re e yesmen. La diversità reale, pensò, non necessita di un supplemento di informazione.
Basta che sia la compagna fedele del nostro viaggio. Seguì con lo sguardo i togati che
sparivano dietro il cristallo affumicato della porta. E quando, finalmente, se ne furono
andati, tornò a cercare la sua nuova poltrona. Si sentì un po'perduto, in quel deserto
popolato di manichini, sovrano di un popolo senza occhi e senza voce. Poi trovò una
cartolina, apparentemente abbandonata. Mancava perfino l'indirizzo, e il francobollo
non era italiano. Se qualcuno l'aveva dimenticata era stata certo una strana amnesia.
Ma le cartoline, si sa, sfidano, oltre che la sorte, anche l'unica idea che ci si può fare
del futuro. Sono come una palla fatta rimbalzare alla cieca lungo una discesa di scale
per colpire il primo passante che sbuca dall'angolo. Il passante non sa che un
misterioso pallone sta per assalirlo, ma nemmeno chi l'ha lasciato cadere sa se
qualcuno passerà. Eppure, se la cosa accade, sembra impossibile che tante perfette
coincidenze siano frutto del caso. Soltanto la palla lo sa. Il futuro è qualcosa che
rimbalza. O che viene trasportato da mille mani, come una cartolina. Il giudice,
passante in quel momento, la prese e se ne andò. Non si chiese di chi fosse. Non
comprò alcuna poltrona. E non si pose la domanda più semplice: quante sono, nel
mondo, le donne che si chiamano Monica ?
Domenichino
Apollo uccide la ninfa Coronide
Olio su tela
Londra, National Gallery
Il giudice era diventato famoso, se così si può dire, per un caso accaduto qualche anno
prima: era riuscito a far arrestare e a processare il titolare di una società finanziaria
che rastrellava denaro ai piccoli risparmiatori dicendo loro che sarebbe stato destinato
in parte ad operazioni di borsa, in parte al sostegno di una fabbrica di prodotti
alimentari che lavorava nell'ambito di un piano di aiuti al terzo mondo finanziato dalle
Nazioni Unite. La gente si lasciava circuire facilmente da questo signore dalla
parlantina scorrevole e impeccabilmente elegante, e se anche avesse avuto qualche
perplessità sulle finalità dell'investimento, gli alti tassi di interesse che l'imbonitore
prometteva erano sufficienti a convincere anche i più scettici. In realtà il finanziere
usava in ben altro modo il denaro raccolto: comprava armi, a basso costo, dai paesi
produttori, le faceva caricare su dei mercantili perennemente in giro per il mondo e le
rivendeva sulle piazze più interessanti, ottenendo altissimi profitti. In apparenza, nulla
di irregolare. Astutamente, quel commerciante senza scrupoli, comprava là dove
l'acquisto era consentito, e vendeva dove era ammesso. Conosceva anche un sistema
elementare per concludere buoni affari con quei paesi che le Nazioni Unite
consideravano sotto stretto embargo: era sufficiente vendere il carico di una nave nel
porto di uno stato non membro o non aderente al provvedimento (magari in virtù di
qualche trattato bilaterale con l'entità incriminata o perchè la produzione di
armamenti era una voce fondamentale della sua economia), ricomprarlo e farlo
ripartire per la destinazione finale come invio di diversa provenienza. I guadagni erano
così alti che il mercante riuscì per qualche tempo a pagare ai risparmiatori i tassi che
aveva promesso, e nessuno lo denunciò. Fu la passione per l'arte a rovinarlo. Può
sembrare incredibile, ma andò così: il finanziere cominciò a reinvestire i profitti del
traffico d'armi acquistando quadri e sculture di grande valore alle migliori aste
internazionali. Per poterlo fare, fu costretto a spiegare ai sottoscrittori dei titoli che la
borsa andava male e la fabbrica stava perdendo le commesse più importanti, e che
quindi sarebbe stato necessario avere pazienza. La sua casa, intanto, si arricchiva di
splendide opere d'arte. Il gioco durò relativamente poco. La pazienza dei risparmiatori,
si sa, è molto limitata, e dopo uno o due anni di mancato pagamento degli interessi la
prima denuncia arrivò sul tavolo del giudice, che non si era mai occupato prima di
problemi di quella natura. L'ignoranza, paradossalmente, lo aiutò moltissimo: lo
spinse a indagare più a fondo e a scoprire tutti i retroscena della vicenda, così che il
finanziere fu portato in tribunale non solo per rispondere di una normale bancarotta,
ma con l'accusa di falso e di truffa - per aver mentito ai risparmiatori sulla reale
destinazione degli investimenti ed essersi indebitamente appropriato del denaro per
acquisti personali. Fu soprattutto quest'ultimo aspetto a interessare la stampa, che si
occupò per un certo periodo del mercante che frequentava le aste e del giudice che lo
aveva smascherato. Il giudice, leggendo i giornali, fu quasi sul punto di credere che da
quel piccolo episodio sarebbe nata una riflessione sull'etica degli affari nella società
capitalistica; ma le cose non andarono come aveva pensato. La stampa dimenticò ben
presto l'accaduto, e l'imbonitore fu assolto in secondo grado per non aver commesso il
fatto. Vinse, alla fine, la sua linea di difesa, che consisteva nell'affermare che le opere
d'arte che aveva comprato coi soldi dei risparmiatori erano state, in realtà, un buon
investimento, il cui valore, anzi, era cresciuto nel tempo su basi percentuali ben più
cospicue di quanto non fosse dato aspettarsi dai titoli di borsa. I quadri e le sculture
furono messi in vendita, e il ricavato rese ampiamente soddisfatti tutti i sottoscrittori.
Cà, j'ouïs d'où souffle le vent. Il mercante d'armi, così, riacquistò la libertà, e gli
rimasero qualche soldo e un bellissimo Renoir. Il giudice sapeva benissimo che
possedere un Renoir era il sogno dell'imputato fin da ragazzo - glielo aveva confessato
durante un interrogatorio - ma nessuno, ormai, era disposto a riaprire quel caso, e
tutti, del resto, erano contenti che fosse andata così. Soltanto un giornalista, che da
quel momento diventò un suo grande amico, dedicò un elzeviro a una riflessione
sull'argomento. Si limitò a constatare, sia pure con amarezza, che soltanto i furfanti
possono realizzare i loro desideri alle soglie del terzo millennio, e che questo non può
costituire un motivo di orgoglio per l'occidente. Per il giudice fu meglio che niente,
tuttavia passarono anni prima che la sua rabbia sbollisse del tutto. Capì che non
doveva agire ogni volta che sentiva di doverlo fare, ma solo quando le circostanze lo
avessero consentito: il truffatore era libero e appagato perchè lui stesso, prima di
tutto, non si era accorto che quello non era il momento giusto per istruire il processo.
Lo avesse fatto oggi, tutto sarebbe stato diverso, ma allora non si poteva pretendere
di più, non poteva aspettarsi maggior sostegno. Ciò significava che la verità, in quanto
tale, non è la garanzia della legge, ma uno strumento nelle mani della cronaca.
Soltanto il tempo potrà riconoscerle il valore che le spetta di diritto; ma un magistrato
non può pretendere di portare la storia sul banco dei testimoni, e il tempo passa,
spesso, senza che se ne venga a capo, o senza che essa diventi necessaria. Infine
dimenticò l'accaduto, ma si ripromise, se mai gli fosse capitato ancora un caso simile,
dove il confine tra la legalità apparente dei comportamenti e la palese illegalità delle
cause e degli effetti era incerto, eppure determinante, di non commettere più l'errore
di ritenere che la verità fosse rivoluzionaria. Da allora, si era occupato volentieri dei
delitti contro i più deboli e i più innocenti. Ed erano celebri le sentenze di alcuni dei
suoi processi, dove le vittime erano bambini, disabili, immigrati, poveri. Era convinto
che nel mondo si commettessero troppe, infinite ingiustizie contro chi non è in grado
di difendersi nemmeno se lo volesse, e che coloro che le commettono fossero i
peggiori tra i criminali. Molti colleghi lo accusavano perciò di eccessivo protagonismo,
da un lato, dall'altro di perdere troppo tempo in problemi di poco conto, in un paese
che ha bisogno di quelli come lui per affrontare finalmente il nodo dei grandi complotti
che ne hanno inquinato la crescita. Ma non c'era nulla da fare: il giudice credeva
fermamente che un bambino ingiustamente malmenato contasse più di un cadavere
eccellente. I potenti, diceva, potrebbero parlare ma non hanno niente da dire; i deboli,
invece, sono muti che affidano i loro messaggi disperati ai gesti o a qualche parola
scritta su una lavagna immaginaria. Sono gente che chiunque può colpire: amano,
soffrono, ridono, piangono, come tutti gli altri. Poi, un giorno, uno sparo, una freccia
silenziosa affonda nel loro petto e li uccide lentamente; ahi, consolami ancora respiro
mentre evapora l'anima; non sanno nemmeno da dove è piovuta; uno sparo, una
freccia che non potrà mai ferire chi l'ha scagliata. Qualcuno li deve pur aiutare. Non
possono essere ignorati solo perchè non hanno una voce, solo perchè non gridano
quando muoiono, o, se gridano, nessuno li sente, nel deserto dove sono vissuti. La
loro dignità deve essere difesa, ben prima di quella dei corruttori concussi dai corrotti,
che in fondo è discutibile, o di quella del tutto astratta del popolo raggirato dalla
classe dirigente che lui stesso ha eletto. Il giudice se ne infischiava delle critiche. Il
giudice andava avanti per la sua strada. Aveva conosciuto Scalabrino perchè era stato
testimone di un sopruso e gli aveva raccontato tutto, aiutandolo a rendere giustizia
alla vittima innocente. Lo stimava, per questo. Lo ammirava. Aveva visto in lui ciò che
forse avrebbe voluto essere, e non poteva più essere. Sapeva che Scalabrino sarebbe
stato davvero capace di sacrificare la sua stessa vita per salvare quella di un indifeso,
o solo per abbracciare un'ultima volta il corpo esanime di una persona amata.
Tuttavia, di lui conosceva ancora molto poco. Non sapeva esattamente che cosa fosse
stata Vivarium, sebbene ne avessero parlato, a suo tempo. E l'idea che stava
prendendo forma nella sua testa in quei giorni non gli piaceva, lo turbava soltanto. Era
bastato l'arrivo della posta per risvegliare in lui l'immagine sensuale di una donna, e
per trarre deduzioni improbabili, dettate dalla paura e dalla gelosia. Ora, vedeva
Scalabrino come un fauno che insegue le ninfe. Lui, beatissimo tra tutti gli uomini, per
innata fortuna concessagli dal caso o per calcolo cinico e accurato, aveva scoperto un
angolo isolato dal resto del mondo, dove ai fortunati ammessi, scelti perchè belli,
giovani e gaudenti, era concesso gioire senza riserve e vivere in una dimensione
perduta, forse nemmeno mai posseduta da alcuno, se non dall'immaginazione degli
antichi. Con l'amata Lara, ma anche con la bellissima Monica, Eva Maria Silvia
Domenica Primavera, e chissà chi altro. Ma in questa nostra Terra piccola piccola che
abbiamo setacciato in tutti gli angoli più remoti dove mai può nascondersi dagli occhi
indiscreti, sempre in agguato, un simile luogo ? Pensò, senza troppa fantasia, a certe
montagne della Grecia. Le ricordava brulle e assolate, per i pendii deserti e i cespugli
di alloro, e per il silenzio del tutto irreale che le avvolge, talmente cupo, solido e
corporeo che si può sentire perfino con i pori della pelle, eppure così leggero da offrire
anche ad uno sguardo distratto una velocissima sensazione di gioia, no, di felicità,
neppure, di pace. Pace, era la parola giusta. Ma nemmeno lassù ci si poteva
nascondere, ormai, e non ce ne sarebbe stato
bisogno. Così, guardando e
riguardando le cartoline, cercò altre parole, che qualcuno, non si sa come, potrebbe
aver aggiunto nel frattempo. E si accorse solo allora che niente, nemmeno la firma,
garantiva che fossero state spedite dalla bellissima, come aveva subito creduto,
accecato dalla speranza. Un comportamento innaturale, per un giudice, che in un
eccesso di reazione emotiva arrivò perfino a supporre che in realtà quelle parole
fossero state scritte da Lara in persona per metterlo - chissà poi perchè - su una pista
sbagliata, o che volessero ricordare semplicemente una vacanza movimentata al Club
Mediterranèe. Due soluzioni odiose, sia pure per differenti ragioni.
Georges De La Tour
San Sebastiano curato da Irene
Olio su tela
Broglie, chiesa parrocchiale
Proprio quando meno se lo sarebbe aspettato, Rubens rivide quella donna che ormai
chiamava scherzosamente la bella gnocca. Era passato solo qualche giorno da quando
l'aveva notata, di spalle, nel corridoio del tribunale, e per quello che lo riguardava era
un arco di tempo più che sufficiente per dimenticarla. Ma la incontrò in una
circostanza che, anche se a molti potrebbe sembrare normale, era in realtà alquanto
insolita, e la cosa lo colpì. Mezzanotte era passata da un pezzo, e Oreste Liguori, che
si autodefiniva animale notturno metropolitano, girovagava nei viali della città con la
sua spiderina rossa. Gli piaceva scivolare a bassa velocità lungo le strade semivuote,
ascoltando musica alla Lucio Battisti, mentre i fari inquadravano i tronchi degli alberi
piantati sulle griglie di metallo, senza una meta precisa. Passava davanti ai bar o alle
fermate dell'autobus, pianissimo, cercando di farsi notare dalle ragazze non
accompagnate e allumando di profilo quelle del tutto sole, chè di profilo veniva bene.
Se qualcuna rispondeva alle occhiate si fermava, scendeva, si appoggiava allo
sportello e cercava di capire che intenzioni avesse, la pollastra: al contrario di quello
che faceva in ufficio, Rubens, di notte, parlava molto poco. Era convinto che le ragazze
non desiderassero altro che quello che desiderava lui, e che gli sguardi fossero più che
sufficienti per mettersi d'accordo su quella che avrebbe potuto definire ginnastica
vitale. In effetti, più di una volta, grazie a questa semplice tattica, era riuscito a
rendere la serata interessante, aveva rimorchiato, insomma: la città, in fondo, è un
deserto di solitudine, un labirinto di voglie; tutto diventa possibile. Rubens, quella
sera, si stava avvicinando lentamente lentamente alla piazza dei due cavalli, una
vasta spianata lastricata circondata da palazzi di colore rossastro, che la strada che
stava percorrendo tagliava esattamente in due parti, sfociando dritta in mezzo a uno
dei suoi porticati. Quando fu a poco più di venti o trenta metri notò, sotto il loggiato
del lato opposto a quello da cui stava arrivando, una certa animazione. Rallentò per
osservare meglio, e accostò sulla sinistra proprio all'ingresso della piazza. Ciò che
stava accadendo non gli piacque affatto: alcuni uomini avevano stretto a una colonna
un malcapitato, e lo stavano prendendo a pugni e a bastonate. Era troppo distante per
cogliere altri particolari o per vedere chi fosse l'aggredito. Tuttavia era chiaro che gli
aggressori erano almeno tre, e che da solo non sarebbe stato il caso di intervenire. Si
guardò intorno, e sullo stesso angolo della piazza dove si era fermato, ma sull'altro
lato della strada, vide altre tre persone che stavano parlando tra loro, come se niente
fosse. Scese dalla macchina e si avvicinò:
"Stanno picchiando un uomo - disse loro - se venite con me siamo in quattro e
possiamo fare qualcosa."
I
tre
si
guardarono,
come
se
fossero
sul
punto
di
dirsi
chissaràmmaicostuiccherompeaquestoradinotte. Poi, uno di loro gli rispose, senza
scomporsi più di tanto:
"Io direi di non immischiarsi. Non si sa mai se si fa del bene o del male a intervenire.
Magari è una lite tra parenti, e non è il caso di metterci il naso."
Non è che Rubens fosse particolarmente coraggioso, o che possedesse uno spiccato
senso della giustizia. Diciamo che lavorando in un tribunale aveva a poco a poco
acquisito una vaga cognizione del dovere. Lui sentiva, cioè, che si doveva aiutare il
disgraziato, e fu sgradevolmente impressionato dall'indifferenza di quei passanti.
"Anch'io voto per la non ingerenza negli affari degli altri". Disse il secondo uomo. E
tutti e tre risero.
Rubens non osò neppure insistere, e si rassegnò all'idea di dover fare tutto da solo, col
rischio di prenderle. Ma ormai era tardi. Fece appena un passo, e vide che il pestaggio
era giunto all'epilogo: l'aggredito era accasciato a terra, e le sue vesti erano quasi del
tutto strappate. Gli aggressori lo stavano finendo con gli ultimi calci, e almeno due di
loro si erano già allontanati. Uno soltanto rimase per un attimo vicino al corpo;
raccolse un pezzo di bastone rotto, una specie di scheggia appuntita, e lo piantò
nell'addome della vittima. Fu un gesto vigliacco, che Rubens non avrebbe dimenticato
per molto tempo; e un'azione rapidissima, che non avrebbe potuto fermare nemmeno
se fosse stato l'Uomo Ragno. Si rassegnò all'idea di aver assistito a un omicidio,
un'idea che trovava molto sgradevole, e dopo aver nuovamente constatato che i tre
passanti alle sue spalle non avevano alcuna intenzione di interrompere la loro amabile
conversazione, neppure ora che tutto era finito, cominciò ad attraversare di
malavoglia la piazza. Fu dopo che ebbe oltrepassato una delle statue dei condottieri
che vide la bella sconosciuta che era stata dal giudice pochi giorni prima. Una lama di
luce appena le scolpiva il viso nel buio, e tuttavia fu certo che si trattasse di lei.
Probabilmente stava passeggiando sotto il porticato, aveva assistito alla scena e si era
subito precipitata a soccorrere il povero cristo. Era china sull'uomo, e gli stava
stringendo una mano, come per incoraggiarlo a resistere. Altre persone, nel frattempo,
si erano avvicinate, ma rimanevano prudentemente nell'ombra. Oreste fece gli ultimi
passi, e quando fu anche lui vicino al ferito si rese conto di non essere capace di
pensare a una sola cosa da farsi, nemmeno chiamare un'ambulanza o avvertire la
polizia. Rimase immobile, in piedi, a guardare la ragazza che a sua volta guardava
l'uomo dritto negli occhi, forse per convincerlo ad aprirli. Non poté evitare di osservare
la sua figura dal petto in giù, anche se, data la situazione, lo trovò sconveniente.
L'attenzione che dedicò al corpo di lei fu tuttavia maggiore di quella che riuscì a
sostenere sulla vista del rivolo di sangue che sgocciolava dalla ferita di lui. Il resto dei
minuti che trascorsero lo passò cercando di distogliere lo sguardo, ma ogni volta che ci
provava incrociava le facce torve degli eroi a cavallo, i loro gesti imperiosi, le loro
spade sguainate, ed era come se volessero farlo prigioniero. Intanto la ragazza si era
chinata ancora di più sull'uomo dalle vesti strappate, e gli accarezzava i capelli, parve
a Rubens con eccessiva dolcezza. Gli toccò anche il torace, che era quello di un
giovane piuttosto bello e prestante, ma quasi privo del respiro. Il disgraziato, infine,
aprì gli occhi, e con lo stesso filo di voce di chi non trova il coraggio di parlare
all'amata, disse, scandendo le parole e le sillabe:
"S-se-i.....b-bel-la."
"Anche tu mi piaci" - rispose lei. "Resisti ! Forse ci vedremo domani."
Poco dopo l'uomo era morto, con un accenno di sorriso sulle labbra, però, anzichè solo
come un cane. E la belladonna ingoiava per trattenere le lacrime, immobile come il
calice di un fiore poco prima che si formi la rugiada. Arrivò l'ambulanza. Arrivò la
polizia. Qualcuno aveva provveduto. Si radunò gente, e tra le tante voci, Rubens, che
era ancora impalato di fronte alla colonna, captò una delle più strane conversazioni
che avesse mai sentito:
"Scene come questa mi ricordano il finale dei poemi epici."
"Non direi. Le antiche leggende erano grandi grovigli esoterici, non descrivevano alcun
dolore, e lo stesso amore non trovava ospitalità, benchè esso vivesse in tutto o
risultasse eterno."
"Vuoi dire che l'amore e la morte non interessavano i poeti ?"
"Voglio dire che erano solo strumenti per lanciare ben altri messaggi. I veri motori del
mondo erano l'invidia e la forza. Non è forse così anche oggi ?"
Macchecazzovoglionoquesti, si disse Rubens, e si voltò di scatto. Scrutò i curiosi, ma
nessuno corrispondeva all'immagine di due facce da vecchia ciabatta che si era
formato degli autori del commento. Per un attimo dubitò di aver aver avuto una specie
di allucinazione dell'udito. Poi si voltò di nuovo, e notò che la ragazza era già sparita.
Proprio una pessima serata. Rispose come poteva alle domande di un poliziotto:
"Ha visto gli assalitori ?"
"Sì."
"Quanti erano ?"
"Tre, mi sembra. Forse quattro."
"Sia più preciso."
"Ero dall'altra parte della piazza. E'molto buio, non ho visto bene."
"Com'erano vestiti ?"
"Ma che ne so ! Ero laggiù, vede quella spider ? Come facevo a vedere com'erano
vestiti !"
"Ci pensi meglio: avevano giubbotti di pelle nera ? Blue-jeans sdruciti ? Magliette
colorate ? Capelli corti ? Di solito è così che si vestono, 'sti stronzi."
"Sì, ha ragione. Erano vestiti così."
"Grazie per aver collaborato."
Vaffanculo. Rubens lo pensò, ma non lo disse apertamente. Si passò una mano sui
capelli corti, si guardò la maglietta colorata, si aggiustò il giubbotto di pelle nera, mise
le mani nelle tasche dei blue-jeans sdruciti e tornò verso la macchina, dopo aver
cercato quella ragazza, invano. Dormì molto male quella notte. Il giorno dopo raccontò
tutto al giudice, insistendo su alcuni particolari, come la ferocia e la perfidia
dell'omicida, la bellezza della donna, cazzo, che come quella lì se ne vedevano poche,
i suoi gesti affettuosi e sinceri verso quello sconosciuto, a meno che non lo
conoscesse, eccetera. Il giudice lo ascoltò con particolare diligenza. Poi, quando ebbe
finito di parlare, prese un tagliacarte, e tracciò dei segni sul legno della scrivania,
dicendo semplicemente:
"La misera si strugge, come falda strugger di neve intempestiva suole, che in loco
aprico abbia scoperta il sole."
"Mi scusi ?"
"Orlando. L'hai studiato anche tu, a scuola !?"
Rubens inarcò le sopracciglia. Una parte di lui cominciava a stancarsi di questa diffusa
mania di commentare fatti di merda recitando versi a memoria. L'altra parte notava
acutamente che qualcosa stava davvero preoccupando il giudice. Non avrebbe mai
sciupato una scrivania col tagliacarte, altrimenti.
"Lei che cosa avrebbe fatto, signor giudice ?" Gli chiese.
"In che senso, Oreste ? Al posto di chi ?"
"Al posto mio."
"Non lo so. E'difficile dirlo. Forse avrei chiamato la polizia, li potevano anche prendere
se fossero arrivati subito."
"E il telefono ? Dov'era il telefono ?"
"Già. Il telefono. Quando ce n'è bisogno, non c'è mai."
Disse proprio così. E si allontanò nel corridoio, sconsolatamente. Sarà innamorato,
pensò Rubens. Nooooooo, non è possibile, si disse poi. E anche se lo fosse, si metterà
lì, sulla sua poltrona, e lavorerà come un asino fino a stasera. Che razza di vita !
Renè Magritte
L'impero delle luci
Olio su tela
Venezia, Peggy Guggenheim Collection
Matteo non aveva mai visto morire un uomo. Per chi vive dove regna la guerra,
all'epoca dei soprusi o nelle città violente, osservare la morte è certamente
un'esperienza comune, per accettare la quale senza emozioni non è necessario
nemmeno abbassare lo sguardo o distrarlo dalla vista del sangue. Ma in un quartiere
tranquillo e in tempo di pace la morte sembra innaturale. E'ovunque, in realtà, la
morte nera, nei vicoli, agli incroci, sotto i cornicioni e i lampioni, accanto ai semafori,
nei parchi e nei parcheggi, alla stazione degli autobus, negli uffici delle poste, nelle
cabine dei telefoni, di fronte al chiosco delle cialde di pane fritto o vicino ai contatori
dell'energia elettrica. Lungo ogni strada. Ma si nasconde, si occulta. Ogni giorno
uccide bambini, vecchi e molti altri animali, ma lo fa in silenzio, senza farsi notare,
scegliendo quasi sempre gli individui più soli. Se uno muore, scrisse saggiamente un
poeta, non importa a nessuno, purchè sia sconosciuto e lontano: è atroce, forse, è
terribile, ma è così. E morire, dunque, non è nulla di drammatico, come può sembrare
ogni volta che il momento irrevocabile viene solennemente rappresentato. Un vero
dramma si compie soltanto quando la morte stessa sale sul palcoscenico e si propaga
tra la folla scegliendo le sue vittime apparentemente senza criterio. La morte, e non
gli attori che la interpretano. Quando ogni individuo sente di non essere più uno
spettatore, ma uno dei tanti protagonisti dell'epilogo. In tempo di guerra, appunto, o
nell'attimo di una catastrofe. Le quali cose, nella nostra civiltà, non succedono così
spesso come può sembrare ad una riflessione superficiale, e certo non ovunque.
Possono così trascorrere molti anni prima che un qualsiasi abitante di una città si
renda conto della costante presenza della morte, come se il luogo in cui egli vive fosse
immune dall'ineluttabile. Forse egli la intuisce e annusa il pericolo che la precede
appena fuori dalle mura, nei boschi e sulle montagne, nel mare e nel cielo, lungo le
corsie delle autostrade. La immagina, la riconosce, la sente imminente e vicina in un
deserto o in una caverna. Ma di tutto ciò che gli accade intorno, nello spazio in cui
cammina tutti i giorni, non ha che una vaga e imperfetta impressione, sostenuta
dall'effettivamente scarsa probabilità che, tra milioni di suoi simili, possa imbattersi
per caso in una disgrazia, possa scrutare la morte da vicino. Riflettendo sulle vicende
di quel giorno, Matteo pensò di aver finalmente visto un uomo morire davanti ai suoi
occhi perchè aveva camminato in più strade e più viali, visitato più luoghi e incontrato
più gente del solito, e che nella maggior quantità di tempo trascorso all'aperto e nel
maggior numero di occasioni che in tal modo si erano create consistesse la ragione,
non necessaria ma sufficiente, di quell'agguato del caso: più il viaggio è lungo, dice
una massima del ventesimo secolo, più sentiamo la tragedia. Ma fu costretto a
ricredersi: la statistica constata, avrebbe ammesso prima o poi, non spiega; la
diversità di uno dei momenti della sua breve vita, il tragico incontro, erano quindi
dovute a qualcos'altro; ma chi potrà mai sapere cosa ? Nessuno, anche se, certo, su
altre stelle, tutto potrebbe apparire diverso. Di primissimo mattino si era alzato al
suono della sveglia, e si era vestito senza badare troppo a quello che metteva
addosso, nè a ciò che aveva in tasca, tanto che si potrebbe affermare che prese le
chiavi di casa per istinto, e non per lucido raziocinio. Abitava al numero settantacinque
della strada, e uscendo dalla porta di casa fu costretto ad evitare un passante che
stava scansando la botola malferma della cantina, un vicino di cui non conosceva il
nome, ma che aveva spesso notato per il suo sguardo errante e stralunato, come
quello di un uomo che sta cercando qualcosa. Il cielo dell'alba non era nè sereno nè
nuvoloso. Così cominciò la sua giornata, che fu ricchissima di eventi ma trascorse così
velocemente che quando si ritrovò vicino al ristorante sotto il castello - Matteo capì
dove si trovava soltanto da una certa curva della via - si accorse con grande stupore
che era già notte scura, e che in giro non c'era più nessuno, tranne un signore
taciturno e illogicamente incappottato, senza sorriso come molti passanti notturni.
Aveva camminato a lungo, e non era neppure tornato a casa a mezzogiorno. Era la
prima volta in assoluto che saltava il pranzo. Di solito mangiava almeno un primo e un
secondo piatto, lentamente, mantenendo la buona abitudine di considerare il pasto più
un rituale che un bisogno. Soltanto motivi importantissimi potevano averlo convinto a
farne a meno, e quel giorno, evidentemente, si verificarono. Per fortuna aveva fatto
una buona e abbondante colazione da Hector, poco dopo che fu uscito di casa. Il bar,
già al mattino, preparava certe gustose bombe alla crema, e Matteo cominciò a
ingoiarne due o tre insieme a un cappuccino schiumoso e fumante, fissando senza
precise intenzioni una ragazzona bionda ed evanescente, tutta riccioli e chewing-gum,
seduta a gambe larghe vicino a un tavolino rotondo. Diversi strappi segnavano i suoi
pantaloni all'altezza del ginocchio, troppo eleganti per essere veri. Ma nel complesso,
era proprio una bella ragazza: masticava quasi senza muovere le labbra, che
sembravano disegnate con una matita morbida, stringeva una latta di Coca dietetica e
di tanto in tanto ricambiava lo sguardo di Matteo con quell'aria sospesa tra il
compiacimento e il fastidio che l'abitudine dipinge sui volti di donna ben fatti, e per
questo molto ammirati. Matteo non si accorse neppure che l'accompagnava un tipaccio
con un giubbotto liso; beveva un liquido di colore bruno chiaro, che a giudicare da
come sporgeva in avanti le labbra senza mostrare nè apprezzamento nè ribrezzo
avrebbe potuto essere sia the freddo che whiskey della peggiore marca. Lui stesso era
quasi una caricatura di Bukowsky. Matteo si voltò e uscì. E quando, passando
nuovamente davanti al locale, si ricordò della ragazza, dell'energumeno e di non aver
mangiato più nulla, era tardissimo. Per gran parte della mattinata, aveva gironzolato
in città cercando le tracce degli amici di Scalabrino, ma ad una certa ora non aveva
ancora trovato nulla e nessuno. L'unica cosa interessante che gli era successa tra le
otto e mezzogiorno fu l'acquisto, per pochi soldi, di un pezzo di ricambio per un suo
vecchio giocattolo, che scovò frugando senza scopo tra gli scaffali di un ferramenta
all'angolo delle mura del Duca. Non credeva che ne esistessero ancora, e quando
finalmente lo vide pensò che quella sarebbe stata una giornata fortunata. Aveva già
setacciato quasi tutte le strade della città antica, perfino le più nascoste e umide, e
benchè ci fosse nato e cresciuto, in quella città, aveva rischiato più di una volta di
perdersi. Voleva tentare di emulare la saggezza dei maestri zen, che sono capaci di
colpire un bersaglio al buio tirando una freccia con l'arco, e come loro voleva
indovinare, o meglio, avvertire la presenza dei suoi obbiettivi semplicemente
percorrendo le strade senza una meta apparente, certo che nella loro disposizione
irregolare avrebbe letto un ordine logico, quell'intuizione improvvisa che rendeva tutto
possibile e che della perfezione orientale doveva essere il segreto. In realtà non riuscì,
nell'arco delle 13 ore che passò fuori di casa, nemmeno lontanamente a comprendere
che la volontà dei filosofi giapponesi è cosa assai diversa dalla rappresentazione del
mondo che i giovani occidentali sono portati per natura a costruire. Avrebbe dovuto
cancellare dalla sua mente la città per poterla intuire nella sua totalità. Dove c'è
principio, non c'è infinito. Invece, non fece altro che immaginarla e percepirla in
un'interminabile serie di modi, ognuno dei quali, perfino il più assurdo, era troppo
concreto e misurabile per poter esprimere in un solo segno il bagliore della verità. La
vide come una mappa disegnata sulla carta, con i monumenti in rilievo, i parchi in
verde e gli uffici pubblici in rosso mattone, come un groviglio di linee curve e diritte,
pulsanti come cromosomi alla ricerca della madre, simile alle pennellate di una tela
informale o allo scarabocchio di un annoiato, come un ammasso di case e di camini
azzurro cupo, di antenne sui tetti dove passeggiano gatti umani e uomini gatto, e di
lampioni gialli e arancio accesi su marciapiedi bagnati di benzina e di nafta, come una
costruzione Lego multicolore vista da Peter Pan in volo, come una superficie di
intonaco grigio perla venata di crepe e di grumi di materia densa come sangue
rappreso, come il tabellone di un gioco, con gli imprevisti, le probabilità, le case, gli
alberghi e la prigione, come un microcircuito di impulsi luminosi che tornano sui loro
passi ad ogni incrocio e si ricongiungono tutti in una grande piazza a forma di presa di
corrente multipla con una grande aiuola di relè e un fascio di cavi sprizzanti scintille al
posto della fontana. Ogni volta si sforzava di comprendere quali luci, colori, suoni,
odori o passi dovesse seguire per trovare ciò che non sapeva neppure cosa fosse e
abitanti fantasma che forse erano già andati via, svaniti col sorgere del sole. Ma non
provò mai ad annullare i punti di riferimento reali per lasciare che fossero le sue
sensazioni a guidarlo. Non ne era capace. Questa è la debolezza e nello stesso tempo
la forza dell'occidente. Teseo ha bisogno di una corda legata ad un chiodo e di
qualcuno che lo aspetti all'uscita; può riuscire, lui solo, dove altri fallirebbero
miseramente, ma per compiere l'impresa deve renderla meno poetica, prendere
alcune elementari precauzioni, disegnare il labirinto, capirlo, svelarne il mistero. Così,
Matteo. Perdersi nella città per lui fu come accumulare dati, conoscere, mettere a
nudo i meccanismi che fanno funzionare le cose. Abbassarsi, insomma, dal piano
dell'illuminazione al livello della percezione. Senza rendersi conto che ciò che si vede
con gli occhi non potrà mai essere ciò che si vede con gli strumenti ben più acuti e
profondi del cuore. In che modo sia riuscito ugualmente nel suo intento, in queste
condizioni di palese inferiorità spirituale, questo resta un enigma. Chiamarlo caso
sarebbe eccessivo, benchè anche il caso abbia le sue leggi, ma certo le circostanze si
mossero secondo un disegno almeno per il momento indecifrabile. E accaddero cose
insolite, non certo meravigliose come i miracoli che possono folgorare i barboni sotto i
ponti di Parigi, ma molto più interessanti di ciò che in genere può capitare in una città
italiana, tanto che verso sera Matteo si sentì talmente circondato dalla magia che
pensò di essere, anche lui, un angelo capace di ascoltare i pensieri della gente, filmato
in segreto da un Wenders mentre li registra su un disco dorato, toccandolo appena con
la scintilla di energia della sua mano. Accadde perfino che il vecchio e terribile
ospedale psichiatrico di Porta della Salvezza fu chiuso per sempre, e che tutti i pazzi si
riversarono per le strade, strade che non avevano mai visto con i loro occhi. Alcuni di
loro erano poco più che larve umane, vestite di stracci puzzolenti, che vagavano
barcollando, con le orbite vuote, come se i corvi le avessero mangiate. Facevano quasi
paura, ma i cittadini, con poche eccezioni, li accolsero volentieri, e per un po'di tempo
tutti improvvisarono una specie di festa, che finì col catturare anche i più scettici.
Matteo si trovò nel mezzo e si lasciò rapire senza opporre resistenza. Vide tutto ciò
che accadeva in uno stato di ebbrezza, poco prima che il tramonto velasse il cielo di
nubi e le prime lampadine delle case si accendessero. Come se qualcuno lo avesse
inaspettatamente incantato. Il cigno volò dal lago della fortezza. Si posò sul torrione
alto delle mura. Un asilo nido fu invaso dalla folla. I bambini del turno pomeridiano
fecero girotondo. Come un coro ulularono levando odi. Assistere alla fine di uno
scandalo è una bellissima sensazione. Fu certo che in quello stesso istante tutte le
barriere che dividono gli uomini stessero per essere abbattute, spazzate via dalle
folate del vento della solidarietà. Che fosse sul punto di nascere il regno della luce. Ma
non era vero. Perchè quando cala il sole, la gente è triste. E tutto torna ad essere ciò
che era.
Osvaldo Licini
L'uomo di neve
Olio su tela
Torino, Collezione privata
Non è possibile descrivere accuratamente una giornata mettendo in evidenza con pari
dignità ogni dettaglio, anche il più insignificante, nemmeno registrando
meccanicamente ogni istante, poichè non esistono mezzi per riprodurre gli eventi
accaduti durante ogni battito di ciglia, e potrebbe trattarsi dei più importanti. Matteo
di tutto questo si era convinto passeggiando, e di molto altro ancora: lo spazio e il
tempo, pensava ad ogni passo, sono le due sole entità assolutamente astratte. Poichè
tutti possono vantarsi di essere riusciti a definirli, ma nessuno sarà mai in grado di
imitarli con esattezza. La sua non era una semplice opinione, ma uno di quegli assiomi
su cui la vita stessa si fonda, intendendo per vita quella sequenza di occasioni che
sfiorano un individuo dall'alba al tramonto, dal risveglio al sonno. Senza alterare
l'espressione dello sguardo, Matteo se lo ripeteva ogni mattina davanti allo specchio,
da giorni e giorni, e ogni mattina le sue conclusioni gli sembravano più convincenti
che mai. E se anche possedessimo una copia integrale di tutte le ore della vita del
mondo, concludeva in perfetto silenzio e al solo cospetto di sè stesso, a che servirebbe
? Ogni momento sembrerebbe identico, e se riuscissimo a notare una sia pur minima
differenza tra l'uno e l'altro istante, non saremmo capaci di comprenderne la ragione.
Le cose occupano il tempo in una varietà di modi non meno limitata dei modi in cui la
materia può occupare lo spazio, aveva letto una sera tra le pagine di un libro nè
diffuso nè famoso. E per giorni e giorni la sua mente aveva rimuginato quelle parole
come un disco incantato. Su di esse Matteo pensò perfino di costruire una nuova
filosofia sistematica, partendo dalla constatazione che l'autore del postulato, dopo
aver gettato un seme tanto fecondo, non poteva limitarsi a concludere, come in realtà
aveva fatto, che i cambiamenti sono lenti come i ghiacciai o rapidi come il fuoco. Se il
principio dell'indeterminatezza del tempo è vero, si disse, allora ogni cosa rappresenta
un cambiamento rispetto ad ogni altra, e la velocità del suo divenire, la sua distanza
dal modello, dipenderanno da ciò che di volta in volta viene assunto come termine di
paragone. Un'assoluta relatività, se è lecito, di cui Matteo si compiacque talmente da
non accorgersi che su quella base nessun sistema organico avrebbe potuto
ragionevolmente essere costruito. Il giorno che uscì di casa deciso a ritrovare le tracce
di Scalabrino, tuttavia, non era ancora arrivata l'ora di ricominciare ad interrogarsi su
qualche altra possibile weltanschauung. Dopo la colazione, come sappiamo, si gettò
nelle strade forte delle sue certezze, ma senza aver prima definito neppure lo scopo
della sua passeggiata. Ciò nonostante, per quanto possa sembrare assurdo, gli risultò
chiarissimo il modo di raggiungerlo, tanto che si potrebbe dire che fece del mezzo un
fine, del fine un pretesto, e del pretesto una vaga rappresentazione della volontà,
mettendo insieme inconsapevolmente una somma di circostanze impalpabili che è
forse ciò che è più vicino allo stato di grazia: il presentimento è la sonda dell'anima
nel mistero, è il naso del cuore che esplora nella tenebra del tempo. Non è così ? E
allora tutto diventa possibile, perfino le cose che sembrano, e sono, altamente
improbabili. Dapprima Matteo si diresse verso l'edicola isolata al centro di piazza
dell'Unità. Ma non lo guidarono nè l'istinto nè il caso: era solo quello che faceva
regolarmente dal lunedì al venerdì. Il chiosco era un gabbione di alluminio anodizzato,
discretamente mimetizzato nel vuoto del grande piazzale pavimentato in pietra grigia,
tirato a lucido dall'umidità della notte e dalle suole dei milioni di passanti che lo
avevano calpestato nel corso degli ultimi quattro o cinque secoli. Una coperta
variopinta di giornali e videocassette lo avvolgeva quasi per intero, creando un gioco
di colori che esplodeva come un fiore tra le nere buste dei rifiuti disseminate senza
una logica sul selciato: i più acuti studiosi della scienza della visione chiamerebbero
quell'effetto entropia, bellissimo termine che definisce l'ordine come una delle tante
disposizioni casuali degli elementi di un'immagine, ovvero come una delle tante forme
del caos. I lampioni, a forma di grappolo d'uva, erano ancora accesi, forse per un
disguido o per un guasto ai sensori delle centraline, e se fosse stata una giornata di
pioggia l'acqua colpita dalla luce artificiale e il vapore refrattario dell'aria avrebbero
reso cangianti gli involucri di cellophane e le superfici di polietilene, tanto che ne
sarebbe derivata una sorta di omeostasi percettiva, almeno fino a quando i primi
furgoni non avessero finalmente raccolto la spazzatura e vuotato i cassonetti. Matteo
entrò nel chiosco, risoluto, e dopo aver frugato tra le pile di carta stampata comprò
l'ultimo numero di Q. Uscendo, lasciò prima entrare altre tre persone. Innata
educazione, la sua, a dispetto della giovane età. Poi si fermò sulla soglia e osservò per
qualche istante i lampioni accesi. Un'alogena ebbe un sussulto, sibilò friggendo come
le ali di un insetto che bruciano tra le spire di una resistenza incandescente e si
fulminò sotto i suoi occhi. I reostati sibilarono. Matteo provò a immaginare la
simultanea esplosione di tutte le sfere dei lampioni: scintille di fuoco che palpitano,
cascate di elettroni che precipitano, bagliori di fiamma che ossidano l'asfalto e
perforano le bottiglie di PVC e di PET. La catarsi della città che si compie. Ma fu solo
un gioco. Subito dopo si incamminò verso il centro, costeggiando la facciata del
palazzo delle Gemme, spigolosa come i contrafforti di un presidio militare e nello
stesso tempo delicata come il velo di una tenda mossa dal vento. Aveva piegato la
rivista in modo tale da non sgualcirla e la teneva premendo con la punta del pollice sul
bordo, mentre il medio e l'anulare stringevano la costola e l'indice separava i due
lembi. Costeggiando la muraglia, paragonò istintivamente le macchie che lo smog
aveva depositato su tutti gli anfratti dei mattoni appuntiti a un tappeto di Diploastree,
che nel miocene, 15 milioni di anni fa, erano una specie di barriera corallina. Dopo
aver attraversato il fossato, proseguì il suo cammino, senza altre incertezze, fino alla
confluenza delle tre vie, dove chiunque avrebbe esitato, poichè sull'asfalto erano
dipinti grovigli di frecce, che da via Bianca obbligavano a svoltare su via Rossa o a
immettersi nel viale in direzione sud, da via Rossa consigliavano di proseguire a
sinistra o di procedere su via Bianca e via Verde, da via Verde costringevano invece a
invertire la marcia, oppure a dirigersi a destra verso il viale, dopo aver toccato un
lembo di via Bianca. Matteo guardò distrattamente la vetrina di un fornaio, e subito
dopo volò con lo sguardo sul grande cartellone pressofuso che univa le due palazzine
gemelle che un fantasioso architetto aveva infilato nello stretto spazio in cui le tre vie
si intersecavano, smussandone l'ultima stanza, come la prora di una nave. Due donne
vestite di nero piangono con la testa abbandonata sedute attorno a un tavolo con una
lampada, alzando le braccia al cielo. The colors of the moon. Quattro passi più avanti,
all'angolo del viale, il bar dei biliardi azzurri aveva messo fuori i primi tavolini: erano
molto piccoli, di quelli a tre gambe, di quelli che sopra non c'entra che una bottiglia,
un posacenere, una tazza e due bicchieri. Ma ingombravano ugualmente il sottile
marciapiede. A quell'ora non c'era ancora nessuno, tranne che l'uomo di neve. L'uomo
di neve era, suo malgrado, uno dei simboli della città. Uno strano personaggio, che
vagabondava per le strade fermandosi spesso nei caffè, e ogni volta che si sedeva
appoggiava automaticamente il gomito sul piano del tavolo per sostenere la testa
dondolante con il pugno della mano piantato in uno zigomo. Era stato, dicono, un
celebre artista, e tra i suoi amici pittori c'era chi ancora lo chiamava il dottor Gachet,
per questa sua inconfondibile abitudine di posare come nel ritratto di Van Gogh, chi
l'Arlesiana, chi Diego Martelli a Castiglioncello. Pare che il suo vero nome fosse
Osvaldo, ma i più lo conoscevano come l'uomo di neve: perchè era sempre vestito di
bianco, e rimaneva immobile, gelido, muto, finchè qualcosa che lui solo sapeva lo
colpiva, qualcosa che lo faceva sciogliere in un rivolo di parole apparentemente senza
significato, ma affascinanti, innocenti, proprio come la neve si scioglie quando viene
colpita da un raggio di sole. Zuzzurullone ostinato, rideva, bevendo anice, incidendo
lunghi ghirigori rossi e cerchietti ossessivi. Matteo lo aveva visto altre volte, come tutti
gli abitanti, ma aveva sempre cercato di evitarlo, e l'uomo di neve non gli aveva mai
parlato. Quel giorno gli passò vicinissimo, e solo allora capì che lo spostato era un
immortale. Vide che nei suoi occhi c'era soltanto la vita, e che quel lampo di paura che
distende un velo sulla cornea degli esseri umani non l'aveva mai neppure sfiorato.
Capì che a suo modo il pazzo aveva scoperto il dono dell'eternità, poichè anche ciò che
non diceva penetrava nel livello più profondo dell'animo del passante e lo faceva
sentire più leggero; così il passante lo avrebbe ricordato, e questa, e non altro, è
l'immortalità, sopravvivere nella memoria degli sconosciuti, diventare l'argomento dei
loro racconti. Ma non ebbe il tempo di riflettere più a lungo. Quando gli fu accanto,
l'uomo di neve lo afferrò senza riguardo per un braccio, e con la sua voce talmente
limpida da sembrare di metallo, gli disse:
"Dove vai ? Cresce il dolore. Crescono la luce e la tenebra."
Matteo calcolò mentalmente che il ritmo del suo cuore era improvvisamente salito di
venti o trenta battiti al minuto. Cercò di assecondarlo, ma nello stesso tempo di
sgusciare via:
"Non so dove vado. Ma è tardi, mi scusi. Ho molte cose da fare, oggi."
"Ti tengo nel mio petto. Di te ho paura e pietà." Disse ancora l'uomo di neve. E lo
guardò con la sua maschera di ghiaccio.
"Mi lasci andare" - lo supplicò Matteo. "Un mio amico è scomparso: lo devo ritrovare."
Le dita dell'uomo di neve si aprirono lentamente:
"Ama l'uomo, perchè sei tu. Ama gli animali e le piante, perchè tu eri loro. Ama il tuo
corpo: soltanto con esso su questa terra tu puoi lottare e fare della materia spirito.
Muori ogni giorno. Nasci ogni giorno. Rinnega ciò che hai ogni giorno. La virtù più alta
non è essere libero, ma lottare per la libertà. Se sei sapiente, combatti nella tua testa,
uccidi le idee, creane di nuove."
Matteo, ora, avrebbe potuto proseguire il suo cammino, mentre il rimbombo del suo
cuore stava tornando alla normalità. Qualcosa ancora, tuttavia, lo tratteneva. Una
corda invisibile.
"Vai" - gli disse l'uomo di neve. E quella parola lo rassicurò. Ma prima del semaforo si
voltò, e vide che il matto parlava ancora:
"Una fiamma è l'anima dell'uomo, un uccello di fuoco che grida non posso arrestarmi,
non posso bruciare, nessuno mi può spengere."
Quando si accese la luce verde della parola avanti, Matteo attraversò
automaticamente e velocemente la strada.
Giorgio De Chirico
L'enigma dell'oracolo
Olio su tela
Milano, collezione privata
Prima di arrivare nel cuore della città, Matteo passò dal parco dei sovrani, che peraltro
si trovava sulla sua strada. Era, o meglio, avrebbe dovuto essere un giardino storico,
una vasta spianata circondata da case antiche, due chiese, un loggiato irregolare e
qualche bella palazzina liberty. Un prato, una piazza, o tutte e due le cose insieme. Ma
qualunque cosa fosse, era in visibile stato di abbandono, tanto che perfino i cigni, i
germani, le volpoche e le alzavole erano volate via dalla vasca della fontana, al centro
della quale un essere mostruoso, un incrocio tra il corpo di un uomo anziano e una
bestia dalle sembianze taurine, era ormai così corroso, ricoperto di scaglie di muschio
e di licheni rinsecchiti, da non incutere più alcun timore reverenziale. Un fossile, e
poco più. A Matteo piaceva quel luogo quasi irreale: lo vedeva come la parabola di un
satellite, ma di un satellite che non trasmette nulla, anzi, che trasmette il nulla
secondo un codice indecifrabile. Al contrario di molte altre piazze e altri parchi, che
delimitano uno spazio o si aprono in uno spazio delimitato, il parco dei sovrani non
aveva limiti e non ne definiva alcuno. Era infinito nel vero senso della parola, e benchè
fosse costellato di statue nella sua totalità, sembrava del tutto privo di punti di
riferimento, tanto che nè gli innamorati, nè gli studenti nè i frettolosi lo avevano mai
considerato un luogo adatto per un appuntamento, poichè in quella spianata di
monumenti sciolti come rime romantiche il rischio di non trovarsi era molto alto. Ogni
volta che passava dal parco dei sovrani Matteo su riprometteva che un giorno o l'altro
si sarebbe fermato proprio al centro della piazza, ammesso che ne esistesse uno, per
cogliere l'impressione di essere nell'ombelico del mondo. Sul fatto che il parco fosse
davvero il perno del pianeta ben pochi, in città, nutrivano dei dubbi. Orgoglio di
campanile, probabilmente, retaggio di vecchie leggende. Ma era raro vedere qualcuno
tra le sculture o sulle panchine, forse perchè il centro di tutto è l'unico luogo
assolutamente sacro, l'unico punto cardinale che disorienta. E per questo tutti lo
fuggono. Matteo, per la verità, notò un uomo appoggiato ad una statua, dalla parte
esattamente opposta alla sua, e gli sembrò perfino di conoscerlo. Ma era troppo
lontano per poter giudicare, e il suo primo pensiero fu di proseguire il cammino come
sempre, come se niente fosse. L'individuo dava l'impressione di uno spasimante che
non si vuole ancora rassegnare al classico bidone, e che cerca di sorvolare con lo
sguardo sui particolari più insignificanti di ciò che lo circonda per nascondere il suo
imbarazzo e la sua rabbia. Inutilmente, poichè ogni tentativo di fuga da quella che
può essere definita una situazione senza via d'uscita non fa che peggiorare le cose.
Intere pagine di letteratura concordano su questo semplice assioma: l'uomo che finge
di non sperare che qualcosa accada è un uomo che si rivela senza speranza. Eppure, si
disse Matteo, osservandolo più attentamente, potrebbe proprio essere lui. Non ne sono
sicuro. Non lo vedo da qualche tempo, ormai. Però. Decise di verificare, ma non volle
affrontare direttamente il personaggio. Si mise ad osservare le statue, simulando
interesse: voleva apparire ai pochi frequentatori della piazza come uno studente in
gita, o uno studioso in cerca di fonti per un articolo, o un esperto della Sovrintendenza
in missione di ricognizione per valutare lo stato di conservazione del patrimonio
storico-artistico del parco. Le sculture, in effetti, erano in condizioni pietose. Alle più
integre mancavano un piede o un braccio, e tutti i nasi erano sfarinati allo stesso
modo, come se fossero stati colpiti da uno stesso martello. Fuliggine, sbavature di
pioggia acida, urina e sterco di piccione, colonie di funghi incrostavano le superfici a
tal punto che non era possibile capire se i monumenti fossero stati ricavati da blocchi
di marmo o da fetide pietre di cava. Alcuni basamenti erano stati imbrattati con la
vernice indelebile, a strisce, coi colori di uno dei quartieri cittadini. I quartieri
avversari avevano risposto applicando i propri colori sulle vesti o sui mantelli dei
personaggi, e così, in alcuni scorci, il parco dava più l'impressione di un paese dei
balocchi che di una galleria di glorie della patria. Come la quasi totalità dei residenti,
Matteo non si era mai domandato chi fossero i personaggi raffigurati nel parco. Ora
aveva l'opportunità di risolvere l'enigma e tutto il tempo che voleva per leggere le
epigrafi che illustravano ogni monumento. Era meglio avvicinarsi con cautela a
quell'uomo. Ed era sicuro che non si sarebbe allontanato entro breve. Alcune iscrizioni
erano state incise sugli scudi delle statue, almeno quelle che ritraevano piccoli
cavalieri con l'armatura, altre lungo i cartigli ondulati degli stemmi applicati sui
basamenti, altre ancora erano distese sulle lame delle spade, o lungo le bordature dei
mantelli, sui bastoni e gli scettri, e perfino su qualche libro aperto o su certe lastre
incorniciate sorrette da animali fantastici. Decifrandole, Matteo scoprì che in Italia
avevano regnato o governato infiniti personaggi ignoti o quasi. Quello che segue è
l'elenco completo e dettagliato di tutti quelli di cui riuscì a leggere la didascalia:
Amedeo VI conte Verde del Piemonte, Giacomo di Savoia-Acaja conte di Torino,
Giovanni II Vicario Imperiale di Monferrato, Tommaso II marchese di Saluzzo,
Giovanni De Murta doge popolare di Genova, Emanuele ed Aleramo Del Carretto
marchesi di Finale Borgo, Luchino di Matteo Visconti Signore di Milano, Piacenza,
Fidenza e Lodi, Castellino Beccaria principe di Pavia, Luigi I Gonzaga podestà di
Mantova e signore di Mirandola e Reggio Emilia, Andrea Dandolo doge di Venezia,
Bertrando di San Genesio patriarca di Aquileia, Jacopo II di Ubertino da Carrara
Signore di Padova, Niccolò Vicario Imperiale di Treviso, Feltre e Belluno, Mastino II
Della Scala capitano del Popolo di Verona, Enrico Della Torre podestà di Trieste,
Galasso I signore di Carpi, Obizzo II d'Este signore di Ferrara e Modena, Giacomo e
Giovanni Pepoli signori e Vicari Pontifici di Bologna, Lippo Alidosi Vicario Pontificio di
Imola, Giovanni Manfredi capitano del Popolo di Faenza, Cecco II Ordelaffi Vicario di
Forlì e di Cesena, Malatesta III Malatesta detto il Guastafamiglia Vicario di Rimini,
Bernardino I arcivescovo di Ravenna, Pandolfo II Malatesta podestà di Pesaro, Nolfo I
di Montefeltro Vicario Imperiale di Urbino, Gentile II Da Varano marchese di Camerino,
Andrea Gambacorta signore di Pisa e governatore provvisorio di Lucca, Clemente VI
Papa senatore romano, Giovanni I di Vico signore di Viterbo, Orvieto e Civitavecchia,
Giovanna I d'Angiò regina di Napoli, Roberto d'Angiò principe di Taranto e di Morea,
Luigi d'Aragona re di Sicilia. Un gruppo quanto mai eterogeneo, che tuttavia
rappresentava abbastanza bene gli antichi regimi di tutta la penisola, anche se,
constatò Matteo, mancavano i monumenti alle reggenze collegiali o ai consoli dei
comuni, che erano stati tanti quanti i regni, i ducati, i principati, i marchesati o le
repubbliche. Difficoltà iconografiche, pensò: come si fa a dedicare una statua a un
consiglio dei duecento o a trenta priori trenta ? Ma a parte il fatto che si trattava
inequivocabilmente di signori italiani del passato, Matteo non comprese se un altro
nesso legasse tra loro i personaggi effigiati. Le loro fattezze e i loro abiti si sarebbero
detti di pura fantasia, poichè spaziavano, quando erano ancora riconoscibili,
dall'aspetto burbero di un vecchio vestito di una larga tunica a quello sognante di un
adolescente in armatura da torneo cavalleresco. Non è facile mettere insieme tra loro
le cose, non è facile comprendere un vincolo. La selva delle statue, verso la parte della
piazza più vicina alle palazzine degli anni venti, si diradava. C'era una specie di piccolo
prato a forma di imbuto in fondo al viale alberato che aveva appena percorso, anche
se in realtà, più che di un viale, si trattava di uno spazio indefinito e aperto. Nella
parte più larga dell'imbuto erano stati eretti altri quattro monumenti, che Matteo,
questa volta, riconobbe senza bisogno di leggere la targa: raffiguravano, nell'ordine,
Giuseppe Garibaldi, Camillo Benso conte di Cavour, Giuseppe Mazzini e Vittorio
Emanuele II, ed erano tutti a figura intera. I quattro eroi si trovano dappertutto. Come
si fa a non riconoscerli ? Nel collo dell'imbuto vero e proprio, più defilato, subito dopo
la nicchia di una siepe, c'era invece il busto di un personaggio dal volto molto meno
noto. Guardava i grandi del Risorgimento come se si aspettasse qualcosa da loro, una
risposta, un ringraziamento. L'uomo che Matteo stava cercando di avvicinare era
addossato proprio a quella statua, sull'altro angolo della siepe. Aveva piegato la testa
in avanti, assorto in sè stesso, e Matteo non fu ancora sicuro di poterlo riconoscere.
Esitò. Lesse la targhetta metallica che era stata aggiunta alla colonna che sosteneva il
busto dello sconosciuto: a colui che ispirò i sacri versi del canto del nostro riscatto la
patria intonando riconoscente. Poi, si fece coraggio. Il cielo si stava tingendo di
violetto come se fosse al tramonto. In realtà erano solo nuvole passeggere. La terra
nei prati dove spuntavano le statue era talmente calpestata che sembrava la testa di
un uomo calvo. Per un attimo Matteo immaginò di essere l'ultimo sopravvissuto di una
straordinaria civiltà e di non poter fare altro che meditare sulla sua sorte sfortunata,
da qualche parte, lungo le rive del Mediterraneo. Girò intorno alla colonna come se
passasse di lì per caso e osservò meglio l'uomo, concentrandosi sul suo aspetto. La
tenda dei suoi dubbi si aprì. Era proprio lui.
Ferdinand Hodler
Eurhythmie
Olio su tela
Berna, Kunstmuseum
"Professore !"
L'uomo alzò gli occhi e guardò il ragazzo.
"Tu sei Matteo, suppongo."
Matteo fece un cenno di sì col capo e squadrò dai piedi alla punta dei capelli l'uomo
che lo stava fissando a palpebre strette. Era cambiato. Gli sembrò più piccolo di
corporatura, portava i capelli lunghi sulle spalle, rossicci e venati di bianco, piccoli
occhiali rivestiti di blu lapislazzulo, un giubbotto corto, quasi nero, chiuso da un'unica,
lunghissima cerniera lampo, e decorato all'altezza dello spallino da una specie di
nappa dorata, come nelle uniformi dei comandanti dei velieri, scarpe appuntite. Però
era lui. I suoi tic nervosi erano inconfondibili: il collo gli scattava come se dovesse
ingoiare qualcosa che non passava dall'esofago, le sopracciglia si inarcavano e si
aggrottavano seguendo il ritmo di una danza tribale. Era proprio lui. Era stato uno dei
suoi insegnanti, per sei mesi appena, più di due anni prima. Un supplente. Ma se lo
ricordava perfettamente. Nessuno, sul momento, aveva capito il suo modo di
insegnare, ma col passare del tempo Matteo e altri compagni si erano accorti che era
straordinario, e lo avevano rimpianto. Da allora non l'aveva più rivisto.
"Insegna ancora in questa città ?" Gli chiese Matteo, che non sapeva cos'altro dirgli.
"Ho sempre insegnato in questa città." Rispose il professore.
Intanto si era staccato dalla colonna della statua e si era messo dritto in piedi di fronte
a Matteo. Matteo ebbe l'impressione che cercasse di alzarsi sulle punte perchè si
sentiva troppo basso vicino a lui. Mentre si avvicinava per riconoscerlo, avrebbe voluto
chiedergli chissà cosa, ma ora non gli veniva in mente nulla. L'uomo fece un passo,
poi due, e il ragazzo lo seguì, certo che gli avrebbe fatto piacere essere accompagnato
per un po'. Passarono vicino al laghetto della piazza. Strano specchio d'acqua:
sebbene fosse quasi estate foglie morte e marce ne ricoprivano la superficie, e i cigni
bianchissimi, scivolando lenti e maestosi, le fendevano con le leggere onde delle loro
piume. Matteo ne approfittò per chiedere al professore quale legame ci fosse tra quei
quattro o cinque eroi del Risorgimento e gli altri trentadue personaggi più o meno
oscuri disseminati nel parco. L'uomo rispose seccamente: "Nessuno."
Poi aggiunse, con un lieve sorriso:
"Se proprio vogliamo individuare un nesso, limitandoci ad una constatazione di pura
oggettività, possiamo affermare che sia nel primo che nel secondo caso si tratta di
statue."
Matteo era sempre rimasto colpito da quel suo modo di costruire le frasi e di intonare
la voce, e aveva sempre pensato che il professore, da giovane, avesse recitato. Solo
ora si accorse che il professore non gesticolava quasi per nulla, e si disse che non
poteva essere stato un attore, con tutti quei tic. Era piuttosto come un libro, sì, uno
che parlava come se leggesse su un libro, o piuttosto un libro che parlava come se
avesse le corde vocali e pronunciasse da solo la sostanza di cui è scritto.
"Si potrebbe dire di più" - disse Matteo cadenzando la frase. "Ad esempio che sono
statue rovinate. Non le sembra ?"
"Dimenticata dea, la Memoria, la pia e consolante Memoria non vede più mani levarsi
verso di lei e invocarla. Giustamente corrucciata, si allontana e abbandona gli uomini
al loro vagare senza freno nè indirizzo. Corre intanto la Pazzia, e si sparge per le
nazioni come una peste bianca."
"Bellissime ! Sono parole sue ?"
"Nessuno pronuncia parole sue. Le parole non ci possono venire in mente, se
qualcuno, prima di noi, non le ha già scritte. Solo allora ci appartengono."
Matteo sospirò:
"Mi scusi, professore. Vorrei chiederle una cosa."
L'uomo annuì senza parlare.
"Spiega ancora ai ragazzi i suoi giochi linguistici ?"
"Quelli che nessuno di voi voleva capire ?" Disse il professore, velando la sua voce di
una leggerissima insinuazione.
"Vede, allora quegli esercizi ci sembravano strani. Non eravamo abituati. Ma in quei
sei mesi ho imparato tanto. Davvero ! Molti di noi hanno rimpianto il suo metodo,
dopo che se fu andato."
Il professore lo guardò senza nascondere un certo orgoglio, ma dalla sua bocca non
uscì una sola frase che rendesse partecipe Matteo della sua soddisfazione.
"Ascolta:" - gli disse, scrutandolo. - "Ascolta e risolvi: è l'alba in Calabria. Nasce la
brina solare. Si libra sulla scala arborea della robinia. Brian, bonario scriba di Nairobi,
lascia un libro a Lara che rincasa. Lara si inalbera per un brano scabroso: ora et labora
sulla scia di un labride albino che abita in un cranio. Brian non brilla in braille."
"Scalabrino !" Disse Matteo immediatamente.
"Che cosa hai detto ?" Chiese il professore, inarcando le sopracciglia fino
all'attaccatura dei capelli.
"Questo gioco è una specie di libera associazione di idee tra le varianti di un
anagramma, no ? Ecco, mi ricorda una persona che si chiama Scalabrino." Ribadì il
ragazzo.
"Non è possibile" - concluse l'uomo. "Non puoi conoscere Scalabrino."
"Perchè, lei lo conosce ?" Chiese a quel punto Matteo, meravigliandosi.
"Certamente. L'anamorfosi anagrammatica era dedicata a lui. Ma tu, ma tu, tu che
cosa ne sai, come hai fatto a scoprirlo ?"
Avevano ormai lasciato la piazza e si stavano avviando lungo lo stradone che
costeggia il canale, pigramente. Nessuno dei due aveva chiesto all'altro dove fosse
diretto, ed è per questo, probabilmente, che si ritrovarono a percorrere lo stesso
itinerario. Il sole illuminava già ogni cosa e ne appiattiva i contorni. Matteo cercò di
spiegare brevemente al professore come era cominciata quella storia e fino a che
punto era arrivata. Il professore lo ascoltò attentamente, e a Matteo parve di vedere
aumentare il ritmo delle sue improvvise e impercettibili smanie nervose.
"Chi avrebbe mai pensato che dopo tanto tempo Scalabrino potesse colpire ancora ?"
Disse il professore.
"Lei ? Lei è stato uno dei compagni di Scalabrino a Vivarium, professore ?" Chiese
Matteo. Avrebbe voluto aggiungere perchè non mi ha mai detto nulla, ma si accorse
che sarebbe stato sciocco, e preferì rimanere a bocca aperta.
"E ha colpito proprio bene." Commentò il professore, guardandolo meglio. Matteo non
capì che cosa intendesse dire, ma qualunque cosa fosse non gli interessava. Ora
voleva solo saperne di più, e cominciò a tempestare l'insegnante di domande: nei suoi
sei mesi di supplenza non aveva osato tanto. Il professore lo lasciò fare, ma non
appena si accorse che il ragazzo aveva bisogno di riprendere fiato, lo interruppe:
"Lo sai come ci chiamava ? Leonardo, Raffaello, Donatello e Michelangelo."
"Oh, sì, come gli artisti del Rinascimento."
"No, come le tartarughe Ninja."
"Ah, no, questa poi ! Non ci credo !"
"Tu non conosci Scalabrino !"
"Questa frase l'ho già sentita, professore."
"Chiunque abbia conosciuto Scalabrino può ripeterla a chiunque lo conosca da meno
tempo di lui."
A Matteo non sembrava possibile che proprio uno dei suoi insegnanti avesse fatto
parte di un gruppo e di un'esperienza che cominciava a considerare alla stregua di un
mito. Quei sette magnifici che fondarono Vivarium se li era immaginati in tutto e per
tutto simili a Scalabrino: romantici eroi belli e imponenti, con lo sguardo di ghiaccio, le
labbra pronte alla poesia, il cuore pronto all'azione. Il professore, certo, era un erudito
di alto livello, forse una specie di genio nel suo campo, ma a vederlo sembrava un
essere insignificante, incapace di credere in un'avventura che non fosse fatta soltanto
di parole eleganti e forbite. Un eterno malinconico.
"Lei chi era ?" Gli chiese, per sincerarsi che dicesse il vero.
"Io ero Donatello. Per Scalabrino. Solo per lui. Tutti gli altri mi hanno sempre
chiamato col mio vero nome."
Matteo colse al volo l'occasione per chiedergli chi fossero realmente gli altri e cercò di
spiegargli, con parole molto semplici, che cosa avrebbe desiderato da lui in quel
momento: informazioni, tutte le informazioni, nient'altro che informazioni. La verità,
tutta la verità, nient'altro che la verità. Il professore, contrariamente a quanto Matteo
si aspettava, non volle sapere nè perchè il ragazzo fosse così interessato a Vivarium,
nè perchè stesse cercando Scalabrino. Lo lasciò parlare e lo ascoltò premurosamente,
eludendo però tutte le domande più pertinenti sul significato e soprattutto sulla fine
dell'esperimento. Dell'ipotesi che Scalabrino fosse fuggito o meditasse il suicidio non
volle neppure sentir parlare, e a proposito di Lara disse che non era ancora morta benchè fosse gravemente malata - e che per quanto gli risultava lo stesso Scalabrino
andava regolarmente a trovarla. Matteo si guardò intorno e vide la città distesa ai
piedi della collina come un'aiuola di tetti interrotta dalle cime dei platani e di
campanili svettanti come tronchi rinsecchiti di un bosco pietrificato. Si affrettò a
chiedere al professore riferimenti più precisi, nomi, indirizzi, numeri di telefono o di
fax, mestieri, date di nascita, ritagli di giornale. Si comportò come un investigatore ad
un posto di blocco, e fu così irruento e maldestro che avvertì subito il desiderio di
scusarsi con il professore. Il professore mise le mani in avanti per calmarlo, e si limitò
a dirgli che se proprio voleva incontrare Lara, l'avrebbe potuta cercare all'Ospedale di
Santa Marta, dietro il Mercato dei Fiori, al reparto malati terminali. Gli confessò che,
per quel che lo riguardava, non aveva più voluto vederla, perchè non riusciva a
sopportare l'idea che quella donna sofferente fosse la stessa ragazza piena di vita,
geniale, creativa, entusiasta che aveva conosciuto a suo tempo a Vivarium. Quanto
agli altri, gli disse che non c'era da illudersi che avessero ancora voglia di parlare di
Vivarium.
"Non siamo così giovani da aver già dimenticato - aggiunse - ma non siamo nemmeno
così vecchi da cullarci piangendo nella nostalgia. E'solo che la nostra vita è diversa,
ora: non abbiamo più voglia di ripercorrere la strada della disillusione."
In verità, Matteo sentì le sue gambe tremare. Sapeva di colpo molto più di prima su
Scalabrino e su Vivarium, ma non fu per nulla tranquillizzato dalle ultime rivelazioni.
Sapere che Lara era viva, che l'epilogo di una vicenda che aveva immaginato quasi al
di fuori del tempo e dello spazio poteva ancora aver luogo, lo turbava moltissimo e lo
spaventava. E sentir dire che tutto era stato vano, benchè lo avesse già intuito, lo
indignava a tal punto che se quell'uomo non fosse stato il suo professore lo avrebbe
assalito, urlando, gli avrebbe gridato che si stava comportando come un traditore.
Cercò di mostrarsi sarcastico per punzecchiarlo:
"L'uomo - disse Wilde - invecchia giudicando."
"Non mi sembra che l'abbia detto Wilde." Precisò subito il professore, che in materia di
aforismi era ferratissimo.
"Neanch'io so chi l'ha detto. Ma lei ci ha insegnato che se avessimo voluto fare una
bella citazione, sarebbe bastato fare i nomi di Wilde o di Kraus, e tutti ci avrebbero
creduto."
Donatello, punto sul vivo, non osò aggiungere altro. Si limitò a seguire in silenzio e
con le mani dietro la schiena i passi del ragazzo, che si stava dirigendo verso la
grande fontana delle Naiadi morenti, come attratto da una potente calamita. Il selciato
sbrecciato della strada sembrava in quel punto in tutto e per tutto simile alla
superficie di un pianeta inesplorato.
Pietr Jansz Saenredam
Interno della chiesa di San Giacomo
Olio su tela
Monaco, Alte Pinakothek
La fontana sgorgava rivoli come una sorgente di montagna. Prima di toccare la
cascata Matteo girò bruscamente a sinistra e il professore lo seguì. Impossibile
stabilire se fu una scelta o una coincidenza. Una stretta via descriveva un arco, il cui
ultimo tratto si allargava a delta al centro di un'altra sconfinata piazza, che sui
rimanenti tre lati era chiusa dalla cancellata di ferro del palazzo reale. A metà della
strada la facciata della chiesa di San Giacomo era incastonata tra i palazzi come un
foglio di pergamena accartocciato dal fuoco in una sequenza di superfici lisce e
spianate, come uno spartito aperto in uno scaffale di tomi dell'Enciclopedia. Chiunque
fosse stato l'architetto, aveva forse voluto dimostrare che tra ciò che sembra e ciò che
è la distanza può essere incolmabile. Ciò che sembra è un buco nella processione delle
case, il vuoto creato da una palla di ferro demolitrice. Ciò che è è un merletto di pietra
ricamato di foglie e di fiori nelle parti convesse e di geometrie complesse in quelle
concave. Anche il portale sembra ciò che non è, è ciò che non sembra. Appare come
un grappolo di colonne che si abbracciano sulla cuspide in un unico capitello d'acanto.
Si rivela un nugolo di angeli in volo, protesi verso un inespresso concetto divino. Come
folgorato dal segno di Costantino, Matteo entrò nella chiesa, convinto - chi sa poi
perchè - che il professore non l'avrebbe seguito. Non solo, invece, l'uomo lo seguì, ma
gli disse che quando non aveva niente altro da fare proprio in quel tempio inondato di
sole si fermava volentieri, per meditare sulla semplice e grandiosa sensibilità
dell'uomo costruttore. Nell'interno la chiesa era una bolla d'aria bianca e spoglia,
silenziosa e tentatrice, se non fosse stato per la grande tomba a piramide che in un
angolo svettava ricordando ai visitatori la bellezza infinita della vita. Nel silenzio
profondo si udiva il battere d'ali delle colombe che attraversavano le altissime volte
prive di affreschi, da una finestra rotta all'altra, di tanto in tanto colpite da un cono di
luce. E loro due, sul pavimento solcato da lastre prospettiche, soli e minuscoli. Come
in una celebre scena del Barry Lyndon, disse Matteo per far piacere al professore.
Come in una clip dei Simple Minds, disse il professore per far piacere a Matteo. A poco
a poco i due sguardi si sorrisero. Matteo fu meno indisponente, il professore fu più
disponibile. Concesse infine a Matteo molte notizie, non necessariamente utili, ma
sufficienti a chiarire almeno una parte di ciò che il ragazzo continuava a chiamare,
all'americana, il mistero di Vivarium. Le rivelazioni seguirono la pianta della chiesa. Fu
una lunga successione di passi e di soste alternate ad una frase o ad un allusione, che
avrebbe potuto somigliare alla prova di una processione per la festa del patrono,
sebbene in San Giacomo tutto sembri ciò che non è e sia ciò che non sembra. A cornu
epistulae. Monumento funebre al poeta laureato: Leonardo, devi sapere, è uno dei
custodi del museo delle Arti Maggiori e Minori. Prima colonna della navata: ma certo !
Lui ti parlerà volentieri, ma non ama le parole. Primo altare laterale: Leonardo è un
appassionato di elettronica, un vero esperto nel ramo. Seconda colonna della navata:
Raffaello, quando a Vivarium fu tutto finito, cadde in una profonda crisi depressiva.
Secondo altare laterale: Raffaello e Scalabrino litigarono, e fu un duro colpo per
entrambi, poichè erano molto attaccati. Pulpito piccolo: no, non credo che Raffaello
abbia ancora voglia di parlare. Altare del transetto: comunque, scriveva tutto su un
diario: è l'unica testimonianza diretta su che cosa è successo a Vivarium. Cappella
della Crocifissione: però, tu mi capisci, è quasi introvabile, e non sarà facile
convincerlo a far leggere il suo diario al primo venuto. Cappella di San Giacomo:
Michelangelo è l'unico che non si è nemmeno iscritto all'Università. Arca dell'altare
maggiore: peccato ! E'intelligentissimo, acuto, sarebbe stato uno studente
brillantissimo. A cornu Evangelii. Cappella dell'Annunciazione: è un tipo esuberante,
credimi ! Ha fatto l'attore, il cameriere, il geometra, l'animatore nelle colonie estive, il
meccanico, il venditore ambulante e il restauratore di mobili. Monumento funebre del
transetto: attualmente lavora come magazziniere per un'agenzia di spedizioni
internazionali. Cappellone della Sagrestia: Michelangelo è avvicinabile soltanto per
telefono. Secondo altare laterale: finge di essere irascibile e misterioso, ma non è così
burbero come vuole sembrare ! Pulpito grande: il fatto è che è sempre stato una
specie di anarchico e teme di essere spiato e controllato. Seconda colonna della
navata, colonna dipinta: pensa che tutti complottino contro di lui, contro la libertà e
contro la democrazia. La sua è una fissazione ! Cantoria dell'organo: Monica fa
l'accompagnatrice turistica. Primo altare laterale: lavora per quella piccola agenzia che
si trova esattamente nella strada che porta dalla Loggetta del Pesce alla via delle Torri
Sghembe, all'angolo della scaletta che scende verso il fiume, vicino al ponte
longobardo. Prima colonna della navata: Monica è una gran bella donna, non si
discute. Pila dell'acquasantiera: è quasi sempre in giro per il mondo, beata lei ! Ma
scrive molte cartoline agli amici. Arco del portale: Donatello, ovvero il sottoscritto, ha
dettato a suo tempo un piccolo trattato nel quale espone alcune delle teorie che hanno
ispirato la fondazione di Vivarium. Ora potrebbe essere disposto a farlo leggere a chi
ne farà richiesta.
"Io." Disse prontamente Matteo, fermandosi sulla soglia.
"Ok". Rispose prontamente il professore, facendo un passo in avanti. "Seguimi !"
Uscirono e si allontanarono. Matteo, sfruttando la situazione, cercò a tutti i costi di
strappare al professore una riflessione sulla malvagità del destino avverso, ma il
professore spostò abilmente l'ago del discorso sull'impossibilità di attuare le utopie.
"Vivarium non era altro che un'utopia - sentenziò Donatello - e le utopie falliscono
perchè non sono state accuratamente programmate in tutti i particolari. Altro che
avverso destino !"
"Ma l'utopia si può definire una forma di ricerca della felicità, e ho letto che la felicità
non è che un episodio fortuito nel dramma universale del dolore." Disse Matteo.
"Tuttavia - rispose il professore - non è questo il caso di Vivarium. Non volevamo
perseguire la felicità, ma la salvezza della memoria, che in quanto tale è l'unico
obbiettivo utopistico di cui dobbiamo ritenerci pienamente responsabili."
Nei minuti successivi Matteo scoprì che il professore abitava accanto alla chiesa di San
Giacomo, e che la sua casa era così bianca da risultare soffocante, nonostante
l'enorme quantità di oggetti che conteneva. Meraviglie di ogni genere, tutte
accuratamente esposte su decine di metri di scaffali, probabilmente ordinate secondo
uno schema preciso. Ma non riuscì ad accostarsi a nulla, neanche ad una vetrina che
gli sembrò piena di ammoniti e nummuliti, perchè, prima di poter fare un tentativo, si
ritrovò tra le mani un volumetto dal titolo lungo e complesso. Fece appena in tempo a
sfogliare la prima pagina, che già il professore lo stava invitando cortesemente verso
la porta, come se nella casa nascondesse qualcosa o qualcuno. Neppure le pareti
vuote gli sembrarono più limpide della sua gelosia. Solo quando furono sull'andito
delle scale il professore dette a Matteo le istruzioni necessarie per recuperare altre
testimonianze dedicate a Vivarium, se erano testimonianze ciò che desiderava. Gli
descrisse Leonardo perchè potesse riconoscerlo, e volle indicargli anche la strada per il
museo, benchè Matteo la conoscesse già. Il percorso che volle assolutamente
precisare, però, non era lo stesso che Matteo avrebbe seguito, essendo quello del
professore rigorosamente il più breve, mentre quello del ragazzo prevedeva una
deviazione, poco prima dell'arco delle Pescherie, verso la fermata dell'autobus numero
18, dove c'era un negozio di dischi usati, segnalato da un grande quadrifoglio giallo
canarino stampato sulla vetrina: quel negozio attirava Matteo come il miele attira le
api, tanto che egli non poteva fare a meno di visitarlo ogni volta che passava da quelle
parti. Per tornare verso la piazza del museo, Matteo si infilava poi nel vicolo della
Porta Bucata, dove avevano appena aperto una friggitoria che vendeva ciambelle
calde e un rigattiere, e piegava, attraverso la minuscola piazzetta delle Palle di Carta,
in via delle Macchie d'Olio, che odiava perchè era sempre molto affollata, trafficata,
maleodorante di gas di scarico e per di più quasi del tutto priva di marciapiedi, che si
riducevano ad una sottile striscia di travertino consumato e annerito dal tempo, di
tanto in tanto interrotta dai segnali, dai pali dei cestini dei rifiuti e da certi parcometri
vecchio stile, rossi, cromati, grandi quanto una buca delle lettere. Da via delle Macchie
d'Olio, Matteo si immetteva direttamente sul vialone del museo, che invece il
professore raggiungeva girando intorno ai resti della Biblioteca Bizantina. Quando
Matteo fu sul primo scalino il professore gli dette anche il numero di telefono di
Michelangelo e gli disse che avrebbe cercato personalmente Raffaello per convincerlo a
fargli leggere il suo diario. Gli disse anche che poteva passare da Monica in qualunque
momento, sempre che in quel periodo fosse in Italia. Matteo disse al professore che
per quello che riguardava le opinioni di Monica ci aveva già pensato il giudice, e a
quelle parole Donatello trasalì:
"Il giudice ! Quale giudice ?"
Matteo si scusò con lui per non avergli raccontato del giudice: disse che si trattava di
un amico di Scalabrino, che avrebbe potuto ritrovarlo meglio di chiunque altro. Il
professore si morse leggermente le labbra, andò verso il ragazzo, riprese il volumetto,
tirò fuori una penna dalla tasca e fu sul punto di scarabocchiare qualcosa su una delle
prime pagine. Poi ci pensò, e si lasciò andare ad un commento a prima vista
inopportuno:
"Già ! Il giudice ! Me n'ero dimenticato."
Così restituì il dattiloscritto a Matteo. Tuttavia volle precisare che se c'era un pubblico
ufficiale di mezzo sarebbe stato meglio aspettare qualche ora prima di telefonare a
Michelangelo: nel frattempo ci avrebbe parlato lui, con l'amico ritrovato, tentando, per
quanto possibile, di spiegargli la situazione. Matteo si domandò la ragione di tante
precauzioni, ma non volle porsi ulteriori problemi e non reagì neppure: si limitò a
salutare il professore, ringraziandolo. Poi scese finalmente le scale, tirando un sospiro
di sollievo: il comportamento di Donatello negli ultimi dieci minuti lo aveva alquanto
innervosito. Ma una volta per strada strinse tra i polpastrelli il suo libello, e provò una
grande soddisfazione. Il caso, il caso gli aveva offerto la possibilità di scrutare nei
meandri di Vivarium. Di leggere addirittura un intero trattato sulla sua nascita e la sua
morte. Si sentì così eccitato che, poco dopo il palazzone della Previdenza Sociale, nella
zona ricostruita della città, dove il cemento delle colate era in bella vista sugli spigoli e
il legno degli infissi era stato colorato vivacemente per evidenziare le differenze tra la
mano dei ritocchi moderni e gli ultimi reperti intatti delle architetture del passato,
passò sotto un gigantesco manifesto di Benetton senza neppure notarlo.
Marc Chagall
La passeggiata
Olio su tela
San Pietroburgo, Museo Nazionale Russo
Matteo lesse il libretto di Donatello appoggiandosi alla base cubica di un obelisco
piantato al centro di un'aiuola di forma allungata. La sequenza delle parole gli sembrò
misteriosa, la sintassi oltremodo difficile e contorta, tanto che fu costretto a tornare
più volte su alcuni passi. Nel complesso, non fu particolarmente contento del
contenuto e delle conclusioni del trattato: una visione riduttiva, si disse, un'ipotesi che
solo in minima parte collimava con ciò che Scalabrino aveva a sua volta scritto e
chiarito. Pensò anche di tornare indietro per controbattere al professore non solo che
la sua interpretazione di Vivarium era discutibile ma anche che, imperdonabile
dimenticanza, tra tutte le raccolte citate ne mancava una di fossili, che sono, è
innegabile, la memoria stessa del pianeta. Ma non lo fece, perchè, dal perno
dell'obelisco, vide passare D.U., e ne fu subito distratto. D.U. era uno dei personaggi
più caratteristici della città. Una donna non più giovane, ma ancora piacente, che
vagava per le strade dalla mattina alla sera vestita come un'escursionista della
domenica, con lo zaino sulle spalle, grossi scarponi ai piedi, pantaloni alla zuava che
scoprivano una parte delle sue lunghissime gambe magre. Camminava, camminava
sempre, velocemente, come se dovesse scoprire un polo o esplorare una foresta, e
solo di rado si fermava senza una ragione dove c'era gente che stava alzando la voce
o che abbassava la testa per non incontrare il suo sguardo:
"Uomini, cattivi." Diceva, e nessuno capiva a che cosa volesse alludere. Poi sorrideva,
dolcissima, tenera come una maestra d'asilo, e riprendeva la sua marcia, verso non si
sa dove. Matteo conosceva la storia di D.U. perchè essa era nota a tutti i collezionisti
di fossili. Qualche anno prima, quando era ancora una bella ragazza del tutto sana nel
corpo e nella mente, aveva trovato un Archaeopteryx straordinariamente integro
durante una passeggiata nel vallone detto delle Pietre, vicino al fiume. Si era fermata
sotto un abete, dove voleva costruire una specie di focolare. Per sentirsi più vicina alla
natura, raccontò poi. Cominciò a raccogliere dei sassi piatti, adatti allo scopo, e ne
trovò uno piuttosto grande, che provò a spezzare colpendolo con un bastone. Il sasso
si aprì come un libro, e fu così che D.U. scoprì il calco nitidissimo del rarissimo uccello.
Pura fortuna. Che l'ingenua non seppe sfruttare, poichè offrì il reperto ad un
commerciante enormemente più furbo di lei, che prima cercò di incantarla e poi, per
poche lire, gli portò via quello che tutti ritengono, e a ragione, il più grande
capolavoro del Giurassico, rivendendolo poi ad un museo tedesco per una cifra che
nessuno ha mai scoperto, ma certamente molto, molto elevata. D.U., tuttavia, non era
impazzita per questo, poichè alle delusioni da parte maschile era certamente già
abituata, e nessuna donna di buon senso, inoltre, si lascerebbe ossessionare dall'idea
di aver perso un'occasione per diventare ricca. No. Aveva cominciato a perdere la
ragione solo quando si era resa conto che stava perdendo la vista. Per atroce ironia
della sorte, la sua ottima vista, che lei stessa considerava molto più preziosa del più
raro dei fossili, cominciò a dare segni di cedimento pochi giorni dopo la conclusione
dell'affare dell'Archaeopterix. Alcuni individuarono un nesso tra le due cose, ma le
relazioni di causa ed effetto non sono mai così semplici e lineari. Fu una beffa, in
effetti: la vista di D.U. ebbe una specie di implosione, si autodistrusse proprio quando
sembrava sul punto di diventare perfetta. L'occhio è una macchina stupenda. Può
percepire più di tredici milioni di sfumature di colore. Ma in realtà non ne distingue
con chiarezza che poche centinaia. D.U. avvertì un giorno che qualcosa le consentiva
di scorgere tutte le sfumature possibili e di cogliere distintamente la differenza che le
separava l'una dall'altra. In un primo momento pensò di essere stata toccata da una
benedizione, da un miracolo: in realtà il suo occhio si stava irreversibilmente
modificando a causa di una malattia quasi sconosciuta. Ben presto, D.U. cominciò a
intravedere tutto come attraverso una finissima griglia, un reticolo, come una somma
di infiniti, piccolissimi punti colorati. E non fu più capace di cogliere l'insieme delle
cose, che le apparivano incerte, tanto quanto erano nitidi i microscopici campi che la
sua retina, come uno spettrografo, sapeva analizzare. Un vero paradosso: D.U. vedeva
ciò che nessun altro poteva vedere, ma era come se non avesse più il dono della
visione. Anche perchè la terribile bellezza di una simile esperienza non poteva
nemmeno essere raccontata. Il suo cervello non poteva classificare tutte le differenze
di tonalità che il suo occhio percepiva, poichè nessuno ha mai scritto il nome di così
tanti colori. Così, mentre i medici si affannavano a studiare da vicino quella strana
patologia, D.U. si trovò di fronte contemporaneamente ad un problema semantico - un
caso esemplare e irrisolvibile di inadeguatezza e inattendibilità del significante rispetto
al significato - e ad un problema ontologico di portata cosmica, vedere o non vedere.
Per tutti noi, normali vedenti, una rosa è una rosa, e se diciamo una rosa vogliamo
dire una rosa, o esprimere, in second'ordine, il nome del colore della rosa. Ma per
D.U., colpita dal male ignoto, la rosa era ormai solo una sagoma indefinita, mentre
tutti i suoi colori, quegli stessi che nessun altro è in grado di apprezzare, le risultavano
chiari, anche se non c'erano le parole per poterli descrivere. Poteva dire che quella era
una rosa ? No, perchè non ne era sicura. Poteva dire che quella rosa era rosa ?
Nemmeno. Perchè per lei quella rosa era solo una lunghissima serie di superfici
cromatiche che la lingua non le permetteva di delimitare. E la follia nasce nel
momento in cui le parole non sono più sufficienti. Soltanto l'imprecisione e la
vaghezza avrebbero potuto aiutarla a definire ciò che percepiva perfettamente: rosa
più chiaro, rosa più scuro, rosa così così. Troppo poco per il suo occhio ipersensibile e
ipertrofico. Oppure avrebbe dovuto elencare i colori sulla base delle variazioni di
frequenza, ma tutta la sua vita si sarebbe ridotta a un'arida sequenza di cifre. Per
questo, probabilmente, D.U. preferì impazzire. Per non dover sottostare alle regole di
un mondo che usa un linguaggio imperfetto e generico per comunicare le infinite
differenze di cui la sostanza delle cose è fatta, che lei sola, invece, conosce
perfettamente. Erano passati non si sa quanti anni. Ora nessuno sa esattamente in
che modo funzionino gli occhi di D.U., se scompongano ancora la forma in unità
elementari o se piuttosto non deformino le aree in modo tale che una sfumatura
sembri diversa, che un verde si sovrapponga a un viola, o un ocra ad un azzurro.
Quando la donna cammina per la strada, a volte barcolla, come se fosse cieca. Ma se
qualcuno le chiede di elencare tutti i colori dell'universo, lei sorride e ne descrive una
gran quantità, come se li vedesse, come se leggesse un catalogo di una fabbrica di
vernici. Però, alla fine, ci tiene a precisare che si dovrebbero eliminare dall'elenco tutti
quei colori il cui nome coincide con quello di un oggetto, per non fare confusione. Una
rosa è una rosa è una rosa. E basta. Non si può affermare che è gialla, che è bianca,
che è rossa o che è nera, perchè non è vero, ma soprattutto non si deve dire che è
rosa, perchè non vorrebbe dire niente. Dovremmo inventare un altro nome per il
colore della rosa, o tacere per sempre su quell'aspetto non proprio insignificante ma
nemmeno sostanziale della sua essenza. D.U. faceva parte, ormai, della categoria di
quelli che preferiscono tacere. Uomini. Cattivi. Le sue uniche due parole. Vedendo D.U.
sfilare nella piazza a passo di marcia, Matteo non provò nè curiosità nè compassione.
Pensò all'Archaeopterix. Poi si disse che era una donna libera: liberi sono coloro che
non devono giustificare ciò che fanno, e D.U. è ormai così protesa verso la libertà da
non dover rendere conto neppure di ciò che vede. Dura legge la libertà. Erano già
passate non meno di due ore da quando aveva lasciato la casa del professore: ora
Matteo poteva finalmente provare a cercare il solitario Michelangelo. Si scostò dal
freddo travertino del basamento dell'obelisco e si guardò intorno. Solo una parte della
città lo circondava, ma ebbe ugualmente l'impressione che da quel punto,
emblematicamente perforato dallo spillone egiziano, se ne potesse percepire l'intera
estensione, come se i palazzi e le chiese fossero scheletri di vetro stampati sulla lastra
di un'immensa radiografia, come se fossero bolle d'aria che galleggiano ai limiti della
foschia. Mosse un passo e si sentì il capitano di una nave che salpa in cerca di un
porto sicuro e di un'isola che probabilmente non c'è. Si ricordò vagamente di quando
aveva visto l'infinito, sul mare. Il mare era liscio come un lenzuolo tirato e chiaro
come il cielo, e l'evaporazione era così forte che la linea dell'orizzonte era svanita, e
sembrava che alla fine della spiaggia ci fosse il nulla. Quella era stata la prima volta
che aveva desiderato essere accanto alla persona amata, anche se non era sicuro che
ce ne fosse una in particolare. Ora lo desiderò di nuovo, e i suoi desideri presero una
forma che non riuscì, o non volle riconoscere. D.U. la marciatrice era già lontana. Se
non fosse così scontrosa, se non avesse l'età di sua madre, se non corresse così forte,
se non volasse via come una colomba, potrebbe chiederle di diventare la sua guida.
C'è bisogno della sua retina radar per orientarsi in una città invisibile. C'è bisogno di
prendersi per mano in un mare di sentieri a forma di serpenti di bitume. Dove tutto
può sembrare una strada che si allontana. Dove è ragionevole sentirsi ubiqui, unicorni,
zingari, anomali lemuri alati.
Piet Mondrian
Composizione A
Olio su tela
Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna
Matteo decide di fare un lungo giro prima di andare al museo. Ogni città è una piccola
città, dicono gli elzeviri di Eupolis, geniale rivista sull'utopia della qualità. Ma un
insieme di strade rettilinee e piazze quadrate non è sufficiente per fare una città. Non
è altro che un gioco, la mappa di un mondo simulato e inesistente, che solo
l'incoscienza può ritenere razionale percorrere. Questa è la cronaca di una parte della
giornata non proprio particolare di un uomo, se un adolescente è un uomo,
all'affannosa ricerca del senso compiuto delle cose. Matteo, in realtà, si muove
appena. Lo spazio che percorre è interiore, il tempo che impiega non passa, è eterno,
è presente in ogni istante, conscio della sua inconsistenza. Comincia poco prima
dell'ora di pranzo e finisce quando Matteo si accorge che non ha pranzato ed è troppo
tardi per farlo. Comincia così. Piazzale. Monumento. Segnale. Via da tutta quella
gente. L'obelisco, allontanandosi, somiglia a un birillo o a un ombelico. Finalmente un
po'di pace. Finalmente un ordine succede alla confusione delle percezioni e
all'incertezza degli obbiettivi. Vivarium non è un miraggio. Vivarium è. Matteo
cammina. Oltre la Renault cinque finisce il parcheggio e anche le automobili
scompaiono. I vigili urbani sono molto severi con quelle in divieto di sosta, da quel
punto in poi. Viale Monterosa. Il vecchio tabernacolo è stato ridipinto con acrilici
indelebili. Ora nella nicchia c'è un paesaggio indiano. Buddha guarda pietoso e
sponsorizza indirettamente la sua terra. Ma le due vetrine dell'agenzia Alisei
reclamizzano l'Egitto delle piramidi, gli operai della società elettrica riparano una
cassettina grigia che spunta dall'asfalto come un parallelepipedo campanile, dal
ristorante turco esce e si espande per l'aria l'aroma dei kebab, mentre la pila conica
del gyros perde il grasso sulla griglia verticale. Ed erra l'armonia per questa valle. Via
Verdi. Matteo non può telefonare a Michelangelo: al bar degli sportivi hanno finito i
gettoni e non hanno ancora installato l'impianto a schede. Qualcuno ordina
distrattamente uno spuntino e un Crodino. Corso Raffaello. La vecchia cabina gialla e
d'argento è fuori servizio perchè hanno portato via il cavo della cornetta. Uno stronzo,
pensa Matteo, lo stesso delle altre volte. Ma in una giornata quasi estiva sono molti gli
imprevisti. Bisogna avere pazienza, il segreto è ingannare la noia. Calma e gesso,
dicono i giocatori di biliardo prima del tiro. Come si chiamano, esattamente, i giocatori
di biliardo ? I biliardai sono coloro che li fabbricano, i biliardi. I biliardieri sono i
padroni dei locali, fumosi, dove si gioca, a biliardo. Biliardisti, allora ? Biliardanti ?
Biliardari ? Vexata quaestio. I biliardari sono quelli che possiedono molti miliardi,
come Paperon de'Paperoni. E tu sei soltanto uno stupido, Matteo, se perdi così il tuo
tempo. Vai avanti, piuttosto. Piazza Giulio Cesare, finalmente. Porticato rosso mattone
di un palazzo fascista, già sede della GIL, dell'INA e dell'IVA. Ora c'è la SIP. L'ufficio è
ancora aperto. Orario continuato. Matteo si apparta nell'unica cabina con il numero
cancellato. Digita sul tastierino una sequenza piuttosto complicata e ascolta il suono
rassicurante del segnale libero:
"Pronto ?"
"Pronto ? Mi scusi, mi chiamo Matteo. Sto telefonando per una questione che non so
come raccontare."
"So già tutto."
"Allora posso parlare con lei ?"
"No. Sarò io che parlerò con te."
"Non capisco."
"Da dove telefoni ?"
"Da una cabina."
"Ti interessa la mia testimonianza ? Vuoi sapere che cosa è successo ? Accontentati
della mia voce, allora. Registrerò tutto su un nastro e te lo spedirò."
"Mah !"
"Non darmi il tuo indirizzo. Non importa. Lo troverò da solo. Prendere o lasciare. Non
voglio finire in prigione per causa tua."
"Va bene. Allora restiamo d'accordo così ?"
Lo sconosciuto interlocutore, Michelangelo probabilmente, chiude qui la conversazione,
per quel che lo riguarda. Nonostante il caldo terribile, l'imbarazzo e l'inquietudine,
Matteo non suda affatto. Il suo modo di fare è quanto meno contraddittorio, pensa,
con il telefono ancora in mano. Tuttavia non sembra ostile. Infine, appende il
microfono ed esce. La porta della cabina scricchiola come un capannone prefabbricato
colpito da un uragano di grandine e si spalanca di colpo, dondolando su sè stessa
avanti e indietro per qualche secondo. Matteo aspetta che tutto sia finito. Poi esce, si
allontana e riflette: il professore dice che Michelangelo è diffidente per natura e che
non vuole avere nulla a che fare con nessun giudice. Per di più non mi conosce. Basta
sommare due più due, ed ecco che si spiega la ragione del suo comportamento. Ma
quante sono le probabilità che mantenga la sua promessa ? Una voce registrata. So
logical, yeah ! I ragazzi di oggi sanno che è meglio guardarsi in faccia, quando si
parla. Al limite, c'è il videotel, che aiuta il timido e il losco, il solitario e il fuggiasco.
Ma i trentenni, i trentenni si scambiano ancora i messaggi mixando su cassette al
cromo ferro e nichel la musica dei Pink Floyd, dei Supertramp o degli Emerson Lake &
Palmer con ingenue parole d'amore che cantano i lunghi capelli mossi e scarmigliati di
una madonna pierfrancescana o di una maddalena caravaggesca. Dev'essere
un'abitudine della loro generazione. Un fatto di età, di nostalgia. Però la voce di
Michelangelo è molto bella, fa pensare a una linea nell'aria, che scavalca i viali, i
giardini e i parchi, dritta e solenne. Si ascolta volentieri. Matteo, ormai, è a quattro
passi dal luogo che ha individuato come punto d'arrivo. Uno stretto passaggio
lastricato di sampietrini piatti e omogenei, tra due binari del tram, lo divide dal
museo. Qui, proprio qui, esofago della città, punto obbligato di transito del traffico,
Scilla e Cariddi dei viaggiatori tutto compreso, capo di Buona Speranza degli studenti
universitari, in un qualsiasi spazio pubblicitario di alluminio addossato alla parete di
un albergo, a fianco dello spezzone di strada odoroso di fiori, luccicante di plastica,
fluorescente di neon in pieno giorno, lampeggiante di scatti di macchine fotografiche
con flash anodino, sporco di regolari salviette imbrattate di pizze al taglio, teatro
roboante di brevi zoomate di videocamere tascabili, mare di onde umanoidi sul quale
svettano isole solitarie di palme numerate e agghindate di stemmi e di fiocchi, Matteo
vede un manifesto. Che se non avesse cercato di attraversare il marasma sul lato più
interno del marciapiede non avrebbe neppure visto. Che se non avesse girato la testa
per non incrociare lo sguardo di un giapponese troppo sorridente non avrebbe neppure
scorto. Che se non avesse conosciuto Scalabrino non avrebbe neppure notato.
Vivarium. Associazione Culturale. Palestra. Piscine. Fitness. Tassa d'iscrizione lire
20000. Semplice e anonimo, poco più di una sequenza di sagome azzurre su campo
giallo, un esercizio di stile. Per nulla arcano, quindi raggelante. Per nulla misterioso,
quindi sconvolgente. Per nulla sacro, quindi terribile. E'Vivarium ? Tutto qui ? Non è
Vivarium. Non può essere. Però si chiama Vivarium, duplice dubbio disumano. Un mal
riuscito tentativo di imitazione ? Un equivoco senza importanza ? Una doppia
identità ? Un palese depistaggio ? Una circostanza casuale ? Un'amara verità, o più
semplicemente la verità, poichè la verità è sempre amara ? Non so, conclude Matteo.
Ma so di non sapere. Di certo non è. La pubblicità non ha nulla a che fare con
l'immaginazione. Le idee non si sa dove nascano, dove finiscano, che cosa possano
diventare o quante volte vengano attuate. Matteo, improvvisamente, sente la fame.
Ma decide di proseguire e di rimandare al giorno successivo la soluzione del problema.
Come sempre, al museo c'è la coda. Matteo la rispetta e aspetta, come tutta l'umanità
in movimento. Ma ben presto la noia lo assedia, e si accorge che non può più
ingannarla con una sortita o con un tiro di dadi. Il gioco è bello quando dura poco. Lo
spazio perde la sua limpidezza geometrica e si offusca in una larga chiazza di bianco,
una parete. Il tempo è assente ed etereo, e diventa imperfetto. Com'era.
Umberto Boccioni
Visioni simultanee
Olio su tela
Wuppertal, Von der Heydt Museum
Era solo, Matteo, molto solo, molto molto solo. Di solito non prestava attenzione a
quello che gli altri dicevano e blateravano, bla bla bla e bla bla bla, meno che mai in
una situazione di forzata promiscuità, nella coda. Ma ora scopriva di poter percepire le
parole sconnesse della folla, pezzi di frase, finalmente fuori da ogni contesto, voci di
persone distanti cinque, sei o sette posti nella fila che si contorceva tra le transenne
lucenti di metallo come un serpente che cambia squame, lenta e mesta, mesta e
lenta, scia di larve avviate al campo di concentramento. Sostantivi in libertà, che si
sovrapponevano le une alle altre sulla pila della sua coscienza, vuota come il suo
stomaco, parole di rame e di zinco, scandite da esseri bambini, accumulatrici di
elettrica verità. Come un domino, costruivano, senza volerlo, la trama di una parodia
di un libro parolibero:
AriaUffaRadiciEbreoVamonosObscuritèIntantoRelease
LiberaleEnfasiStock
EsagerazioniNessunoFuhrerAssassiniNaturalmenteTantoSchnell
Parole d'Europa (Matteo non sa che in un giorno medio soltanto il trenta per cento dei
visitatori dei musei italiani è rappresentato da turisti stranieri).
Ah, more
furono le ultime che comprese chiaramente prima di arrivare alla biglietteria. Il
museo, macello di pittori e scultori che vanno trucidandosi ferocemente a colpi di
colori e di linee, era grande e assurdo e disordinato, e Matteo faticò ad orientarsi.
C'era stato soltanto una volta, e non aveva un'idea precisa della sua pianta. Nessuno
l'aveva. Ricordava soltanto un gigantesco crocefisso ridotto da un incendiario in tanti
piccoli pezzettini e restaurato come un puzzle Ravensburger, ma lasciando vuoti sul
legno della croce tutti i tasselli irrimediabilmente divorati dalla forza purificatrice del
fuoco. Il verbo dei pedanti recitò che la sofferenza del Cristo era aumentata, e
l'immagine monca era diventata involontariamente più drammatica. Ma quei buchi a
forma di verme, visti da più vicino, annullavano ogni pathos, e si aveva l'impressione
di essere di fronte ad una soave astrazione dinamica, per niente tragica, sublime nel
suo incenerirsi. Rivedendo quel giorno la tavola alata, lanciata come un aeroplano
sopra le teste delle comitive frettolose e marcianti, Matteo si disse che non era poi così
diversa da qualsiasi altra opera consumata dal tempo o dagli eventi, e che la
gigantografia verdastra del tutto così com'era prima rendeva all'originale l'unica
giustizia possibile, così come una diversa e qualsiasi edizione può integrare le pagine
strappate di un libro, se la nostra intenzione è solo quella di leggerne le farneticanti
conclusioni. Si depositi un fiore sulla tomba dell'arte, e ora, ora, ora si noti che il volto
del Cristo irriconoscibile somiglia vagamente a quello di Scalabrino. Tutto intero no:
ma con quello strappo sulla guancia sinistra e sulla fronte, quelle lacerazioni
sull'orecchia e quelle chiazze di vuoto sul mento, la somiglianza era marcata, forse
perchè Scalabrino, nella memoria di Matteo, protesa come una polena, era diventato
l'immagine di un sogno crocifisso, benchè nulla, nè in quello che gli aveva detto, nè in
ciò che aveva scritto, lasciasse trapelare la sua passione. Le comitive, intanto,
continuavano a sfilare in processione, gruppi di infermi e moribondi. Matteo andò
oltre, avanti. In una sala meno visitata delle altre vide due ragazzi che si stavano
abbracciando e toccando, stretti alla parete, furiosamente, come assaliti dalla fretta,
come se fosse l'ultima cosa che potevano fare prima di una tragica separazione.
Accanto a loro, indifferente, c'era una pala dorata: Maria, Maria, avvolta in una tunica
rossa, era inginocchiata in avanti e allargava le braccia verso l'alto, in un gesto
disperato, violento. Sembrava una vampata di fuoco spenta dalla sua stessa velocità. I
poveri ragazzi, certo moralista lui, certo femminista lei, smisero di lottare coi loro
corpi quando Matteo entrò, e lo guardarono con disgusto. A Matteo dispiacque. Per
quello che lo riguardava, avrebbero potuto continuare per ore a baciarsi o a fare
l'amore; non era lì per rimproverarli, nè per spiarli. A lui non importava nulla. Ma
aveva ormai rotto l'incantesimo di un momento che a loro, poverini, sembrava certo
irripetibile. Così si allontanarono nervosamente, e lo lasciarono solo nell'odore di
muffa. Matteo guardò con aria da finto intenditore il dipinto, e pensò che sarebbe
stato gentile da parte sua dire loro che era dispiaciuto di averli disturbati, che era
bello vedere quella passione spontanea, quel desiderio di contatto fisico che non si
ferma di fronte agli estranei. A suo modo, li invidiava. Quella sera avrebbero avuto
qualcosa da raccontarsi. Ma concluse, il saggio inesperto, che non si possono gettare
sguardi simultanei su tutte le facce delle anime, e camminò ancora. Infine si fermò ad
osservare tre esperti che indicavano certi annerimenti del colore sulla superficie di
un'anconetta che raffigurava un San Giovanni Battista. Parlavano della necessità di
una riflettografia prima della pulitura. Facevano il loro mestiere con molta passione,
loro, intrepidi eroi di una battaglia perduta in partenza, cavalieri della polvere, notai
della forma, funerei becchini della sensibilità. E San Giovanni, sornione sornione,
sembrava che li ascoltasse annoiato, appoggiando la guancia sulla mano aperta. Me
ne frego, diceva, dei turisti e dei restauratori. Di tutti gli altri martiri, dei santi, dei
beati, dei cherubini e dei serafini. Dell'intolleranza e degli stupri. Della lotta e della
vittoria. Della peste e della guerra. Dell'olocausto e dell'inverno nucleare. Poteva
permetterselo. Sapeva, il maledetto profeta, che non sarebbe stato ucciso da un
banale incidente domestico, da una pallottola vagante o da una nota a margine di una
catastrofe. A lui era riservata una morte da re. Leonardo, invece. Leonardo era
nell'ultima sala di quell'ala. Era lui. Immobile occhialuto in piedi, contrassegnato da un
tesserino magnetico infilato nel taschino della giacca al posto del fazzoletto di seta.
Occhi instabili, in piena attività, sembrava che indagasse non tanto sulle intenzioni
degli sparuti visitatori innocui, laggiù dov'era, ma su quelle dei dipinti, che scrutava
come se le figure fossero sul punto di schizzare via dalle tavole e dalle tele, e lui,
guardiano incorruttibile e attento, dovesse impedire loro di fuggire e di propagarsi per
il mondo. Matteo si avvicinò, cercando di sembrare un turista. Distratto, astratto,
contratto. Quando fu vicino all'uomo-custode cercò di attirare la sua attenzione
fissandolo come un quadro, ma non riuscì neppure a infastidirlo. Hai bisogno di
qualche informazione, ragazzo, gli disse infine il sorvegliante a tre teste, due delle
quali in ricognizione nel vuoto. Poveretto, non ti hanno dato le schede all'ingresso ! Gli
rispose timidamente Matteo, dicendo è lei, per caso, il signor Leonardo ? Mi manda il
professore. Leonardo, l'informatico matematico, lo guardò, ma non sorrise. I suoi occhi
si mossero nell'aria senza sosta disegnando traiettorie magnetiche, e il suo volto,
privo del punto di riferimento dello sguardo, risultò indefinibile. Tu quoque, trasalì il
protagonista del momento, anche tu vuoi notizie su Vivarium. Una constatazione,
priva di emozioni. E Matteo, tremolando: anch'io ? Chi altri ? Poi dialogarono del più e
del meno, si sarebbe detto, ma sempre declinando gli occhi, e spietati nella
parsimonia delle parole. Scalabrino come sta ? Tu che l'hai visto di recente. Matteo
ribadisce che è scomparso e che è in pericolo. Vorrebbe sapere con esattezza che cosa
è successo a Vivarium, per poterlo aiutare. Ma Leonardo non intende. Scalabrino non
ha bisogno di aiuto. E'più forte e più misterioso della Gioconda, lui, è uno che se la
cava in tutte le situazioni. E se un problema o una circostanza diventano troppo grandi
per le sue mani capaci, allora riesce a fingere che non esistano. La sua virtù nascosta.
Il suo peggior difetto. Riferisce Matteo che non lo conosce così bene da poterlo
giudicare, avendo parlato con lui soltanto una volta. Però gli era sembrato triste,
indifeso, e non così sicuro di sè come dicono tutti, indistintamente. Ma mi scusi, signor
Leonardo, chiese ancora il ragazzo sussiegoso, perchè, mi dica, ha detto che anche io
cerco notizie su Vivarium ? Ha forse parlato con il giudice ? No. No. Niente di ciò.
Anche è un modo di dire. Significa che non c'è mai soltanto una spiegazione, che non
siamo mai i soli a fare una ricerca o a pronunciare certe parole. E basta. Matteo provò
a insistere, ma l'homo meccanicus, almeno in apparenza, non lo stava nemmeno
ascoltando. Come prima. Dunque non conosci Scalabrino abbastanza bene, fu l'unica
risposta che gli dette, sillabando abbastanza, e lo pregò, ecco, di osservare
attentamente tutti i dipinti della sala. Matteo fece il giro con la mente e notò che era
al centro di una specie di galleria di ritratti malinconici malinconici: cercò
distrattamente di dare un nome ai personaggi raffigurati, ma le sue conoscenze in
materia erano molto limitate, e non riconobbe nessuno di quei volti occhiuti. Allora lo
istruì Leonardo, sciorinando che Scalabrino era come loro, aveva la stessa
espressione, la stessa capacità di entrare dentro di te. Vedi, ragazzo, aggiunse, io per
quello che mi riguarda non riesco a tollerare a lungo uno sguardo fisso su di me. E mi
hanno messo proprio qui. In parole povere, erano in mezzo a una gabbia di autoritratti
di artisti. E c'erano quasi tutti, i furbi e i derelitti, i venduti e gli onesti. Ecco, quello è
Pontormo, quello è Vasari, quello è Federico Barocci, quell'altro è Domenichino. Poi
c'erano Salvator Rosa, Carlo Dolci, il Sassoferrato, Luca Giordano, un tale Tommaso
Minardi, che si era fatto piccolo piccolo sopra il materassaccio di una catapecchia e
solo per questa geniale trovata si era salvato dalla dimenticanza, Giovanni Fattori, e
qualche straniero, Rembrandt, Mengs, Gauguin, Cezanne, come nelle squadre di
calcio. Li hanno messi tutti insieme, spiegò Leonardo leggendo le stesse righe ripetute
cento volte da qualche parte nel suo cervello, perchè quando gli artisti raffigurano sè
stessi è come se superassero le barriere dello stile. L'autoritratto è una forma di
entelechia. E quindi è come se si trattasse sempre dello stesso ritratto. Così, solo così
un manierista e un impressionista possono stare nella stessa sala. Capisci quello che
voglio dire ? No. Matteo non lo capiva. Ma non c'è niente di più forte del loro sguardo,
niente di più imbarazzante dei loro occhioni sinceri che ti seguono. Leonardo, per
spiegarsi, citò Sciascia, che a sua volta aveva citato Diderot: gli artisti sono ignoti a sè
stessi. Ma disse che secondo lui sapevano benissimo chi erano tutti gli altri esseri
umani che popolavano la Terra, e lo sapevano così bene che potevano permettersi di
guardarli senza parlare e senza giudicare. Tutti i giorni entrava in quella stanza,
Leonardo, e sapeva che l'osservavano, che gli frugavano dentro, che gli dicevano: io
so chi sei tu. E, per questo, da quando era in servizio lì non si era mai seduto. Non
aveva mai posato lo sguardo su nulla. Camminare, non aveva fatto altro, e cercare di
eludere quelle pupille per reagire alla loro immobilità onnipresente e sfuggire alla loro
implacabile sentenza. E ora anch'io credo di sapere chi sono, loro, caro ragazzo, disse
colui che portava il nome di un genio. Sono gli unici esseri al mondo che si credono
immortali, e ci credono così tanto, così fermamente, che lo diventano davvero. La
schiavitù della necessità, per loro, non esiste. Ma non l'hanno superata, l'hanno solo
cancellata. Esiste solo ciò che li appaga. La loro arte, il loro mondo privo di moto.
Sono come Scalabrino. Ma Scalabrino non è un artista, farfugliò il Matteo. Dipende da
che cosa si intende per artista, fu invitato a riflettere. Non dipinge, non scolpisce, non
compone musica, non scrive poesie. No, questo no. Però Scalabrino è come loro. Lui
sa di essere immortale. Lui sa chi siamo, noi altri mortali. E non potrà mai essere solo,
perchè la sua propria compagnia gli basta, anche se Lara è morta, è morta, capisci,
Lara è morta. Matteo, frastornato dal ritornello, non riuscì proprio a guardare il
custode negli occhi, mentre si chinava su di lui, benchè fosse la sua unica occasione.
Ora ascoltami bene, gli sussurrò. Di Vivarium non vorrei più sentir parlare. Sto
cercando di dimenticarla, e questo vuol dire che non l'ho ancora dimenticata. Il più
anziano di noi avrà avuto trent'anni, ma non speri, il curioso, che gli dica che sono
stati i mesi più belli della mia vita. Il rimpianto, si sa, è molto più difficile da
esprimere di quanto non sembri al cinema, che si risolve tutto con un bel flash-back. A
Matteo fu chiesto se aveva un computer, per caso. Una coltellata nell'aria. Un Amiga,
disse, disorientato e imbarazzato. Un computer vero, era la richiesta, moderno e
veloce. No, ammise semplicemente. E Leonardo si accontentò, gli disse che non
importava, che ne avrebbe trovato uno, che si sarebbe fatto aiutare, che si sarebbe
arrangiato. Poi, con la naturalezza del grande organizzato, tirò fuori da una tasca un
floppy azzurro chiuso in una bustina ancora fragrante di cellophane fresco. Questo
dischetto ti spiegherà Vivarium. Tutto. Matteo lo prese automaticamente con due dita
e automaticamente osservò l'etichetta, marcata con una Pilot rossa, che diceva senza
mezzi termini a due punti barra viv punto exe. Quello era il comando, spiegò
Leonardo. Scrivilo, e il programma farà tutto da solo, come un autoritratto. Matteo
non fece nemmeno in tempo a ringraziarlo, che già il custode si era voltato e aveva
cominciato a gesticolare con una coppia di signori orribilmente vestiti attorno al
Salvator Rosa, senza nemmeno guardarlo.
Paul Klee
Strada maestra e strade secondarie
Olio su tela
Colonia, Wallraf-Richartz Ludwig Museum
Un'imprevedibile associazione di idee, uscendo dal museo, attraversò veloce come un
lampo il mondo interiore di Matteo. Pensò all'impronta del fossile più elegante che
fosse mai stato trovato tra le pietre dei giacimenti, e constatò che esso era, senza
alcun dubbio, la felce del carbonifero. Ma nella delicata trina delle foglie lanceolate
non riuscì a riconoscere un dinosauro vegetale: rivide piuttosto le arterie di una città,
poi lo sconfinato reticolo degli scaffali di una biblioteca, infine lo schema del tessuto di
silicio del cuore di un computer. Toccò la busta del dischetto, che aveva nascosto in
una delle tante toppe del suo chiodo, e ne dedusse definitivamente l'esistenza. Fu
tentato di mettere il floppy in controluce, per leggerne le tracce, come si farebbe con
una sfoglia levigata di roccia sedimentaria, ma si trattenne, sapendo che la scrittura
elettronica è del tutto immateriale e che chiunque tentasse di decifrarla con la sola
intermediazione dei sensi si esporrebbe inevitabilmente al ridicolo. Solo allora si
accorse che non stringeva più tra le dita la rivista che aveva comprato all'inizio della
mattinata: perduta, lasciata inavvertitamente chissà dove in una delle tante soste di
quel giorno eccitante, adesso irrecuperabile, una Q rossa abbandonata da qualche
parte nel labirinto dei parchi, dei musei, delle vie e delle chiese, che come un
minotauro aveva ingoiato. Pazienza. Peccato. Imboccò il terzo vicolo a sinistra e
costeggiò il terrapieno di ghiaia di una aiuola appena seminata, separata dalla strada
da un muro coperto di piante di cappero fiorite. Poi salì verso la costa pedonale che si
infilava tra gli speroni ciclopici di due case costruite sui resti di un'antichissima porta,
l'unico residuo della quale era un grosso ganghero arrugginito. Poco più in alto, nelle
stalle ristrutturate di un palazzotto signorile dell'autunno del medioevo, c'era una bella
libreria, che tutti gli studenti conoscevano bene per essere la più fornita e la meno
cara della regione. Matteo entrò. Frugò liberamente tra gli scaffali fittissimi, e quando
si ritrovò nel settore dei vocabolari, ne prese uno qualunque, e cominciò a sfogliarlo
con le mani libere, senza che nessuno, per questo, osasse rimproverarlo. A. B. C. D. E.
Entelechia: termine aristotelico per designare la realtà che ha raggiunto il pieno grado
dello sviluppo. Richiuse le pagine, e provò con lo sguardo assente a tracciare, invano,
l'abbozzo di una definizione più semplice. Scalabrino, avrebbe potuto farlo facilmente,
lui, maestro nelle metafore dei concetti. Avrebbe potuto dirgli che è il bambino che
nasce dall'uovo della madre, che è l'amore nel suo momento più alto, prima che il
tempo ne ripeta il rito o la noia ne strappi il velo, che è l'orlo del precipizio oltre il
quale si sprofonda nel nulla della morte, o nel Paradiso, per chi ci crede. O forse che è
il volto della misteriosa Lara, che non si sa se sia morta veramente, perchè non si sa
se sia mai stata viva. Ma Scalabrino non è qui. C'è soltanto il libraio, che non è
altrettanto sintetico, pur essendo disponibile con il pubblico e molto informato su tutto
ciò che esiste, sulla carta, o è stato stampato subito dopo Gutemberg. A meno che non
sia di malumore. Matteo lo riconobbe quando fu in mezzo al settore dei classici, il
libraio gli chiese se stesse per caso cercando un volume in particolare, e il ragazzo,
ricordandosi delle origini lontane della parola Vivarium, chiese un Cassiodoro, con la
stessa facilità con cui avrebbe chiesto le formiche ultimo atto. Il libraio non si
scompose. Che titolo, di Cassiodoro, gli chiese, e dopo che Matteo rispose uno
qualsiasi, uno dei suoi scritti, preferì non ammettere subito che non aveva nulla in
proposito, ma volle prima consultare alcuni cataloghi, in silenzio. Poi spiegò
cortesemente al ragazzo che ciò che cercava non era più stato pubblicato negli ultimi
anni, e che le edizioni più recenti erano comunque rare o esaurite. Con un po'di
fortuna, in qualche libreria specializzata in patristica o in filosofia, avrebbe ancora
potuto procurarsi, ma a caro prezzo, il volume del Corpus Christianorum con i testi del
De anima e delle Variae ristampato nel 1973. Altrimenti, avrebbe dovuto cercare una
copia usata delle Institutiones curate dal Mynors, Oxford University Press, 1963. In
una buona biblioteca avrebbe poi potuto consultare i Variarum libri commentati da
Theodor Mommsen nella raccolta dei Monumenta Germaniae Historica, Berlino, 1894,
volume XIII. E se proprio voleva possedere quei testi, se era disposto a spendere una
certa somma, se amava i libri antichi, allora avrebbe dovuto mettere in giro la voce e
aspettare pazientemente che qualche antiquario gli procurasse l'Opera Omnia del
grande scrittore calabrese pubblicata a Parigi tra il 1847 e il 1848 nella raccolta Les
Belles Lettres, riedizione del prezioso in-folio commentato dal maurino Garet stampato
a Rouen nel 1679 per i tipi di Lodovico Billaine e ormai quasi introvabile. Matteo
ascoltò, attonito. Non osò dirgli che credeva di poter trovare Cassiodoro in edizione
economica, con il testo a fronte e la traduzione in italiano. Intanto il libraio continuava
a snocciolare ipotesi e date: una delle edizioni cinquecentine dei Variarum libri,
stampata a Parigi nel 1579, l'edizione giuntina londinese dell'Historia tripartita (1534)
e le innumerevoli altre edizioni di quelle traduzioni storiche che tanta fortuna ebbero
nel Rinascimento, e che furono già pubblicate ad Augusta nel 1472 da Giovanni
Schueszler, anche se non c'era alcuna speranza, ormai, di trovare una copia superstite
dell'incunabolo. Grazie. Matteo non seppe dire altro. E il libraio, ringraziandolo a sua
volta, ci tenne a informarlo che era a conoscenza del fatto che un istituto di studi
specializzato su Cassiodoro, con sede a Squillace, in Calabria, stava preparando
un'edizione italiana dei testi dell'autore, che però non si sa quando e dove sarebbe
uscita. Certo, consultare un'edizione antica, rilegata in pelle, impressa su carta
filigranata, era ben altro piacere: i libri parlano, rimangono, arano nella zolla onnivora
dell'intelligenza blasfema accompagnandoci, benedetti esseri, tra terre esiliate. Matteo
chinò la testa, pietoso, e si allontanò tra i ripiani. Sarà molto difficile procurarsi quel
genere di testimonianza, pensò. E intanto toccava con il palmo della mano, passando,
le copertine di molti libri, accarezzandole come non aveva mai fatto prima. Purtroppo
per lui, ne aprì inavvertitamente uno, senza rendersi conto di che cosa fosse. Era il
nuovo atlante pratico di dermatologia e venerologia, edito dalla Ciba con evidenti
intenti promozionali. Purtroppo per lui, lo attirò come una calamita. Ma al varco non lo
attesero parole colte e consolatrici: solo immagini tremende. Scoprì, in breve, che le
malattie della pelle sono quanto di più orribile si possa intuire con la mente. L'acne
giovanile non è che uno scherzo della natura, al confronto. E il Clerasil è poco più che
un bagno schiuma, più che sufficiente a sconfiggerlo. Matteo si ricordò di quando
rivide la sua pelle liscia e morbida, come quella di un bambino, dopo che l'ultimo
brufolo scomparve. Pensava che solo la vecchiaia potesse deturparla coi segni del
tempo. Ma l'atlante, implacabile, elencava almeno altre centocinquanta precoci e
impressionanti aberrazioni dell'epidermide, accompagnando la descrizione della
patologia di ciascuna con fredde e malvagie fotografie: dalle semplici espansioni
purulente, come la dermatite seborroica, all'erpes squamoso, dalla malattia di Darier
alla pitiriasi rosea; ulcere terribili ed estese, come l'eritodermia secondaria,
l'eritematode sistemico e la lebbra lepromatosa; funghi vaiolosi, come la tigna favosa
e il cheloide; tumori che deformano la superficie della persona prima di penetrare più
in profondità, come la scrofulide tubercolare verrucosa o l'orribile lupus facciale, che
scava sul volto di chi colpisce cunicoli, grotte, pustole ritorte degne delle cere della
peste dello Zumbo. Matteo fu certo che l'intera città sarebbe stata sconvolta da
un'epidemia distruttiva di malanni cutanei entro poche settimane, solo perchè aveva
osato sfogliare quel volume. La pelle, in un uomo medio e adulto, pesa da sola almeno
quattro chili. In condizioni normali, ha un colorito variabile a seconda delle razze
(bianca, nera, gialla, rossa eccetera), è spessa da 0,50 a 5 millimetri, e presenta
alcune pieghe muscolari e articolari, rilevatezze grossolanamente romboidali separate
da solcature, osti follicolari e pori sudoriferi. Così, almeno, ci appare. Ma può diventare
irriconoscibile e maleodorante, un supplizio che solo i martiri potrebbero sopportare,
se una di quelle malattie dal nome dolce come quello di una caramella la sfiorasse
appena. Allora tutti si nasconderebbero per la vergogna, e solo dopo qualche mese,
prima che sbocci il fiore lasciato dalla morte, oserebbero farsi guardare di nuovo in
faccia, o addosso. I pochi fortunati intatti impazzirebbero di terrore, e resisterebbero
stringendo i pugni alla tentazione di toccarsi per sincerarsi di essere immuni. E tutti gli
altri, prima di abituarsi alla loro deformità, troverebbero il modo di anteporre la
sofferenza al ribrezzo e l'afflizione al vomito. Si fa questo e altro, per illudersi di
sopravvivere all'apocalisse. Matteo fu costretto a respirare forte prima di chiudere il
libro. E per scacciare la paura del leggero prurito che cominciava ad avvertire sotto le
ascelle, fece molti passi, dopo che fu uscito dalla libreria. La strada degli orologiai gli
scintillò accanto nella calca dei turisti incantati dalla dovizia degli ori e delle pietre. La
piazza del Comitato Centrale, un parcheggio elegante con tre corsie preferenziali per i
tassì, lo ingoiò circondandolo di vecchi caffè che risplendevano della luce calda delle
lampade alogene riflesse sugli specchi incastonati negli stucchi, nei damaschi e nelle
impiallacciature di legno di ciliegio. E più in alto, oltre la linea dei cornicioni color ocra,
lo accompagnò snodandosi su sè stessa una fila di insegne luminose chiosata da una
gigantesca targa di marmo bianco che inneggiava all'antico centro della città, da
secolare squallore a nuova vita restituito. Ancora più avanti, si infilò tra due file
ininterrotte di macchine, attraversò viali lunghissimi di case cadenti e scrostate, che
sembravano antichissime benchè non avessero più di trenta o quaranta anni, e
riconobbe una lunga serie di segnali di stop. Al posto degli alberi, ai margini della
periferia, c'erano gomme nere e cerchioni argentati. Di tanto in tanto, dalla cima delle
case, spuntavano i resti delle antenne. Le insegne dei bar e dei ristoranti, polverose e
spente, si agitavano come le foglie moribonde dell'autunno inoltrato. Passò accanto
alla gelateria dei tre archi, e fece attenzione alla segnaletica, per verificare se
indicasse o meno le direzioni giuste, e ai semafori, per evitare di essere investito dalle
carrozze sfreccianti. E'difficile dire dove una città finisce. L'unico elemento certo
dovrebbe essere l'interruzione delle lapidi che segnano la dedica di una via, poichè le
strade statali e provinciali sono soltanto dei numeri. Si infittiscono i segnali, si dirada il
traffico. Ma non esiste l'ultima casa certa, perchè quella successiva potrebbe essere
ancora una propaggine della stessa città, e non necessariamente l'avvisaglia che
un'altra città sta per cominciare. Se le città terminassero ai piedi delle mura sarebbero
più chiari i loro confini. Una volta era così, e perfino Matteo ricordava che in certi
punti, quando era molto piccolo, la sua città finiva bruscamente con la facciata di un
palazzo sul fosso di un vigneto. Poi i campi erano diventati palazzi, e i cortili dei
palazzi erano ridiventati campi, seminati e coltivati per passatempo dagli abitanti.
Neanche quel giorno riuscì a capire dove finiva esattamente la città, e se mai ne fosse
uscito, o se ancora si aggirasse nel suo reticolo di bava. Camminò su strade più
grandi, più rarefatte, non più una ragnatela, ma un teorema geometrico di caserme
alte nove piani e cancellate di ferro arrugginito. Strisce di asfalto fino allo scorso anno
perdute nella campagna e ora, subito, circondate, assediate dai capannoni e dagli
edifici. Lunghe teorie di distributori di benzina che inalberavano cartelloni come
facciate mute, alberi sempreverdi e fluorescenti, dove le serre delle piante grasse
simulavano i capannoni di fabbriche senza ciminiere e sui pali dell'elettricità, come
ponti di corde sui torrenti amazzonici, erano sospesi gli striscioni dell'expo permanente
del terziario avanzato. Così, camminando camminando, arrivò verso sera,
costeggiando la periferia, in vista della base marmorea della scalinata dell'abbazia,
dove un poeta disse odore amaro d'alloro ventava sordo dall'alto attorno al bianco
chiostro sepolcrale, ma bella come te, battello bruciato tra l'alto soffio glorioso del
ricordo, o città, o sogno sublime di tendere in fiamme i corpi alla chimera non saziata,
amarissimo brivido funebre davanti all'incendio sordo lunare.
Henri Rousseau
La guerra
Olio su tela
Parigi, Musée d'Orsay
Poteva dire, Matteo, di aver imparato qualcosa di nuovo nelle ore di quella lunga
giornata che stava quasi per finire ? Forse che sì. Forse che no. Aveva fatto tutto
quello che era nelle sue possibilità, ed era stato abbastanza fortunato nelle varie
circostanze. Non gli restava che cercare Monica, la fata Morgana, e tirare fuori, anche
da lei, un frammento della verità. Ma mentre stava camminando lungo la strada che
portava dritta all'agenzia di viaggio, improvvisamente si rattristò, e gli passò la voglia
di andare avanti. Capita, ai ragazzi, senza che di queste irragionevoli ubbie si possa
dare una spiegazione. Passò soltanto davanti alla vetrina e, fingendo di guardarla,
provò a riconoscere colei che era stata, dicono, la luce di Vivarium, la compagna
amorosa di tutti i protagonisti maschili, l'ispiratrice dei più bei momenti di felicità,
sulla base di come l'avevano descritta. Monica era lì dentro, non gli fu difficile darle un
volto. Ma non vide in lei quella grande bellezza che tutti le attribuivano, non comprese
il suo sguardo di incantatrice. Probabilmente non la ritenne interessante per la sua
età. Pensò solo a come doveva essere, d'aspetto, qualche anno prima, e a quali
fossero state le intenzioni di chi l'aveva amata, platealmente o in silenzio. Quando,
unico amore, respirava toccando ogni palpebra, osando tutto e rimanendo eterea. Solo
così, si spiegò l'arcano. Non entrò, Matteo, non volle, o non seppe, parlare con lei.
Qualcosa lo trattenne, una paura, un'esitazione. La donna, fugacemente, lo guardò, e
tornò immediatamente al suo lavoro, davanti a un goffo telex che vomitava metri di
fogli di carta quadrettata. Erano quasi le sette, e il ragazzo si incamminò verso casa,
rimandando a domani ogni sforzo ulteriore. L'uomo morì poco dopo, all'incrocio tra il
lungofiume e il ponte delle statue dei demoni alati con il becco di falco. Non era un
uomo, era una giovane donna, ma solo più tardi Matteo se ne accorse, quando,
passata la prima emozione, riuscì a ricostruire l'accaduto. Chiunque fosse stato, se ne
andava con la sua motoretta lungo l'argine murato, verso un crocevia che non era
considerato pericoloso, poichè regolato da tre semafori alternati, e abbastanza stretto
da impedire che il traffico fosse troppo veloce. Ma proprio al centro dell'incrocio un
grosso mezzo meccanico aveva colpito in pieno la vespa, non un'automobile, forse un
camion, o un autobus, un tram, un furgone. Il malcapitato, la malcapitata, era volata
via, e a Matteo sembrò di vederla innalzarsi a qualche metro dal suolo, mentre veniva
scagliata a grande distanza dall'urto. Dopo la parabola, cadde quasi ai piedi del
ragazzo, come se la morte avesse allestito quello spettacolo solo per lui, con un tonfo
sordo, simile al rumore dei sacchetti della spazzatura quando vengono gettati via.
Matteo non riuscì a guardare la faccia della vittima. Ma non chiuse gli occhi di fronte
alla chiazza di sangue striato di materia giallastra che si allargava sotto la base della
testa e al rivolo sottile, rosso e scurissimo, che scivolava tra le gambe dell'uomo, della
donna, verso il bordo del marciapiede. Sul momento non provò disgusto, nè
raccapriccio. La morte non è poi così orribile, si disse, quando è improvvisa, violenta e
solitaria. Si riduce a un mucchio di ossa scomposte dal colpo di falce, al disordine dei
muscoli sconvolti, a una pozza di liquido vitale, meno sporca del rigurgito di una fogna
dopo la pioggia. E se il tempo potesse fossilizzare quella stessa persona così come è
adesso, in quella stessa posizione, l'attimo della sua morte diventerebbe storicamente
interessante e perfino esteticamente accettabile. Rimase in piedi, immobile, in
assoluto silenzio, e si ricordò di aver letto che ci sono popoli che, dopo una morte
innaturale, sfilerebbero davanti all'ucciso, all'uccisa, e si chinerebbero, uno ad uno, su
di lui, su di lei, toccando con le dita il suo sangue e i resti del suo cervello, portando la
mano sporca alla fronte e alle guance e disegnando sui volti maschere rituali, un
immediato omaggio al cuore dello scomparso, della scomparsa. A quel pensiero la
nausea lo assalì, proprio mentre i passanti, i testimoni oculari o i curiosi che non
avevano visto nulla, cominciavano ad accalcarsi attorno al teatro della tragedia,
vociando, chiedendosi, sbirciando, chi fosse, di chi era la colpa, quanti anni avesse, se
correva troppo. In quell'attimo di smarrimento collettivo, poco mancò che Matteo si
sentisse male e svenisse per la strada. Lo spaventarono, più della morte stessa, le
conseguenze della morte sui sopravvissuti, le attenuanti invocate da chi non si
rendeva conto, la facilità con cui si dimentica, il pensiero che mai più quell'uomo,
quella donna, avrebbe respirato l'aria. Cercò di andarsene, voltandosi appena. L'ultimo
particolare che notò fu un pupazzo della Pantera Rosa, che la mano del morto, della
morta, stringeva forte, come se volesse trascinarlo con sè tra le ombre. Avrebbe
potuto essere la chiave di un delitto o l'inizio di un romanzo. Ma per lui fu solo un
particolare insignificante, che non cambiava la sostanza dell'accaduto. Matteo entrò
nel bar più vicino, dove ormai non era rimasto quasi più nessuno, e chiese al
cameriere, che stava sulla porta indeciso tra il dovere e la curiosità, un caffè molto
forte corretto con del liquore. Per la prima volta in vita sua sentì che aveva bisogno di
bere, che è cosa ben diversa dalla pura sete o dalla libidine dell'alcool. Seduto, cercò
di ripensare con calma agli ultimi minuti, e alla morte in generale, alla sua
ineluttabilità, alle sue caratteristiche, ora che finalmente l'aveva sfiorata. Perchè gli
uomini, e le donne, muoiono ? Si sforzò di pensarci, ma non riuscì a trovare una
ragione. Ogni morte improvvisa resta priva di significato, e bene facevano gli antichi a
rappresentarla come il capriccio di una vecchia che prende una lama lucente e taglia
un ruvido filo di lana che altre due vecchie avevano srotolato lentamente per una vita
intera. Non si sa quando, non si sa dove, non si sa perchè. Qui illius culpa cecidit velut
prati ultimi flos, praetereunte postquam tactus aratrost. Un epitaffio è l'unico
commento possibile. Una delicata poesia, riservata a chi è capace di dettarla e di
intenderla. Una massima incisa su qualche cartiglio di porfido o di serpentino, inutile
come la data di nascita. Parole belle e superflue, le stesse che si leggono su tutti i
patiboli dove la morte si consuma come un rito arcaico e noioso, e anche qui, nascoste
tra tutto ciò che è in evidenza. Parole orrende che sembrano necessarie, stampate sui
giornali del mattino dopo, per informare i vivi che la morte ha colpito ancora, per
cause in corso di accertamento. Che altro ? Si sa soltanto questo, dopo tutto, che
basta un frammento invisibile di tempo per distruggere ciò che per anni e anni il lento
fluire delle cose e le ininterrotte pulsazioni delle cellule avevano costruito e indirizzato.
Come possano gli uomini, sapendolo, agire come furie accecate, come guerrieri dagli
occhi venati dalla follia, ogni volta che, senza ragioni e senza colpe, spezzano una vita
senza rispettarne la sacra fatica e lacerano il tessuto di un'esistenza senza ricordarsi di
com'è difficile intrecciarlo, questo, questo è il mistero. Come possano, dopo aver visto
un essere umano morire, solo un essere umano, desiderare di vederne altri o
scatenarsi, come capita, nella cavalcata della guerra, nello sterminio, nell'omicidio.
Matteo, ora, rivide per un attimo ciò che per molti anni non avrebbe più potuto
dimenticare: quel fiotto di sangue, placido come un ruscello di montagna, che
sgorgava tra le cosce della giovane donna uccisa. E in un sussulto di cosmico
pessimismo si disse che molti uomini, probabilmente, avrebbero goduto di quella
visione. Te ne rendi conto, Matteo ! E'stato come se la morte avesse violentato una
vergine davanti ai tuoi occhi. Tu ti sei vergognato per lei. Ma in realtà si esaltano, gli
uomini, quando il sangue schizza fuori da un corpo inanimato e docile, quando una
lancia, una pallottola, una scheggia di carrozzeria, un fallo eretto, penetrano nella
tenera carne. Vogliono vedere le macchie sulle lenzuola annodate delle nozze.
Ascoltare i gemiti del dolore. Sentirsi i primi nel territorio inesplorato della padrona
dell'universo. E'per questo che si appassionano, quando osservano la morte in azione,
colei che sola può aprirsi un varco nell'unica foresta intoccabile. E'per questo che
attendono con ansia che tutti si ammazzino senza pietà, perchè allora e solo allora
sarà più facile, per chiunque, partecipare alla grande festa, emulare la suprema,
godere dell'orgasmo dell'assassina, quando potrà librarsi libera sulla terra.
"Ci sarà la terza guerra mondiale ?" Chiese in quello stesso istante un frequentatore
abituale del locale.
"Non dire sciocchezze." Gli rispose uno sconosciuto politologo.
"Dovremo farci l'abitudine, invece." Sentenziò il primo. E portò alla bocca un sottile
bicchiere di liquido incolore su cui galleggiava una scorza di limone.
Anche Lara è morta, pensò Matteo. Ma come ? Come quel povero uomo, quella povera
donna ? Provò a cancellare dalla sua memoria tutte quelle visioni. Ma fu inutile. I
passanti continuavano ad affollarsi sul cadavere come avvoltoi. Altri restavano
indifferenti. Ora sapeva che di fronte a qualsiasi altra recita della morte avrebbe
chiuso le palpebre, avrebbe detto le uniche parole ammissibili: non voglio vederla. Ora
sapeva che aver già visto morire un uomo, una donna, era stato sufficiente: nessuno
avrebbe più potuto costringerlo ad uccidere.
Donato Creti
L'osservazione della Luna
Olio su tela
Roma, Pinacoteca Vaticana
E'notte in uno dei due emisferi. Una Luna enorme naviga nel cielo. Il giudice passeggia
e medita nel giardino di casa, come un filosofo peripatetico, e interroga il suo
specchio. Viandante del tempo, precipita alto uno sciame astrale, un bolide, e intanto
suona una mezza. Fammi amare. Arrossire davanti alla faglia della regina come una
falena in una catarsi. La fata fatata passa a mezz'aria e mi impedisce il respiro. Lascia
che resti e fa che regali faville silenziose di solido latte. La fata regina che vola sulla
solitaria farnia. Fa solo che mi pensi la signora beata, affascinante femmina. Mi
lascerò amare come un pampino al sole diafano e mistico di settembre. Allora la fatale
poserà a mezzogiorno un fiore di paura, fantasma sidereo, sul cielo delle mie labbra.
Allagherà come una falla la solcata coffa. Fa solo che mi assolva con un sibilo affabile
e minimo. Mi lascerò possedere fino a mezza notte, risoluto di farmi morire. Da quella
fata spartana, mentre spaura come fa una sirena di lago. Balla il fado, balla il
fandango. Tu desideri quest'insolito dono perchè da solo tu dormi. E che la fantasia
regni con la sua falsa rete di topazio e d'oro. Che la diva fatua si risolva in donna di
sincera bellezza. Ninfa tremula e adombrata, languida face. Silfide sollecita, sinalefe
che dissolve il dardo di un miraggio. Stella famosa, restituisci la tua fastosa, rediviva
dote. Assoldami, sillaba dolce di Sibari. Ti farò bere alla caraffa il sidro benefico. Falda
di refe, perla faconda nel dirsi berillo. Falce di ferrea lama fallace. Falco reale della
pampa, che voli adagio sull'oceano mosso, per posarti quaggiù. Fammi amare. Amare
dalla fata nella reggia trionfale del silenzio. La sua mandria di farfalle sarà una pausa
che mi parrà una recita. La sua gabbia di redini una zuffa creata per affacciarsi
solenne impugnando il suo labaro. La sua tremenda staffa una farsa, una pantomima
per augurare gioia. Allora la sua fama sarà il faro di una parte delle mie paure. La sua
faretra l'infallibile padrona del mio spaurire. E insieme alla sovrana farò suonare una
sinfonia, l'altra faccia dell'amore. E'l'una. Che cosa sta succedendo al giudice, che tutti
conoscevano come integerrimo ? Non riesce a pensare ad altro, non riesce a dedicarsi,
come dovrebbe, ai suoi compiti. Si trovava in quei giorni alle prese con un raro caso di
presunta simulazione di reato. Stava indagando su un uomo che aveva denunciato il
rapimento della figlia, una bambina di sette anni. La bambina, però, era stata
ritrovata due giorni dopo, e il padre aveva spiegato alla polizia che la faccenda si era
risolta così rapidamente perchè, per evitare che la magistratura bloccasse il suo
patrimonio, aveva preferito pagare immediatamente ciò che poteva ai rapitori, e
questi avevano accettato, concludendo in fretta l'affare. Troppo in fretta, per la polizia,
che non era convinta della versione fornita da quello strano personaggio e aveva
scoperto che l'uomo, in realtà, non era così ricco come voleva far credere e non
avrebbe potuto versare che una piccola cifra ai rapitori, i quali, a meno che non
fossero dei dilettanti, certo non si sarebbero accontentati di così poco, o non
avrebbero liberato la piccola così facilmente. Era scattata così un'indagine per
accertare se per caso l'uomo non avesse simulato tutto. Ma restava oscuro l'eventuale
movente del suo gesto, poichè pare che quel padre premuroso non avesse nulla di
particolare da nascondere, nè dovesse giustificare una rovina finanziaria o frodare
un'assicurazione. Si era contraddetto più volte durante l'interrogatorio, ed era più che
probabile che il rapimento della bambina fosse stato davvero finto. Ma perchè quella
messa in scena ? L'uomo non era un truffatore. Non era un maniaco. Non sembrava un
mitomane. Per comprendere il suo gesto si sarebbero dovute proiettare sullo sfondo
ragioni insondabili, ma la legge, in quanto tale, non avrebbe potuto tenerne conto. Un
caso difficile, appassionante. Eppure il giudice non riusciva a dedicargli la necessaria
attenzione. Era sulle nuvole, viveva aspettando cartoline, non riusciva a pensare ad
altro. Nemmeno al mistero di Vivarium e alle preoccupazioni del povero Matteo, che gli
telefonava ogni giorno per sapere che cosa avesse scoperto di nuovo. Nè alla morte di
quella Lara di cui non c'era traccia, nè alla scomparsa dell'amico Scalabrino, senza il
quale, in fondo, non avrebbe avuto occasione di conoscere quella ragazza di cui, senza
esserne ancora sicuro, o senza essersi arreso, si stava tuttavia innamorando. Che cosa
stava succedendo all'integerrimo giudice ? Molte giovani donne, si disse, sognano
ancora il principe azzurro. Che male c'è se io, un uomo maturo, sogno una fata
turchina ? Guardò dal suo giardino il cielo, le stelle, i pianeti, il satellite della Terra, e
si ricordò di quando gli uomini conquistarono la Luna. Lui, neolaureato, si vantava di
non considerare quell'impresa come importante, come molti altri neolaureati
innatamente snob. Ma la vita gli sembrava ancora un cielo bellissimo e incontaminato,
e credeva ancora, come tutti credevano, che le idee di un individuo potessero
cambiare il mondo, da sole, che un passo avanti del progresso fosse pur sempre il
segno di un futuro migliore. Così, alla fine, si svegliò prestissimo, quella notte di
luglio, e pianse senza ritegno sulla sua vecchia televisione in bianco e nero quando i
due fortunati toccarono la polvere grigia e senza peso: comandante Neil Alden
Armstrong, colonnello Edwin Eugene Aldrin, sia ricordato ovunque il vostro nome.
Pianse perchè in realtà avrebbe voluto essere insieme a loro (o almeno accompagnare
nell'orbita di parcheggio il tenente Collins), pianse perchè l'emozione era forte e non
riusciva a controllarla, e soprattutto perchè si disse che quell'umanità che già allora si
sforzava di giudicare con distacco, in realtà era grande, e poteva dirsi fortunato di
farne parte: aveva solo sbagliato a fare il magistrato e non l'astronauta. Ma poi le cose
cambiano, tutto torna alla normalità. Ora il giudice non sa più dire, dopo tanto tempo,
se aveva ragione o torto a lasciarsi andare così, se quell'emozione valeva la pena
d'essere provata, o se fu soltanto stupido a lasciarsi coinvolgere, contrariamente a ciò
che aveva pubblicamente dichiarato. Ora, a differenza di allora, il giudice sa che anche
se gli uomini avevano conquistato la Luna le guerre, la fame e le malattie
continuavano ad affliggere quella stessa umanità i cui rappresentanti migliori, il cui
desiderio di conoscenza, avevano guidato alla conquista simbolica di un altro pianeta.
Esaltarsi per quell'evento non era servito a nulla, così come non è servito a nulla
dimenticarlo. Ma sulla Luna era come se ci fosse stato anche lui, si disse,
osservandola, bella come sempre, nel cielo di giugno, dopo più di vent'anni. Era come
se l'avesse sentita parlare per la prima volta, e nessuna poesia, nemmeno che fai tu
luna in ciel dimmi che fai, silenziosa luna, non im ostlichen Bereiche ahn ich
Mondenglanz und Glut, au calme clair de lune triste et beau qui fait rever les oiseaux
dans les arbres, caelo supinas si tuleris manus nascente luna, era mai riuscita a
sussurrargli altrettanto dolcemente. La guardò ancora, anche se ormai era
lontanissima, e nessuno quasi più le scriveva. Poi, finalmente, sentì il peso del sonno.
Promise a sè stesso di decidere che cosa volesse davvero, domani. Di dirsi che cosa
desiderasse di più, se essere prima di tutto il giudice o se essere prima di tutto un
uomo innamorato. Solo allora si ritirò, cantando sottovoce: eclipse on the moon when
the dark bird flies, where is the child with his father's eyes ? La Luna tramontò prima
dell'alba. Una Luna anglofona.
Dosso Dossi
Giove che dipinge farfalle
Tempera su tavola
Vienna, Kunsthistorisches Museum
Scagli una pietra verso il cielo chi non conosce il sacco di Gatti, Paolini e Teodoro.
Tutti l'hanno visto, almeno una volta. Tutti lo hanno provato. Pochi, magari, sanno
cos'è e come si chiama, ma tutti ne conservano l'immagine ben chiara nella mente. Il
sacco, in fondo, è inconfondibile e indefinibile. Molto più di una sedia, molto più di una
poltrona, non essendo nè l'una nè l'altra cosa. Il giudice, alla fine, se ne era
innamorato, dopo aver visto, e scartato, un'infinità di altre poltrone, di norma ben più
belle. Pochi oggetti possono vantarsi di essere il perfetto simbolo della loro epoca: il
sacco è uno di quei pochi. Il prodotto in sè non c'entra nulla, e nemmeno la sua
comodità. Anzi, il sacco può anche essere scomodo, scomodissimo, o può non essere
affatto. Dipende da chi lo usa, è l'uomo, anzi, l'individuo che lo modifica
continuamente a sua immagine e somiglianza. Per questo esprime ancora così bene le
illusioni di un intero decennio. Per questo piaceva al giudice. Si ricordava di come
l'impiegato Fantozzi lo deformava e lo rendeva goffo e sgraziato, proprio come lui,
toccandolo appena, nell'ufficio asettico del direttore, mentre nel salotto soft-core della
signora macrobiotica violentata dalla banda di arancia meccanica lo stesso oggetto
sembrava quasi il sofà di madame Recamier, tutt'altro che una sintesi del design
razionalista. Non sussistono dubbi in proposito: il sacco è la forma dell'informe, è
un'essenza in perenne evoluzione, che tuttavia esiste solo nel momento in cui si
evolve, proprio perchè, non possedendo una forma, non può, altrimenti, esistere.
E'forse l'unico oggetto di uso comune, e sicuramente l'unica poltrona, che riproduce
esattamente non solo il meccanismo, ma il significato stesso della creazione. Solo che
ne racconta il susseguirsi di causa ed effetto in modo del tutto insolito: creare, ci dice,
ci sussurra, non consiste nel proiettare la mente fuori di sè o nella scintilla di una
mano. Creare equivale a lasciare la propria impronta col sedere, quella parte del
corpo, cioè, che, come dicono alcuni, non sarà poetica, ma almeno è onesta, perchè è
l'unica che non può mascherarsi. Se ne potrebbe dedurre che il sacco è la poltrona più
democratica che sia mai stata progettata. E'il contrario esatto del trono: quest'ultimo
conserva intatto il suo valore anche quando il re non c'è, tanto che Luigi XIV poteva
permettersi di lasciare alla sua sedia regale l'incombenza di ricevere i questuanti,
essendo la sua personale presenza irrilevante. Il sacco, invece, non è più nulla ogni
volta che il fondo schiena che lo aveva plasmato si alza e se ne va per la sua strada.
E'la democrazia fatta poltrona, l'involucro che materializza perfettamente
l'immaginario del popolo, anche se il popolo, se per popolo si intendono tutti quelli che
sopravvivono grazie al loro buon senso, non ama, non ha mai amato e mai amerà il
sacco di Gatti, Paolini e Teodoro. Il lapidario commento dell'operaio che consegnò il
sacco al giudice è in tal senso emblematico: sembra una busta per la spazzatura,
disse dopo averlo tolto dallo scatolone, senza alcun riguardo per i gusti
dell'acquirente, che peraltro aveva scelto il colore nero, quello stesso che all'uomo
rammentava i sacchetti di plastica, solo per accostarlo meglio ad una ben nota
lampada. Con la pazienza che gli era riconosciuta, il giudice provò allora a spiegargli
l'irriverente metafora che si nascondeva nell'oggetto. Al che l'operaio concluse, ancora
più sconsolato, che se il mondo fosse stato fatto col culo, un po'di fortuna sarebbe
toccata anche a lui. E se ne andò, lasciando il giudice solo con il suo sacco, e con
qualche dubbio esistenziale in più. Ma ben presto il giudice dimenticò il breve dialogo.
Volle provare il suo ultimo acquisto, e lo trovò più che soddisfacente dal punto di vista
della funzione. Tuttavia comprese che il metaforico deforme non l'avrebbe potuto
aiutare a recuperare la concentrazione che da alcuni giorni stava perdendo, mancando
del tutto di uno schienale, che è la parte della sedia più adatta allo scopo. Anzi, ebbe
l'impressione che il sacco, dopo pochi minuti, lo invitasse cortesemente ad alzarsi, a
non cercare più di riflettere. Allora passeggiò nervosamente nello studio. Passò
accanto alla libreria e toccò i capitelli di un repertorio giuridico. Accese una luce. La
spense. Si avvicinò alla scrivania, restando in piedi. Mise le mani sul piano. Si piegò in
avanti di fronte allo schermo nero e muto del computer compatibile. Fece un rapido
inventario di tutto ciò che affollava l'imbottitura di pelle goffrata del tavolo. Vide il
dischetto che gli aveva mandato Matteo. Lo prese e lo agitò con due dita, come un
ventaglio di plastica. Lo infilò nella fessura dell'unità di lettura fino a sentire lo scatto.
Poi portò il pollice sul pulsante. Ma non andò oltre. Ebbe la sensazione di essere
osservato, e ritenne più opportuno evitare di aprire quel documento di elettroni di
fronte ad occhi indiscreti. Non si sa mai che cosa avrebbe potuto uscirne. Chiuse il
computer con la chiave ma si dimenticò di disinserire il floppy. Sicuro di non poter
godere, ormai, dell'ozio, e certo di non meritarlo, decise di andare in città, per
passeggiare senza meta, una volta tanto. Si incamminò verso l'atrio in cerca di un
telefono. Ne trovò uno e chiamò un taxi. Poi uscì ad aspettarlo, fermandosi sul
cancello. Affacciandosi dalla scarpata che chiudeva la villa da quel lato, la profondità
dei suoi occhi colse l'espansione violenta della città verso i monti e verso il mare.
Ricordava molto bene che quando era venuto ad abitare su quella collina, intorno c'era
soltanto la campagna. Ora vedeva già le propaggini della periferia, i capannoni delle
fabbriche di calzature e una nuova grande strada che si snodava lungo la costa. Non
era neppure passato tanto tempo. Ma il tempo è un lungo elastico, pensò, si allunga
lentamente quando lo stiriamo e si accorcia di colpo quando smettiamo di trattenerlo.
Diminuisce la chioma delle fronde degli alberi. Sforna il cemento appena lievitato. Si
adatta alla forma che ognuno gli vuole dare e copre uniformemente tutti i
cambiamenti, tranne quelli irreversibili. A meno di non soffermarsi a considerarne gli
effetti, chè allora somiglia al silenzio lasciato nell'aria dallo scudisciare di una frusta. Il
tempo si era portato via sua moglie. L'elastico aveva schioccato. Non era morta, ma
era come se lo fosse. Quando se ne andò il giudice non soffrì particolarmente.
Coscientemente, si lasciò assorbire dal suo lavoro, aspettando che il tempo
addensasse sulla sua testa le nubi dell'oblio. Infine la dimenticò, allo stesso modo in
cui si dimenticano i morti, ma poichè l'aveva amata, e molto intensamente, poichè
sapeva che soltanto suoi erano gli errori per cui l'aveva abbandonato, pensò che non
si sarebbe mai più innamorato, che un solo amore fosse sufficiente in una vita. Aveva
ragionato senza conoscere la limpida, elastica perfidia del tempo. Finchè non pensava
a lei, poteva accontentarsi del suo vago ricordo: una persona che non si pensa, o non
esiste, o è una scintilla di perfezione. Ma gli anni passavano, e la sua memoria
perdeva la capacità di sintetizzare lo snodarsi della sua esistenza in una vaga e
affascinante rappresentazione. A poco a poco capì che non poteva più nè dimenticare
nè ricordare: poteva solo cercare di ripetere a sè stesso la nascita, l'evolversi e la fine
di quella storia, che a suo modo sarebbe stata bellissima se fosse rimasta fuori dal
tempo, ma che ora, perduta in una lunga prospettiva di anni che a volte gli
sembravano un attimo, a volte un lunghissimo tedio, cominciò a sembrargli mediocre,
misera, meschina, una specie di fase della crescita, fatta di poche manciate di
momenti che si potrebbero raccontare in due o tre minuti. Tuttavia, aveva continuato
a non volersi innamorare. Per abitudine, più che per ostinazione nella fedeltà a un
ricordo. Ma la sua resistenza era giunta al limite, e la parola sempre, che aveva
creduto possibile, si sa, esiste, ma in realtà non significa nulla. Ora le cose stavano
cambiando di nuovo. Non voleva ammetterlo, ancora. Non voleva esserne sicuro. Ma si
stava innamorando per la seconda volta, senza poter nemmeno dire di averlo
desiderato. E di una donna ignota, di quasi vent'anni più giovane di lui e di sua
moglie, se ancora vivessero insieme. L'idea non lo rendeva nè triste nè infelice.
Neppure entusiasta, però, ed è per questo, forse, che fingeva di saper resistere. Il taxi
arrivò, e il giudice salì sulla poltrona anteriore della macchina, come faceva sempre. Il
tassista parlò per quasi tutto il viaggio, anche se era chiaro che il giudice non lo stava
affatto ascoltando. Il giudice si fece lasciare ad un incrocio intricatissimo, un gomitolo
di strade. Non c'era traffico. Pagò, lasciando una buona mancia, e convincendo così il
tassista che la loquacità e la cortesia sono la stessa cosa. Fece pochi passi. Vide un
doppio autobus arrivare e lo prese senza nemmeno sapere che linea fosse. Non saliva
su un mezzo pubblico da quando era ragazzo. L'autobus accellerò nei viali semideserti
e il giudice, per non rischiare di perdere l'equilibrio, si mise seduto vicino al soffietto
centrale, che ad ogni curva si contorceva, gemendo. Intanto, più l'autobus si
avvicinava al centro, più si riempiva di gente. Più stretta diventava la carreggiata, più
fitta la folla alle fermate. Fu in una piazza alberata ricoperta di ghiaia che vide i suoi
capelli sfilare velocemente accanto al vetro. Non era sicuro che si trattasse proprio di
lei, ma pensò subito di scendere: da troppo tempo non incrociava il suo sguardo.
Gridò al conducente di fermarsi, sgomitò, calpestò, si fece largo, temendo che ogni
secondo li allontanasse. Solo sul predellino alzò la testa per cercarla con lo sguardo,
quasi disperato, tra la gente. Eva Maria Silvia Domenica Primavera, se davvero era lei,
era scomparsa, inghiottita dal traffico del sabato. Così scese a terra, vergognandosi
per come si era comportato. Ancora non era caduta in lui l'ultima barriera
dell'innamoramento: non voleva ricordare ai passanti il patetico dottor Zivago. E poi,
lei non si chiamava Lara. Lara era morta. Lei era Monica, e chissà dov'era, ora. Il
giudice si sentì confuso, incerto. Ma non pianse per questo. Quel non sapere che fare
gli piacque. Era una sensazione nuova, o persa nei meandri della memoria. Gli piacque
pensare l'impossibile, pur sapendo di appartenere all'unica categoria di uomini che
non era tenuta a farlo. Gli piacque immaginare di dipingere farfalle che, staccandosi
dalla tela, volassero verso di lei con le loro ali ineffabili.
Giovanni Paolo Pannini
Galleria immaginaria con le vedute di Roma antica
Olio su tela
Stoccarda, Staatsgalerie
A volte, un sogno può spingere un uomo a fare ciò che, ragionando, sveglio, egli non
oserebbe mai fare. Potenza della fantasia, potenza dell'incoscienza. E a volte, un
sogno può svelare i percorsi segreti dell'innamoramento, che, ragionando,
resterebbero oscuri o verrebbero negati dai comportamenti abituali. Prendiamo il
giudice, ad esempio. L'ultima volta che si era innamorato, non era stato di una donna,
nè di un uomo, benchè anche lui fosse giunto da tempo alla conclusione che, uomo o
donna, pari sono le possibilità di cedere a una tentazione. No, si era innamorato della
retorica. Dell'arte di sposare tra loro le parole perchè assumano significati che
altrimenti non avrebbero. E'questo un amore contrastato e difficile, ondivago e di
incerti contorni, che pur avendo origine nel desiderio, desiderio di possedere uno
strumento di piacere, finisce spesso col prendere la forma di un fine a sè stante. Così
capitava spesso che il giudice, anzichè dominare la capacità di riflettere che le figure
gli davano, riflettesse piuttosto, anche quando non era strettamente necessario,
secondo gli schemi che l'amata dialettica impone a chi cade vittima del suo sguardo di
fuoco, come se ne fosse, cioè, dominato. Gli capitò la sera stessa del fortuito incontro
mancato con quella giovane sfuggente il cui solo accenno lo turbava. Si sforzò sia di
ragionare che di lasciarsi andare all'immaginazione. Ma non gli sovvennero nè
emozioni nè conclusioni sensate, ed ebbe chiare soltanto, mentre cercava di
addormentarsi, tutte le figure retoriche della mente. Adunaton. Ho sempre pensato
che solo da morto mi sarei innamorato ancora. Allegoria. Ma forse sono stato colpito
inesorabilmente dalle frecce di Cupido. Allusione. Dopo tutto ho resistito per quasi
dieci anni. Che devo fare ancora ? Castrarmi ? Chiudermi in un monastero ?
Anacoluto. Anche lei spero che mi si innamori tanto di me. Anadiplosi. Però penso che
sarà difficile, difficile perchè sono vecchio ai suoi occhi. Anafora. O forse lei non si può
innamorare, lei che è ancora così fresca, lei che può permettersi di apparire a
chiunque in tutta la sua bellezza, lei che può scegliere e osare qualunque cosa.
Analogia. Ah, la foresta autunnale dei suoi capelli, il deserto rosa della sua pelle !
Anastrofe. Meravigliosi viaggi vorrei tracciare su quelle distese, sulle pieghe delle sue
labbra. Anfibologia. Essere insieme a lei, solcarla fino a scoprire ogni suo segreto.
Antanaclasi. Ma quando l'ho rivista, Monica, non era la stessa Monica. Anticlimax.
E'stata una straordinaria esperienza, un'emozionante visione, un gradito incontro.
Antifrasi. Ma come sono stato bravo ! Antimetabole. Uno sciocco come sempre, sicuro
di me con i timidi, timido con i sicuri di sè. Antitesi. Credevo di poter essere forte
perchè in realtà ero debole. Antonomasia. Lei era una Venere. Apostrofe. La sua
bellezza sembrava irraggiungibile. Beati coloro che potranno possederla ! Chiasmo. Ma
le perle migliori vanno ai peggiori porci. Citazione. Non era sola, capisci, e mi sono
sentito prigioniero di una situazione kafkiana. Climax. Mi sono sentito preso in giro,
deriso, umiliato, offeso. Diallage. Eppure l'unica cosa che desidero è stare con lei, al
suo fianco, non lasciarla mai, esserle compagno, amante, dedicarle tutta la vita che mi
resta. Digressione. A proposito, non è detto che l'uomo che l'accompagnava non fosse
soltanto un amico. Dittologia. Triste e sconsolato, ho vagato per le strade vuote e
solitarie. Domanda retorica. Che fare ? Cercare di sedurla ugualmente ? Io, fare una
cosa simile ? Ellissi. Eppure avrei tanta voglia di farle due o tre giochi di quelli che
ancora so bene. Epanalessi. Ma ad essere sincero, ad essere proprio sincero, non
saprei neppure da dove cominciare. Epistrofe. Forse dovrei puntare dritto al sesso:
parole di sesso, allusioni di sesso, sussurri di sesso, in questo mondo di sesso questo
sarebbe l'unico modo di esprimerle i miei più profondi desideri. Eufemismo. E pensare
che credevo di aver raggiunto la pace dei sensi. Figura etimologica. Ho vissuto la vita
senza vitalità, ecco qual'è il problema. E ora mi ritrovo abbagliato dal suo bagliore.
Iperbole. Che posso farci ! E'di una tale bellezza da scatenare l'invidia di una dea.
Ironia. E io, invece ? Che bel giovane, per lei ! Litote. Però, non sarò bellissimo, ma
potrei anche piacerle. Metafora. Non si sa mai dove può crescere il fiore
dell'innamoramento. Metonimia. In caso contrario, dovrò rassegnarmi a vivere
dell'amore che le porto. Ossimoro. Sarà come un lucido delirio, una gelida fiamma,
una mutevole abitudine. Paradosso. L'avrò senza toccarla, sarà mia senza neppure
saperlo, e forse, un giorno, quando non ci sarò più, si accorgerà di me. Paronomasia.
Sto sragionando, confondendo l'amore con l'amare, il volere con il volare. Polittoto.
E'che non posso continuare a starmene qui con le mani in mano a rodermi il fegato
pensandola. Preterizione. Non riesco a giudicarla male, per tutti gli amanti che ha
avuto, per la sua leggerezza, per quello che è stata e per ciò che ancora è. Prolessi.
E'innamorarsi, questo ? Si vedrà, se lo è. Reticenza. Per il momento so solo che sto
provando, come dire, qualcosa di indefinibile. Similitudine. Avverto la meraviglia di
ogni scoperta, come un cieco che ha appena recuperato la vista. Sineddoche. Sto
levando le vele verso l'orizzonte di un mondo nuovo, dove potrò assaggiare il piatto
dei desideri. Sinestesia. Immagino che sia una celeste sensazione. Sinonimia.
L'avverarsi della gioia di vivere, della bellezza dell'essere, della felicità di esistere.
Infine, il giudice chiuse gli occhi per la stanchezza. Quella stessa notte sognò di
rimanere chiuso dentro le stanze di un museo, che il giorno dopo, frugando nella
memoria, non ebbe difficoltà a riconoscere nella Galleria Borghese, così come era
allestita nel 1979. I visitatori se n'erano andati, tutti, e i custodi avevano dato
meccanicamente sei o sette giri di chiave al portone, ignorando la sua presenza. Il
giudice si guardò intorno: non era buio, ma non riusciva a capire se la luce provenisse
dalle lampade accese o se dalle finestre entrassero raggi di luna. Cominciò a vagare
per le stanze affrescate come uno studente guidato dalla meraviglia, e pensò di poter
cogliere il guizzo di un frammento di vita sulla superficie delle centinaia e centinaia di
quadri che ricoprivano uniformemente tutte le pareti. Ma non appena il suo sguardo si
alzava sulla scacchiera delle cornici, i paesaggi, le rovine, i boschi, le navi, gli
argonauti, i santi, gli eroi, le ninfe, gli dei tutti si nascondevano, scomparivano,
lasciando tra gli ori e gli stucchi bianche tele incompiute o tavole grezze venate di nodi
e schiarite dalla prima mano della velatura preparatoria. Poi, in una delle stanze più
vaste si trovò di fronte alla scultura del ratto di Proserpina. La carne di marmo della
sventurata ninfa era così morbida che le ruvide dita dei demoni che la ghermivano
affondavano nella pelle delle sue cosce. Incantato ad osservarla, gli parve di sentire,
lontanissimo ma ben chiaro, il lamento della fanciulla di pietra che chiedeva aiuto.
Senza comprendere la ragione di ciò che stava per fare, salì sul piedistallo, scansando
facilmente il dio della morte e il suo compagno di rapina. La statua di Proserpina prese
vita, o almeno così gli sembrò. Cominciò allora ad accarezzarle con tenerezza e pietà i
fianchi e le gambe, sicuro di poterla consolare. Il lamento della figlia della terra si
affievolì, fino a diventare un gemito di piacere profondo, quando le sue mani la
toccarono delicatamente sui seni e sul collo, e le sue labbra si posarono sulla sua
bocca socchiusa. Avvertì il calore del marmo, mentre Ade e i suoi demoni
stramazzavano al suolo, neri e rigidi come la lava infernale. Mai più avrebbero potuto
insidiarla. Il sogno accellerò il suo ritmo. Gli bastò distogliere lo sguardo per un istante
per ritrovarsi in un'altra sala, dove vide Dafne inseguita, sul punto di diventare un
albero morto. Subito scansò la mano di Apollo, bello e terribile, da quel ventre di
adolescente, e abbracciò forte la fuggitiva per proteggerla. Apollo prese fuoco come un
tronco rinsecchito. Dafne ritornò viva e palpitante, e si lasciò subito cadere sulla sua
spalla, stringendosi a lui con tutto il corpo. I suoi fremiti furono quelli rapidi e
improvvisi di un animale braccato. Perfino le sue braccia ridiventarono umane, e le
foglie del sempreverde lauro della sua metamorfosi interrotta caddero a terra come
ingiallite dall'autunno. Il giudice, eccitato da quella nuova esperienza, cominciò allora
a correre per le sale del museo deserto, toccando e abbracciando tutte le statue di
donna dai volti terrorizzati che vide, alle quali sapeva, ormai, di poter dare sollievo e
piacere. Infine, mentre la luce si affievoliva fino al chiarore di una candela, gli apparve
Paolina in tutta la sua bellezza radiosa, ninfa e dea, sorridente e padrona: distesa sul
letto poltrona, svestita, voltandogli la schiena, era come se lo invitasse ad unirsi a lei.
Allora si spogliò nudo, e salì sul giaciglio, passandole il braccio sotto la vita,
sfiorandole il collo e baciandola sulle guance di marmo. La statua si voltò lentamente,
e il giudice scoprì che aveva perso i lineamenti della celebre modella del Canova. Era
lei. Era lei. Eva Maria Silvia Domenica Primavera. Provò il più grande dei piaceri, un
orgasmo lunghissimo e dolce, finchè la ragazza, sorridendo, non fece il gesto di
alzarsi. Fu mentre stava per trattenerla che si accorse che non era più una persona:
stava diventando anche lui una statua, e le venature della pietra gli erano ormai salite
fino alla gola, e gli impedivano perfino di gridare. In quel momento si svegliò, di colpo,
appagato e terrorizzato insieme, e gli bastò un secondo per accorgersi che non c'era
niente di vero in ciò che aveva provato. Ma toccandosi per sincerarsi di essere ancora
di carne e di ossa, scoprì che intorno al sesso era tutto bagnato. Si ricordò che
qualcosa di simile gli era successa quando era poco più che un ragazzo. Allora si era
spaventato. Ora si vergognò di sè stesso, non tanto per quello che era successo, ma
perchè capì di aver affidato all'innocente incoscienza del sogno ciò che non aveva il
coraggio di affrontare coscientemente. Doveva o non doveva lasciarsi innamorare ?
Doveva o non doveva cercare di averla ? Averla, che orrenda allusione ! Era quasi
l'alba. Era l'ora di prendere una decisione, più difficile che emettere una sentenza.
Ogni risveglio libera alcune note di originalità. Ogni risveglio lascia ambigue nebbie di
ombra.
Tiziano
L'amor sacro e l'amor profano
Olio su tela
Roma, Galleria Borghese
L'eccitazione. Non è che si possa definire un sentimento profondo, nè d'altra parte è
una sensazione epidermica. Quando gli uomini, un tempo, attribuivano alle viscere
particolari valori e quelle importanti funzioni di auspicio che tutti sappiamo, allora si
sarebbe potuto dire che è un fatto viscerale. Ma non è più così, e non è così semplice
trovare il nome giusto per un concetto tanto astratto eppure tanto concreto. Il giudice,
ad esempio: ci provò anche lui, quella stessa mattina - l'aria era serena - quella che si
era svegliato, per dirla alla Rubens, con l'uccello che gli arrivava ai peli dell'ombelico.
Ma per quanto si sforzasse, non ci riusciva: aveva appena potuto toccare con mano
che sentirsi eccitati prescinde totalmente dal dominio di sè e dall'idea che il mondo è
un concentrato di volontà e rappresentazione più denso di un barattolo di succo di
pomodoro. Ma era una di quelle deduzioni che non lo accontentavano. Una presa
d'atto tale e quale, un fallimento della ragione, insomma. L'eccitazione, dunque, è
l'unica funzione corporea, se poi di funzione corporea si tratta, che sfugge
completamente non solo ad ogni tentativo di autocontrollo, ma perfino ad ogni
autorevole definizione. Così sia. Sic et simpliciter. Di fatto possiamo trattenere le
lacrime, il bisogno di orinare o di defecare, la fame, la sete e la fuoriuscita dello
sperma, o almeno possiamo tentare di farlo in piena consapevolezza. Tutte necessità
che sembrerebbero più o meno improrogabili. Ma non possiamo impedire al corpo di
eccitarsi senza che ce ne sia motivo. Anche se eccitarsi non porta a nulla. Questo è
quanto, e un ottimo inglese aggiungerebbe: absolutely. Tanto per ribadire. Al corpo, si
era detto ? Ma chissà se è davvero il corpo ad essere eccitabile ? Non potrebbe
dipendere dalla mente ? O da qualcos'altro ancora, qualcosa di indefinibile, di
incontrollabile, magari al di fuori dalla sfera dei sensi, non collocabile esattamente in
un organo o in una ghiandola ? Ora, capita che la scienza scopra che è un enzima a
provocare l'eccitazione. Ci sono miliardi di molecole invisibili che cominciano a
muoversi vorticosamente, provocando nella testa e in tutte le altre zone erogene
metamorfosi meravigliose e ogni volta diverse. Ci sembra quasi di vederle, queste
palline che rotolano l'una sull'altra godendo come forsennate. Ma perchè lo fanno ?
Questo è il vero problema. Perchè, all'improvviso, spesso senza che nulla di nuovo sia
accaduto sotto il sole, ci stuzzicano, ci solleticano, ci mettono addosso i loro brividi di
desiderio ? Tutte insieme. Siamo d'accordo sul fatto che non lo sapremo mai ? Sì. E
forse è per questo che sentirsi eccitati è così bello. Tornando al giudice, quella stessa
mattina - l'aria era serena - quella che si era svegliato nel modo che sappiamo, si alzò
poco dopo le sette e per prima cosa pensò di purificarsi l'anima e tutto il resto con una
bella doccia calda e molto lunga. Quanto al suo pigiama giallo e alla sua biancheria
notturna imbrattata di sogni lascivi, li gettò con disprezzo e rimpianto nella grande
cesta dei panni sporchi. Subito dopo si sorprese nudo in una specchiera a forma di
albero dalle vaste fronde, ma non provò nè ammirazione nè pietà per la sua
immagine. Il fatto è che osservò il suo corpo senza alcun pregiudizio, come se lo
vedesse per la prima volta, e scoprì che non era nè particolarmente attraente nè
particolarmente ripugnante. Aurea mediocritas, pensò impropriamente. Poi vide che
esso, ovvero lui, il corpo, recava i segni del piacere di essere stato eccitato da un
pensiero, da una vaga ipotesi di donna. L'eco di un fremito non ancora sopito. L'alito
di un orgasmo sul sesso ancora ingrossato. Solido. Nitido. Di solito una persona che si
rispetti è disposta a glissare su certi particolari. Oppure a compiacersi. Ma il giudice
no. Incrociò le braccia come un operaio in sciopero, allargò le gambe e fissò
intensamente l'area genitale riflessa. Non si aspettava che il turgido membro
riprendesse le dimensioni consuete. No. Voleva vedere, piuttosto, l'eccitazione nel suo
divenire. O meglio, in quella fase preliminare che rende gli uomini magnifici, prima
che si trasformino in animali affamati, e che solo gli uomini sanno che cosa vuol dire.
Voleva eccitarsi dominando l'evento. In teoria e in pratica. Ora, chiunque abbia
provato, sa che questo è possibile solo in parte. Solo quando sussistono già
determinate condizioni, come lo strascico erotico di un sogno tridimensionale, tattile. E
fu per questa ragione che il giudice ci riuscì. Quella mattina l'aria era serena. Si vestì
infilando la sua eccitazione nei pantaloni con una certa piacevole fatica. E poi cercò di
mettere in moto la giornata mantenendosi in quello stato di grazia. Ma durò poco. Già
mentre leggeva i giornali si spense. Si sa come sono, i giornali. Quasi tutti uguali. La
stessa impaginazione. La stessa carta. Le stesse notizie, in fondo. Oggi parlano tutti
della Bosnia. Ieri parlavano tutti del Kuwait. Domani parleranno tutti del Pakistan, o
della Thailandia, o del Madagascar. E ieri, oggi e domani, tutti della Sicilia, che è
l'unico luogo al mondo sempre in prima pagina. Con le stesse parole, tanto che il
giudice, a volte, aveva pensato che i redattori si limitassero a correggere i nomi di
luogo negli articoli del giorno dopo, nemmeno i titoli, nemmeno le fotografie.
Mantenendo intatta la sostanza del discorso - un esempio di economia di scala - e
quello stile inconfondibile, falsamente eccitato, che è parte integrante del marketing
del prodotto. In realtà, l'azione che i giornali compiono sul lettore è l'infinito del verbo
che, rispetto ad eccitare, esprime il significato contrario. Che poi non si sa quale sia,
poichè assopire, sedare, placare, calmare, sono solo dei traslati, mentre il perfetto
opposto etimologico sarebbe incitare, che non è propriamente vicino al concetto. In
breve, il giudice, dopo una breve parentesi di aristotelico compiacimento sulla natura
di quel fenomeno misterioso e piacevole che lo aveva colpito, tornò a far parte della
nutrita schiera dei neoplatonici. Che finchè non battono la testa in ciò che appare loro
in tutto e per tutto simile alla materia dei loro sogni, non credono a nulla di ciò che
vedono. Fu così che il giudice, quando incontrò la desiderata donna, quella stessa
mattina - l'aria era serena ed era la terza volta - quasi quasi non gli sembrò vero, e
pensò che sarebbe stato inutile perfino rincorrerla, chè tanto non l'avrebbe neppure
salutato. Invece lei lo riconobbe subito. Lei, riccamente vestita, i capelli sciolti, l'iride
chiaro di chi non ha nulla da nascondere, le labbra dolcemente appoggiate l'una
sull'altra di chi non ha premeditato il fine da perseguire, gli venne incontro decisa. La
vide che gli si avvicinava rapidamente ed ebbe paura delle sue parole.
"Buongiorno !" Disse cordialmente. "Come stai ?"
Il giudice non trovò la voce per rispondere, nè l'ironia per reagire. Le cercò entrambe
nel fondo della gola, ma non c'erano più, nè l'una, nè l'altra. Si limitò a guardarla e ad
annuire.
"Vuoi passeggiare un po'con me ? Sì, che lo vuoi. Andiamo, accompagnami."
Si incamminarono. La seguì. Non poteva essere altrimenti. La ragazza non disse più
nulla: aspettava che fosse lui a trovare un argomento abbastanza interessante da
giustificare la continuazione del discorso. Il giudice tentava, certo che tentava. Ma gli
venivano in mente solo ovvietà, come le condizioni atmosferiche, peraltro
ordinariamente stagionali, il suo noioso lavoro, l'ultimo film di Bertolucci, le sorti del
mondo, Scalabrino, Vivarium. Oppure tutto quello che avrebbe voluto veramente dirle
ma che non avrebbe mai avuto il coraggio di fare, che si stava innamorando di lei, che
per lui era la più bella tra le donne, che avrebbe desiderato volare nel deserto a
cavallo di un genio alato e godere dello splendore del suo corpo nudo al sole, prima di
fare l'amore sulla cresta delle dune. Altre ovvietà, a pensarci bene. Infine, gli sembrò
di intuire una via d'uscita.
"Conosce un certo Matteo ?" Le chiese.
"No, non mi sembra. Non so chi sia." Rispose lei senza neppure voltarsi.
Il giudice, per un attimo, si sentì schiacciato dal peso della sua stupidità e pensò di
avere irrimediabilmente compromesso l'unico momento favorevole che gli era capitato
da dieci anni a quella parte.
"Se lo conoscessi, lo ammetterei" - continuò la ragazza imperterrita. "Non avrà a che
fare anche lui con quella vecchia storia, spero ? Mi dispiacerebbe molto scoprire che
neppure io conosco tutti i particolari."
"No, no. Non c'entra nulla" - si affrettò a dirle. "E'solo un ragazzo. Volevo chiederle se
lo conosceva. Tutto qui. Lei è fidanzata ?"
"Mi dai ancora del lei ! Non avevamo detto di no ?"
Il giudice capì che le sue parole non erano state altro che uno sciocco gesto di
coraggio, la sortita senza esito di un assediato senza speranza. La ragazza rise.
"Fidanzata ! Io ? Ma come si fa a essere fidanzati ? Per carità !"
Ora finalmente lo guardava con quegli occhi di cerva. Gli sembrò uno sguardo
compassionevole, e non osò chiederle nient'altro. Erano arrivati sulla rupe, intanto. La
rupe degli innamorati e della vergogna. Un tempo quello era il luogo delle esecuzioni
capitali. Oggi, il ritrovo dei quindicenni. Una scarpata che segnava bruscamente la fine
apparente della città con un sarcofago corroso sull'orlo del vuoto, ormai trasformato in
fontana. Oltre, alcuni metri più in basso, giardini lussureggianti, piccoli boschi
sempreverdi interrotti da brevi radure, le piante esotiche dell'orto botanico. Si
fermarono per pochissimo tempo. Monica gli disse semplicemente che doveva proprio
andare, e gli parve che sottolineasse proprio , anche se non ne capì la ragione. Il
giudice rimase solo, e si guardò intorno, rischiando di essere scambiato per uno di
quei vecchi porci che spiano gli adolescenti. Ma non gli importava più nulla di nulla.
Amava molto quel panorama, e voleva fissare nella memoria tutte le sensazioni che si
agitavano in lui, lì, allora. Negli ultimi giorni, aveva pensato di passeggiare con lei nei
pochi luoghi che considerava degni di essere consacrati all'amore. Proprio in quelli. Tra
i papaveri delle tonde colline della val d'Orcia. Ai bordi dei campi di lavanda della
Provenza. Sulle distese di erica fiorita della costa irlandese. Non avrebbe mai creduto
di dover aggiungere alla lista quell'angolo della sua città che conosceva da quando era
nato. Ma quella non era più la sua città. Lui non era lassù, in quell'istante. Era al di
fuori dello spazio e del tempo. Al di là del bene e del male. Perduto in uno dei rari
paesaggi che tracciano la forma della malinconia.
Angelo Caroselli
Vanitas
Olio su tela
Firenze, collezione Longhi
Finalmente il giudice arrivò in ufficio. Entrando nel palazzone verdastro, si sentì
pesante come se varcasse la porta della sua stessa cella dopo la condanna e si
domandò quale fosse mai la differenza tra il giustiziere e il giustiziato. Attraversò in
fretta il lungo corridoio del primo piano, senza salutare nessuno degli impiegati o dei
colleghi. In pochi minuti si sparse la voce che quel giorno il giudice era di pessimo
umore, e la cosa in sè apparve alquanto insolita ai più. Nella sua stanza, tirò su le
veneziane per far entrare tutta la luce possibile, e anche questo gesto, contrario alle
sue abitudini, fu letto da chi poté notarlo come una sorta di cattivo auspicio.
Immediatamente, fece chiamare Rubens, aspettandolo senza nemmeno sedersi. Il
povero Oreste, che di solito prendeva tutto con molta calma, capì che era meglio
affrettarsi, e rispose subito all'appello, precipitandosi verso l'ultimo ufficio. Scostò la
porta socchiusa e chiese il permesso di entrare. Forse era la prima volta che si
perdeva in convenevoli, da quando era stato assunto. Il giudice non disse neppure
avanti. Rubens vide un uomo che passeggiava senza sosta tre passi avanti e tre passi
indietro, cercando palesemente di dominare eventi sconosciuti. Ci riusciva, o almeno
così sembrava, ma non in modo istintivo, come tutti gli altri giorni. Si era dissolta
anche l'ombra di quella noncuranza, di quella superiorità sugli incidenti della vita
grazie alla quale l'uomo era diventato una specie di leggenda vivente per l'intero corpo
dei dipendenti del tribunale. A Rubens venne spontaneo dire:
"Che cosa c'è, signor giudice ? Qualcosa non va ?"
E nella sua voce mise una punta di sincera preoccupazione.
"Siediti, Oreste, siediti un attimo."
Gli rispose il giudice, continuando a passeggiare, ma riducendo a due i passi in avanti
e aumentando la pausa di riflessione prima di tornare indietro. Rubens si accomodò su
uno sgabello a ridosso della porta. Preferì evitare le sedie davanti alla scrivania, tanto
più che il giudice, ora, si era fermato, in piedi, contro la luce di una delle finestre, e da
qualsiasi altra posizione gli sarebbe apparso come una sagoma tremolante,
un'evanescente larva. Seguì un silenzio di durata non quantificabile, che mise Rubens
seriamente in imbarazzo. Non era di quelli che sanno aspettare una rivelazione senza
formulare ipotesi. E mentre il giudice continuava ad alzare gli occhi verso il cielo,
come se cercasse una qualche forma di ispirazione, di supposizioni ne fece molte,
tutte tragiche o sconcertanti. Infine il giudice si voltò, e disse bruscamente:
"Oreste. Tu come faresti ad avvicinare una ragazza molto più giovane di te ?"
Il volto di Rubens si illuminò, diventò grande e radioso come un sole o una luna. Una
vampata di calore infiammò le sue guance e un grosso respiro allargò il suo torace. Se
avesse avuto tra le mani uno zufolo avrebbe improvvisato una danza, come un satiro
che finalmente può esprimere libero la sua gioia di vivere. Mai e poi mai avrebbe
immaginato una cosa simile.
"Allora le piace, signor giudice ! Piace anche a lei !"
Il giudice si voltò ancora verso le veneziane alzate:
"Chi ?"
"La bella gnocca. Quella della settimana scorsa. Mi scusi se continuo a chiamarla così,
ma non so chi è, per la precisione."
"Ah, sì, certo" - disse distrattamente il giudice, abbassando tuttavia la voce. "Pensavi
che non mi piacessero le donne ?"
Rubens era come frastornato, ma quella confessione lo aveva reso felice: scattò in
piedi, si avvicinò al superiore e lo toccò sul braccio con le nocche delle mani, come per
incoraggiarlo. Un gesto di tale aperta e spontanea confidenza che il giudice ne fu quasi
turbato.
"Lasci fare a me" - disse, con il suo innato senso della teatralità. E, come un fiume che
ha finalmente rotto ogni argine, come una slavina che precipita lungo i costoni spogli
di una montagna, come una nuvola di vapore che è riuscita a trovare lo sbocco dal
sottosuolo, cominciò a parlargli di tutte le tecniche della seduzione che conosceva o
affermava di conoscere.
"Si faccia desiderare, signor giudice. Questa è la prima regola. Soprattutto se la
ragazza è giovane e bella. Deve solleticare la sua vanità, ma senza farle capire che è
disposto a baciare la terra dove cammina. Quando lei si volta all'improvviso per farsi
ammirare in tutto il suo splendore, resista. E'lei che deve guidare il gioco, intendo dire
lei, signor giudice."
Il giudice lo guardava con curiosità quasi professionale. Rubens gesticolava talmente
che sarebbe stato pericoloso trovarsi nel raggio d'azione delle sue braccia.
"Oppure - continuò - oppure potrebbe far valere il fatto di essere un personaggio
importante. Tutte le donne sentono il fascino del potere di un uomo. La faccia venire
qui, e poi, e poi..."
"E poi cosa ?"
"E poi, ecco, faccia sparire tutte le sedie. Faccia in modo che nella stanza non rimanga
altro che la sua bella poltroncina girevole. La ragazza entra, si guarda intorno e non
può sedersi. Però non può nemmeno stare in piedi. Lei, allora, le dice: prego, si
accomodi pure qui, dietro la scrivania. Ma non si alzi, mentre lo dice, resti dov'è. La
ragazza capirà l'allusione, le donne sono intelligenti. E si sentirà lusingata, questo è
sicuro. Potrebbe anche stare al gioco."
"Ma che cosa dici, Oreste ! Quale gioco ?"
"Mi scusi, signor giudice, forse mi sono lasciato prendere la mano. E'che non riesco a
crederci ! Lei che chiede aiuto a me, per una donna ! Forse dovrei sapere meglio di
che cosa si tratta."
"Te lo spiegherò volentieri."
Disse il giudice. Poi si avvicinò a Rubens e gli tese la mano:
"Nel frattempo cerchiamo di diventare amici. Prima di tutto non chiamarmi più signor
giudice."
Rubens sorrise e strinse quella mano così forte che il giudice sentì quasi del male.
"Ora vorrei farti vedere qualcosa che ha a che fare con questa storia - continuò - ma
ho bisogno del tuo computer."
"Prego." Disse subito Rubens.
Andarono nell'altro ufficio e accesero la macchina. Il giudice cercò il dischetto di
Leonardo nelle tasche della sua giacca, lo trovò e lo dette a Oreste. Preciso come un
tedesco, Matteo glielo aveva fatto recapitare il giorno dopo aver constatato che non
avrebbe mai potuto analizzarlo col suo giocattolo.
"Prego." Insisteva Rubens, intanto. Ma il giudice gli spiegò che non avrebbe mai osato
mettere le mani su un computer che non fosse il suo. Allora il fedele impiegato di un
tempo, ormai promosso al rango di confidente, prese il floppy e lo infilò nel lettore. Poi
buttò là una frase del tipo "non ci sarà mica qualche virus ?", temendo però di
offendere il giudice per averlo insinuato. Il giudice gli disse semplicemente di
controllare, che era meglio, e Rubens, velocemente, fece una scansione. Il dischetto
risultò non contaminato, e Rubens non potè trattenere una specie di sospiro di
sollievo, spiegando subito al giudice che aveva una gran paura dei virus, e che
nessuno mai era riuscito a entrare nel suo sistema. Poi uscì dal programma di
controllo, si posizionò sul dischetto, chiese la directory e chiamò direttamente l'unico
file eseguibile tra quelli memorizzati. La scheda cominciò a lavorare e caricò i dati. Lo
schermo rimase nero per un po'. Poi apparve una piccola scritta, al centro, con una
precisa richiesta: se è la prima volta che leggi questo dischetto, digita la password.
"Qual'è la parola chiave ?" Chiese Rubens con un certo distacco professionale.
"Non lo so." Disse il giudice.
"Ma come non lo so ? Come facciamo allora ?"
"Non lo so" - ribadì il giudice. "Tu sei molto più bravo di me con queste macchine. Non
c'è un altro sistema ?"
Rubens lo guardò, indeciso tra l'autocompiacimento e la commiserazione. Poi disse:
"C'è una sola cosa da fare. Scrivere una parola qualsiasi e sperare che funzioni. Una
probabilità su qualche miliardo."
"Benissimo !" Disse il giudice.
"Sì. Ma che cazzo - scusi la spontaneità - che cazzo di parola inventiamo !"
"Non lo so."
"Ecco !" - esclamò Rubens, spazientito. "Non lo so. Scriviamo 'non lo so'. Mi sembra di
aver letto da qualche parte che a volte dire non lo so apre tutte le porte !"
Il giudice mise le mani sulla tastiera e scrisse 'non lo so' prima che Rubens potesse
fermarlo:
"Ma che fa ? Stavo scherzando !"
Il giudice non disse nulla, lo guardò sorridendo e dette l'invio. Lo schermo diventò
rosso, e al centro apparve una nuova scritta: peccato ! La password è sbagliata. Per
questa volta non sarà possibile leggere il contenuto del dischetto. Premio di
consolazione: un'immagine piccante. La scritta svanì, e lo schermo cominciò a
riempirsi di puntolini colorati in ordine sparso, sotto lo sguardo terrorizzato di Rubens
e quello indifferente del giudice. A poco a poco i puntolini presero la forma di una
vecchia fotografia di una donna nuda a gambe allargate, una di quelle che venivano
scattate nei bordelli e poi rivendute a Parigi come cartoline. Rubens rise istericamente,
poi guardò il giudice con aria complice. Quest'ultimo gli disse con gli occhi che ne
sapeva quanto lui. Nel frattempo, sotto l'immagine, stava scorrendo una didascalia,
che diceva più o meno 'questa fotografia è in realtà un fotomontaggio tra il corpo di
una qualsiasi prostituta e il volto della regina Vittoria. Forse vi interesserà sapere che
la regina Vittoria, quella stessa che ha dato il nome all'epoca più bigotta della storia e
che copriva con le calze perfino le gambe dei tavolini, fu sempre molto tollerante verso
le sue caricature erotiche: poichè fu la prima sovrana a permettere che la sua effigie
fosse riprodotta sulle etichette delle merci inglesi e sui primi francobolli, doveva
accettare anche i rischi che la libertà d'uso della sua immagine comportava, e li
accettò fino in fondo, con grande coerenza'. Poco dopo, la fotografia scomparve e lo
schermo ritornò nero. Un'ultima scritta fu visualizzata:
Reference guide:
1. This program requires Microsoft Windows.
2. The password is 'sex lies & videotape'.
Press esc to reboot
Quest'ordine così perentorio, pensò il giudice, queste parole così dure, potrebbero
sostituire efficacemente l'insignificante insegna posta all'ingresso di Auschwitz o
l'avvertimento tetro che certo è scritto sotto il pulsante che può scatenare l'olocausto
nucleare. Tradotto letteralmente in italiano suonerebbe 'premi uscita per rifare lo
stivale', e nella particolare congiuntura storica si presterebbe a interpretazioni
equivoche. Si è incapaci di reagire di fronte a tanto ardire da parte di una macchina.
Così, il giudice e Rubens accettarono la proposta e uno dei due eseguì la richiesta con
il tocco di una delle dita. ll computer ebbe un tuffo al cuore, come se fosse stato
colpito da una malattia improvvisa. Poi il tuffo diventò un sibilo lontano, foriero di
morte e tuttavia rassicurante, lo schermo si oscurò all'improvviso come il cielo prima
dell'apocalisse. Il computer fu resettato automaticamente. Infine, come una fiammella
di speranza, riapparve l'enigmatico ed eterno prompt del DOS, scritto e specificato nei
files autoexec punto bat e config punto sys. Rubens tolse subito il dischetto e lo dette
al giudice senza nemmeno guardarlo. Poi lanciò una scansione generale del sistema e
non aprì bocca finchè non risultò chiaro che nessun virus aveva infettato la macchina.
Il giudice, intanto, aveva rimesso il dischetto in tasca e stava preparando
mentalmente una spiegazione, che peraltro non si rese necessaria. Rubens, infatti,
cambiò totalmente discorso:
"Lo sa che cosa sto pensando ? Che mi piacerebbe poter viaggiare nel tempo e
scopare le donne più famose della storia. Andare a letto con Cleopatra, con Messalina,
con la Pompadour, Cristina di Svezia, la regina Isabella, la principessa Sissi ! Ma ci
pensi, giudice ! Mi piacerebbe provarci anche con santa Chiara. Magari non ci sta, ma
mi piacerebbe provare: santa Chiara era proprio bella. L'ho vista in un film."
"Sei veramente pazzo, Oreste ! E poi, scusa, come faresti ad avvicinare una regina ?"
"Gli uomini erano piccoli, una volta. Io sarei una specie di gigante, un toro, un dio. E
alle donne questo piacerebbe. Diventerei famoso. Mi vorrebbero anche le regine."
"Sei proprio pazzo !"
"Perchè, a te non piacerebbe ?"
"Non riesco neanche a immaginare una cosa simile !"
"Provaci. E'divertente. E poi non fa male a nessuno, sognare ad occhi aperti, qualche
volta."
"Lasciamo perdere, ora. Nel dischetto c'è una testimonianza. A proposito di quella
storia. Ci dovrebbe essere una testimonianza."
Rubens ammiccò:
"A questo punto è ovvio che c'è di mezzo la bella gnocca. Un'indagine, un mistero, un
giudice, e come dicono i francesi, cerchez la femme !"
"E va bene, lo ammetto. E'così. E allora, che facciamo ?"
"Lasci fare al suo amico Oreste ! Che ora, come un mago, tira fuori dal suo cilindro un
bel pacchetto con dentro tutto, ma proprio tutto quello che manca ! Eccolo qua, è il
memoriale completo, sottolineo completo, di tutto quello che è successo in quel posto
che si chiama Vivarium - dico bene ? - e che parla di tutta la banda, ma proprio tutta,
senza nessuno escluso."
Il giudice prese la busta che Rubens gli stava porgendo e guardò nell'interno. Un
quaderno. Si trattava certamente del diario di Raffaello, che il solito Matteo, puntuale
come uno svizzero, gli aveva preannunciato.
"Hai già dato un'occhiata, scommetto ?" Chiese.
"Letto e sottoscritto" - rispose Rubens. "Ora è tutto chiaro. Ecco perchè non ne
sapevamo nulla, e perchè è morta la ragazza."
"Non dirmi niente. Vorrei cercare di capire da solo. Grazie, Oreste !"
Solo allora tornò ad essere il giudice che era, e anche Rubens se ne accorse. Si
allontanò senza parole, riaprì la porta del suo ufficio, abbassò le tende e si accomodò
sulla sua ampia poltrona. Moriva dalla voglia di leggere qualunque cosa potesse
riguardarla.
Francisco de Zurbaran
Morte di Ercole
Olio su tela
Madrid, Prado
Aveva finalmente scoperto il manifestarsi della morte, Matteo, e tutto era
all'improvviso cambiato. Prima, era come se una patina uniforme ricoprisse i contorni
delle persone e degli oggetti, rendendoli indefiniti, incerti, eterni. Ora, le ombre erano
diventate ombre, le luci erano diventate luci, e le persone e le cose così nitide che il
confine della loro fragilità appariva soltanto per quello che è, una linea sottilissima.
L'intero campionario della vita, se esiste la vita, la sua bellezza, il suo orrore, la sua
noia, le sue illusioni, era passato sotto i suoi occhi in una sola giornata. Nessun
evento, a pensarci bene, veramente straordinario. Niente per cui valesse la pena
segnarla sul calendario con un cerchietto. Ma la morte aveva sussurrato una storia, ed
era bastato ascoltarla, guardarla, comprenderne l'inutilità, perchè tutto sembrasse
diverso. La morte aveva dato un senso all'inconsistenza del suo tempo, e a Matteo
sembrò, per la prima volta, di essere parte integrante di un tutto illimitato, uno
specchio in cui si riflette l'esistere degli altri, così come le nuvole si specchiano in una
pozzanghera frutto delle loro stesse lacrime. Alla sera, molto tardi, solo nella sua
stanza, osservò lo scaffale dei fossili, e le conchiglie, le ossa, le spore, le foglie e gli
scheletri gli apparvero più vivi dei vivi, meglio disposti dei mortali ad accettare
serenamente la loro sconfitta. La morte racconta subito la vita che chiude. Poi, di
quella e di tutte le altre storie, non resta che l'impronta indelebile che essa stessa
lascia. Non è giusto, si disse Matteo. Prese della carta, una penna. E per la prima volta
scrisse senza una ragione, senza che nessuno gli chiedesse di farlo. Non sapeva
neppure lui perchè avvertisse il desiderio di rivedere ciò che stava provando
trasformarsi in una sequenza di macchie indistinte distese sulla superficie di un foglio
bianco. Guardò i pacchetti e le buste che gli avevano affidato, proprio a lui, come si
farebbe con un amico, le lettere, l'opuscolo, il nastro, pensò al diario e al dischetto che
aveva dato al giudice, e fu sul punto di credere che la scrittura, qualunque forma
potesse assumere, fosse l'unico modo per evitare che il sigillo della morte trasformi
l'esistenza in un fossile senza memoria. Ma che cosa poteva raccontare, lui, di
diciannove anni, anni in cui nemmeno un giorno si era fermato a riflettere su ciò che
era stato ? Quasi nulla. Così, scrisse una pagina sulla donna insanguinata, l'ultima
esperienza diretta. E mentre scriveva si convinse che le sue parole sarebbero rimaste
la sola traccia concreta per poter ricostruire la vita di quella sconosciuta sfortunata, si
disse che le avrebbero reso l'omaggio che meritava, l'avrebbero difesa, anche se
troppo tardi, ormai, dalla violenza subita. Scrisse di getto, senza rileggere.
Inconsciamente sicuro di potersi sostituire alla morte in veste di narratore. E della
morte parlò. E della guerra, sola imene del mondo. Fragile barriera del delirio. Velo più
volte tagliato e sempre ricucito. Regno dei moribondi e dei mutilati. Della guerra che
illude gli uomini, di essere, come la morte, stupratori immortali. Subito dopo, spinto
da un impulso irrefrenabile, scrisse una poesia d'amore. A tutti è concesso illudersi di
essere un poeta per un quarto d'ora almeno, non è vero ? La poesia è l'unica forma del
ricordo più bella di ciò che rimane di noi negli altri, morendo. Solo dopo molti anni,
Matteo si accorgerà che la memoria è fredda e incolore come l'acqua che filtra dalla
roccia delle grotte, e che la scrittura è il deposito calcareo che essa, gocciolando,
mentre scorre via, inevitabilmente lascia. Una stalattite opaca, debole, che si insinua
nel vuoto, lentamente, fino a che una mano sudata, un terremoto, la luce di una
lampada non ne interrompono il continuo crescere impedendo all'ultima goccia di
cadere, di evaporare. A quel punto, ben poco rimane della sostanza originaria della
concrezione. Una sagoma inconsueta, a volte. Una maggiore o minore lunghezza. La
bellezza di una certa trasparenza. Minime differenze impercettibili ad occhio nudo.
Nient'altro. Nulla che renda visibile la fatica del suo formarsi o la molteplice varietà dei
suoi cristalli. Nulla che lasci affiorare il suo vero significato, o che la renda veramente
diversa dalla selva delle sue simili. Matteo cercò una cartella, e vi ripose il foglio,
segnando accuratamente la data sul risvolto. Era ancora soddisfatto delle parole che
aveva scritto, ma non sarebbe durata a lungo. Ogni frase invecchia a ritmo
vertiginoso, ogni tratto di penna si asciuga prima ancora di poter essere cancellato. Si
era illuso, Matteo, di aver scoperto il segreto per afferrare il tempo. Ma ben presto capì
che per descrivere il modo in cui lo aveva conquistato, per esprimere la straordinaria
sensazione di esserne il creatore, il custode, in realtà lo aveva perduto senza rimedio.
Ercole, infine, decise di scegliere il sentiero della gloria. Ma quando si accorse che le
fiamme lo avvolgevano e che non poteva più strappare la camicia infuocata che lo
stava uccidendo, solo allora pensò alla strada che non aveva imboccato. Se non
avesse deciso di compiere le sue celebri gesta, forse sarebbe morto meno
stupidamente, molti anni dopo, e il tempo sarebbe stato più suo. Comprese, troppo
tardi, che la sua vita era stata scritta nel libro del destino, e che non avrebbe potuto
cambiarla, neppure volendo. Ora, Matteo fu sul punto di credere che scrivere fosse la
soluzione: se la sorte è una scrittura, concluse, solo scrivendo si potrà cambiare. Ed
essere finalmente liberi, poichè, per i narratori e i poeti, nessun percorso è mai stato
tracciato. Passò la notte. Veloce. Si svegliò poco prima dell'alba, Matteo, al suono
dolcissimo e malinconico di una sonata per violoncello che filtrava dal pavimento.
Subito pensò di essere un uomo diverso, un uomo, finalmente. Ma non appena aprì gli
occhi ebbe la sensazione di aver già vissuto quello stesso istante, di non aver deciso
niente. Era nella sua stanza, e niente, dunque, era apparentemente cambiato. Il cielo,
dalla sua finestra, era quello di ieri. Il medesimo paesaggio. Non ricordava neppure
con esattezza ciò che aveva scritto la sera precedente, e quando andò a rileggerlo non
gli piacque più. Tutte le mattine del mondo sembrano uguali, e anche se sappiamo che
non è così, che all'alba di quel giorno qualsiasi si nasce e si muore, si ama e si è
amati, si mangia, si beve, si corre, ci si guarda nello specchio, si sorride, ci si dispera,
si uccide, si trama, si spara, si sogna, non possiamo dimostrarlo. Nemmeno scrivendo,
perchè essere vivi è sempre un'altra cosa. Ma tutto questo, Matteo, non poteva ancora
saperlo. Prese un altro foglio, bianco. Cercò di pensare. Di lasciarsi andare alla stessa
emozione che lo aveva spinto ad appoggiare la punta della penna sulla superficie
intatta della carta non più di otto ore prima. Fu inutile. Non una parola si formò nella
sua mente, nient'altro che punti e linee apparvero sulla pagina. Alla sera, aveva
scoperto, senza volerlo, il piacere della scrittura. Ora, al mattino, volle almeno credere
che scrivere fosse un dovere da compiere, un sacrificio irrinunciabile, un lucido sforzo
della volontà. L'ingegno, si disse, il desiderio, possono riuscire là dove l'ispirazione
non arriva. Così, con grande fatica, mise insieme una frase, ma si rese conto da solo,
immediatamente, che non valeva nulla. E provò una rabbia incontrollabile. Strappò il
foglio e gettò via i brandelli. Appoggiò un palmo sul piano della scrivania. Sollevò la
penna come se fosse un pugnale. Poi, poi non osò gridare di dolore quando la punta
della sfera, mossa da lui stesso, si infilò nella pelle della sua mano sinistra. Il sangue
si mescolò all'inchiostro, le stimmate dello scrivente, e qualche goccia finì sugli abiti.
La penna cadde, la mano si chiuse. La realtà, se esiste, si fece subito riconoscere.
Matteo fu costretto a cercare di tamponare la ferita. Ma il sangue continuava ad
uscire. Non voleva chiedere aiuto. L'avvolse alla meglio in un grosso fazzoletto. Finì di
vestirsi come poteva. Uscì in silenzio. Si incamminò subito verso l'ospedale. Si accorse
di non essersi lavato, di non aver fatto colazione, di non essersi pettinato, di non aver
fatto nulla di ciò che faceva ogni giorno. Si sentì vuoto, quasi inesistente, e nello
stesso tempo imprigionato nella consistenza fisica del suo corpo. Tutto quello che
avrebbe voluto scrivere scorreva nella sua testa, misterioso fluido: frammenti
chiarissimi di linguaggio, tanto evanescenti da non poter essere imparati a memoria,
neppure scritti, se anche avesse avuto carta e penna con sè. Nel frattempo,
camminava, stringendo il fazzoletto per non perdere altro sangue. Questa, forse, è la
vita, se esiste. Una risposta automatica all'ultima necessità in ordine di tempo. La
vana ricerca dei confini di un ricordo. Una continua lotta con la sostenibile pesantezza
del non essere.
Anne-Louis Girodet
Deposizione di Atala nella tomba
Olio su tela
Parigi, Louvre
Sembrano orche galleggianti nell'ignoto. Sogni. Sono tutte le immagini senza nitidezza
che frullano nel vuoto del globo oculare, che sembra di vedere mentre attraversano
come lampi le fibre del nervo che collega la retina al lato destro del cervello. I petali
degli alberi di pesco in fiore che si accasciano sulla terra poco prima dell'estate. Uno
squadrone di larve, di fantasmi, vomitato nell'aria fetida dall'oscurità di una galleria.
La voragine vulcanica aperta dalla vampata di fuoco di un'esplosione nucleare. Il ritmo
lentissimo dell'acqua che scorre nel suo letto mobile e si incanala nei rivoli delle pale
dei mulini. Matteo si avvicinava all'ospedale. Ma non guardava la strada. Non aveva
bisogno di riconoscerla per non perderla. Seguiva piuttosto il barlume dei suoi sogni,
di quelle visioni improvvise e inafferrabili che passano, dicono, nella testa di tutti
coloro che stanno perdendo una certa quantità di sangue. Esangue, attraversò il
piazzale dell'eliporto d'emergenza sporcando con la sua scia di formica il candore della
grande lettera muta. Finalmente arrivò alla porta spalancata del pronto soccorso, ma
non la vide, come aveva pensato rielaborando gli sprazzi dell'immaginazione, cigolare
su sè stessa per lo spostamento d'aria di un attacco terroristico. Non esitò che un
attimo, mentre le ultime fugaci ombre, gesta sportive sovrumane enfatizzate dalla
lentezza della moviola e canestri di frutta lucente di rugiada, continuavano a
proiettarsi, da sole, sul telone convesso della sua mente illogica. Varcò la soglia. E
allora non vide più nulla. Nel ventre di un ospedale i colori dei sogni svaniscono.
Vengono divorati dal bianco delle pareti e dal nero dei pavimenti. Perfino il sangue
non è più rosso. E'difficile pensare, impossibile sognare, nel ventre di un ospedale.
Indifferente esserci passati. Matteo si presenta allo sportello. Accettazione. L'addetto
lo scruta. Appoggia la mano sul vetro. Noncuranza impiegatizia ? No. Per capirsi
meglio, piccino mio. Ecco. Una vecchia Bic rosicchiata all'altezza del gommino blu. Il
nome di Matteo viene scritto su una cartella rosa pallido. Ferito per cause accidentali.
Ultimo ingrediente, l'età. L'archivio è servito. E ora ? Informazioni e raccomandazioni.
Un infermiere sporco. E'consigliabile aspettare nell'apposita saletta. Qual'è, dov'è,
perchè esiste ? Tutte le porte sono chiuse nel lunghissimo corridoio. Dalle fessure di
una di esse escono fiochi lamenti. Il pronto soccorso vero e proprio, probabilmente.
Dalle altre, il silenzio. Probabilmente, molte sale d'attesa. Squallide, se è lecito.
Bianche. Sedie senza imbottitura, gelide. Meglio aspettare in piedi. Misurare i passi
avanti e indietro. Che il tempo intanto passi. Tanti passi avanti. Altrettanti passi
indietro. La suola delle scarpe allineata con le linee delle mattonelle. Due mattonelle
alla volta. Una sola mattonella. A destra piegando il piede verso sinistra. A sinistra
piegando il piede verso destra. Ma una porta si apre. Una mezza testa sbuca fuori e si
guarda intorno. Un numero viene chiamato. Urla nel silenzio. Nessuno risponde.
Matteo aspetta ancora. Poi, essendo il solo ad aspettare, corre velocemente verso la
porta, che si sta richiudendo. Il numero è lui. Entra. Tra tutti gli strumenti di tortura in
mostra nella prima stanza, il più raffinato gli sembra il lettino da ginecologo. Proprio lì
lo fanno accomodare. Non disteso, però, senza allargare le gambe. Arriva un
infermiere libero e selvaggio. Gli prende la mano. Toglie via il fazzoletto insanguinato.
Matteo osserva. Lo getta in un cestino, come se fosse di carta. Non è niente, dice.
Matteo osserva. Prende la tintura di iodio. Svita il tappo della bottiglia. Matteo
osserva. Una mano uniforme di terra di Siena si sovrappone alla ferita cicatrizzata.
Non è niente. Tuttavia Matteo evita accuratamente di osservare la fase della
medicazione in senso stretto. E anche quella della successiva fasciatura, già che c'è.
Declina lo sguardo. Riferisce di aver visto, più o meno, tutto ciò che succede in un
pronto soccorso del bel paese in un momento di scarso affollamento. L'infermiera
legge una rivista mentre il caffè sta rigurgitando. Il portantino ascolta la radio senza
cuffie. La dottoressa si siede ridendo sulle ginocchia di un impiegato bello e
impossibile. L'infermiere fuma sotto il cartello vietato fumare. Riferisce senza
commentare. E'ancora abbastanza giovane da non dare importanza ai comportamenti
asociali. Abbastanza italiano da sapersi adattare facilmente ad ogni situazione
imprevista. Non si pone quasi mai problemi ulteriori. La fasciatura è finita. Non sente
dolore. L'infermiere lo accompagna da un oscuro medico di turno. Il medico non
controlla nemmeno la garza. Prende la mano di Matteo tra due dita. Riempie una serie
di fogli attaccati ad un blocco. Ne strappa uno lungo la linea perforata. Lo da al
ragazzo. Gli dice di salire al terzo piano, fino ad un certo reparto, per avere il parere
dello specialista. E di ricordarsi di ripassare da lui, proprio da lui, prima di andare via.
Matteo esce. Cerca di capire qual'è la direzione giusta da seguire. La cosa giusta da
fare. Il corridoio è uno soltanto. Da un lato c'è l'uscita. Matteo s'incammina dall'altro.
In fondo in fondo c'è una curva a gomito. Un breve tratto senza porte e senza finestre,
segnato dalle tubature del riscaldamento, porta dritto nel mezzo di un atrio. Matteo
sale sul secondo dei quattro ascensori disponibili. Schiaccia di riflesso il bottone con il
numero 3. L'ascensore parte con una violenta accellerazione. Si ferma con una
violenta decelerazione. La porta si apre alle spalle di Matteo. Matteo si gira e scende.
Pensa di essere arrivato. Ma non si rende conto di trovarsi al piano di sotto rispetto a
quello desiderato. Dopo tutto non c'è nessuno. Non ci sono segnalazioni. Le luci del
pannello dell'ascensore non funzionano. Sbagliarsi è umano. Entra così, per caso, in
uno dei tanti gironi dell'inferno. In uno dei tanti giorni dell'inverno. Il reparto è una
scatola da scarpe vuota. Le pallottole di carta la rimpiccioliscono. L'odore della
naftalina persiste, ma solo al livello del solaio. Le anime sono morte nei corpi dei vivi
ammalati. I piedi dei moribondi calzano pantofole consunte. Solo gli occhi degli
incurabili conservano un lampo di vitalità. Vagano. Errano. Ritornano. Senza poter
uscire. Senza dover uscire. Senza desiderare uscire. E l'aria manca. Il rumore è
attutito dalla sua stessa inutilità. Matteo percorre i tre lati di un ferro di cavallo. Passa.
Guarda. Non si ferma. Guardare non significa vedere. Soltanto una stanza attira la sua
attenzione. Non c'è quasi nessuno, dentro. Penombra. Polvere. Solo un uomo, seduto
accanto ad un letto, che accarezza pianissimo i capelli sporchi di una donna troppo
segnata dal dolore per poter essere ancora giovane e bella. Avvolta nel sudario di un
lenzuolo ruvido. Illuminata da una sciabola di sole. Le parla, quasi sottovoce. Ma la
donna è assente. Non sa ascoltare. O non vuole. Matteo si avvicina, a costo di
sembrare inopportuno. Si appoggia allo stipite dell'anta socchiusa della porta. Ed è da
quella posizione che può riconoscere l'uomo. Dopo averlo cercato in tutta la città.
Eccolo, è lì, è in un ospedale, al capezzale di una donna malata, Scalabrino. Hai
cercato di capire che cos'era accaduto interrogando i testimoni come un giudice,
Matteo, e ora l'epilogo è vicino ai tuoi occhi, il testimone sei tu. Così sembra, e a volte
è necessario lasciarsi catturare dalle apparenze. Nasconditi pure. Accovacciati per
terra. Stringi le ginocchia tra le tue braccia. Ma non vergognarti di essere costretto ad
ascoltare.
Ma Lara, ti ricordi, di quando tu, Monica, ed io, trovammo infine, forse per
incantamento, quel luogo che per tanto tempo avevamo cercato inutilmente ? Non
saprò mai se provasti la mia stessa emozione, quella certezza magnifica, rarissima
nella vita di chiunque, e in quella di un uomo più che in quella di una donna, di essere
dove e quando abbiamo sempre immaginato e desiderato di essere. E di sentire,
anche se per poco, che quello spazio e quel tempo, nella loro assoluta perfezione,
stanno diventando la totalità del tempo e dello spazio, fino a non esistere più, a
seguirci come ombre, accompagnarci come fantasmi. Come hai potuto morire in quel
momento ? L'aria era limpidissima, lassù. Monica era affascinata dai riflessi delle rocce
e delle alghe sul fondo del mare, e si divertiva a inventare nomi di nuovi colori,
perchè, diceva, quelli conosciuti non potevano descrivere la bellezza di quei giochi di
luce, e perchè quelle sfumature, se esistevano, se erano percepibili, se erano davanti
ai nostri occhi, dovevano avere un nome loro proprio. Ridendo inventò il giadurro, un
cupo oltremare riflesso del verde delle giade orientali, il grechese o turchese di Grecia,
il celedaco, celeste indaco. Se ciò che è piacevole deve avere un nome, rispondevi, che
sia quello di una sensazione eterea: si chiami gioia, così, il colore capace di
trasmetterla, e dolore il più opaco dei grigi. Io avrei soltanto voluto chiamare Lara,
Lara come i tuoi occhi, il più bello dei riflessi, ma non lo dissi per non sembrare banale
e inopportuno. E allora ci incamminammo giù verso il promontorio, e Monica colse un
piccolissimo fiore di timo per te, e uno di salvia per me. C'era la signora vestita di nero
ad aspettarti, soltanto ora me ne accorgo, che ad ogni passo ci segue e a volte è tanto
perfida che osa nascondersi dietro i cespugli di timo e di salvia a spiare le poche ore di
felicità che la vita, sua schiava, ci concede. Tu camminavi dondolando, col tuo fiore
rosa profumatissimo sotto il naso, poi Monica, poi io. In fila come formiche.
Spensierati come in vacanza, se ci avessero visto da lontano. Però malinconici, tristi
senza lacrime, improvvisamente colti da quel dubbio che ci prende quando tutto,
intorno, è incanto e armonia, e pensiamo già che domani rimpiangeremo quel giorno.
Quando, come guerrieri accecati, calpestiamo i gigli sul ciglio della scarpata dove
galoppano i nostri cavalli. Vivarium era lì, sul promontorio. Sono sicuro che anche tu,
e Monica, lo avete visto. Quello era il luogo che da tanto tempo stavamo cercando,
una plaga di rocce coperte di timo e di salvia, gettata sopra il mare verso l'orizzonte
lontanissimo. Così semplice, così prezioso, così perfetto. Tutti i libri del mondo, tutte le
parole trascritte o stampate, e tutte quelle che nessuno ha ancora osato scrivere, tutte
le voci erano in quel brullo catino di rocce, e nella bella sorgente che lo ornava. Un'eco
perenne le ripeteva e le recitava. Quei pochi elementi di natura naturante, che
leggevamo certo con i ricordi della letteratura ma che erano vivi e presenti davanti a
noi, erano capaci di restituire un significato anche alle pagine che non avevamo letto,
alle battute che non avevamo ascoltato, alle idee che non avevamo avuto. Lara, non
so cosa ti prese. Lara, perchè non hai saputo resistere alla tentazione del serpente
acquatico ? Quello era il nostro paradiso terrestre. Una sola volta possiamo
incontrarlo. Appena raggiunto, subito perduto. Non somigliava a nessuno dei luoghi
che avevo immaginato. Ricordi, Lara, amata mia ? Ci eravamo messi in testa di
ritrovarlo ad ogni costo, il paradiso Vivarium. Perchè il paradiso è un diritto, e nessuna
colpa può negarlo per sempre all'umanità. Ricordi ? Per tutto l'inverno avevamo
addirittura pianificato la ricerca insieme a tutti gli altri. Riesci a ricordare ?
Guardavamo le diapositive. Ingenui. Sfogliavamo le pagine di Airone e di National
Geographic. Come se si potesse andare verso il paradiso comprando un biglietto in
un'agenzia. Ognuno di noi, come sempre, aveva tratto da quel lunghissimo gioco
conclusioni assai diverse. Monica non aveva dubbi. Il paradiso era un'isola d'amore,
piena di fiori e di profumi, un'isola, perchè la libertà deve poter essere delimitata in
uno spazio fisico, diceva, altrimenti rischia di annegare, di perdersi. Raffaello era
d'accordo, ma avrebbe voluto cercare un luogo mai toccato da mani umane: era certo
che non ce ne fossero più, e preferiva continuare a covare l'eden dentro la sua testa,
per paura di vederlo imbrattato da una lattina di Coca Cola. Per Leonardo era un
palazzo di cristallo capace di contenere l'universo e tutti i mezzi necessari per
analizzarlo, per Michelangelo erano tutte le piazze del mondo dove gli uomini
lottavano per essere liberi, o dove morivano e soffrivano perchè non erano riusciti ad
esserlo. Ma no, dicevo io, Vivarium dovrà essere solo un esempio, un esempio
concreto: non possiamo fingere di costruirlo a Plaza de Majo o davanti alla porta di
Brandeburgo. Non può essere ovunque. Non può essere di tutti. E Donatello mi dava
ragione: per lui era un grande castello dalle porte chiuse, un teatro pieno di oggetti,
dove solo noi potevamo entrare. Tu solamente non pensavi e non dicevi nulla, e noi
tutti credevamo che il tuo silenzio volesse dire che l'utopia non ha bisogno di un
indirizzo e di un numero di telefono per essere resa concreta. Solo del tempo, forse.
Lara, tu sapevi meglio di noi dov'era e cos'era Vivarium, e quando sarebbe stato. Tu
sapevi che era dentro ciascuno di noi. E che si sarebbe avverata per un istante, ridotta
a un attimo di felicità perfetta, trovato per caso senza nemmeno cercarlo. E forse
sapevi già che proprio lì la morte ti aspettava. Era verde come la pelle di un rettile,
quell'acqua sul promontorio: saliva da una spaccatura della roccia e formava una
limpida pozzanghera, tra il timo e la salvia. Non hai detto una parola. Ma abbiamo
capito subito le tue intenzioni, Monica e io. Non era caldo, quel giorno, sembrava
ancora primavera. Con le mani nelle tasche, ti ho guardata con occhi incantati mentre
ti spogliavi delle vesti, senza pudore, senza provocazione. E anche Monica, lo so, ti
guardava con interesse, finalmente silenziosa, rosa fresca aulentissima che nessuno
avrebbe toccato, nè donna per timore di presenze indesiderate, nè uomo mai più,
perchè abbagliato e confuso. Il sole illuminava la tua pelle liscia. Non ho potuto fare a
meno di seguire con gli occhi gli ultimi veli che cadevano e scivolavano sotto il tuo
pube rasato. Allora, solo allora ti ho riconosciuta. Lara, eri tu ? Ti avevo amata quando
eri bambina, e per anni e anni non ero più riuscito a riconoscerti tra le altre mille. Ti
sognavo, un secolo fa. Sognavo che eri in pericolo, ma che ti avrei salvato. Ti vedevo
legata ad un albero scheletrito, avvolta dalle spire di un enorme e orribile drago. Era
notte, ma tantissime stelle illuminavano il cielo e dalla loro luce sembrava venisse una
voce malinconica, che rompeva il silenzio. Io arrivavo volando, cavalcando una
creatura alata, impugnando una grande spada lucente, e colpivo la bestia con forza,
finchè i suoi muscoli si afflosciavano come la gomma di un pallone sgonfio. Allora,
sotto l'albero nasceva l'erba di un prato fiorito, in mezzo alle stelle sgorgava un astro
azzurro e grigio che sembrava sorridesse: tu ti liberavi dai lacci venendomi incontro,
completamente nuda. Non sapevo come fossero fatte le bambine, e non provavo
ancora abbastanza curiosità da intuirlo. Pensavo che fossero quasi come esseri
soprannaturali, rivestiti di uno strato uniforme di pelle morbida e chiarissima, non
profanato da nessuna peluria, nessun capezzolo, nessun orifizio. Ancora oggi, a volte,
penso che le donne siano della stessa sostanza degli angeli, anche se non oso
ammetterlo, per paura che si offendano. Ma tu, liberata dal mostro, nel sogno mi
baciavi sulla bocca, e ricordo perfettamente che quella sensazione, soltanto
immaginata, mi dava ogni volta un brivido che nessun piacere futuro mi avrebbe più
dato. Poi te ne andavi, scomparivi, e per anni e anni non sono più riuscito nemmeno a
sognarti. Ora, davanti ai miei occhi aperti, il tuo corpo chiaro e senza peluria, come
quello che nel sogno vedevo legato all'albero del drago, era disteso in una polla
sgorgata chissà come in cima a una scogliera. E un mostro, un mostro vero lo stava
insidiando, un mostro senza squame e senza fiamme, silenzioso, oscuro, imprendibile.
Nè spada nè lancia avrebbero potuto sconfiggerlo. Non avrei potuto far nulla, anche se
ne avessi intuito l'esistenza. Ho sempre pensato che la morte si potesse ingannare.
Sedendosi di fronte a lei, giocando a scacchi, costringendola ad accettare la sconfitta o
la patta. No, mi sbagliavo. La morte colpisce infiltrandosi negli attimi di piacere,
nascondendo i suoi vermi nell'acqua fresca e chiara, rendendosi invisibile perfino agli
spettatori e ai testimoni. E non uccide subito. Lascia che la sua vittima soffra senza
poter combattere, ridotta a una larva, il corpo livido e osceno, quel corpo che ho visto
splendido e nudo, puro, allora per l'ultima volta, prima dell'agonia. Lara, liberata dalle
mie mani e poi scomparsa, ritrovata nella piscina di un luogo che chiamerò sempre
Vivarium, putrefatta da uno sconosciuto virus o da un perfido veleno salito in
superficie dal profondo della terra di Calabria. Sepolta come il sogno che ci aveva
riuniti per un periodo che non so più quantificare, un decennio, un anno, un inverno,
forse soltanto quei pochi minuti che Monica ed io, per incantamento, assaporammo il
piacere di contemplarti, come una dea, mentre poggiavi la testa sul piacere del bagno,
o come una donna, mentre cominciavi a morire senza saperlo. Sai ? Non ero mai
riuscito a piangere, da grande, ma quel giorno sì, finalmente. Non si diventa adulti se
non si riesce a piangere di gioia. Ho versato lacrime dense e scure, faticose, come le
gocce della resina di un albero, ma ce l'ho fatta. Non so se ero davvero felice. So
soltanto che se ti dicessi che ho avuto il presentimento della tua malattia mentirei col
senno di poi, sapendo di mentire. Il sole era alto, ormai, e irraggiava i sassi e gli
sterpi, luccicava sull'acqua maledetta che ti stringeva e ti avvelenava. Il vento
cominciava a sussurrare le sue sentenze. Non mi è mai piaciuto, il vento. Mi fa paura.
Sento un brivido quando soffia tra i cespugli della macchia. Un brivido improvviso.
E'perfido, il vento. E'come se volesse parlare per dire che qualcosa di terribile sta per
accadere: una catastrofe immane per l'umanità intera, una guerra, la fine del mondo.
Ma non ha il coraggio di farlo apertamente. Quel giorno, più subdolo che mai,
pronunciava la parola morte, l'apocalisse di ognuno di noi. Ma lo faceva con un filo di
voce. Non potevo capire che cosa diceva. Ero distratto. Ero con te. Prima o poi ti
accorgi che quelli che ami sono tanta parte di te che non puoi più morire da loro.
Questo ho pensato quel giorno. Mi sono illuso che il vento mi consigliasse di non
morire da te. E invece mi avvertiva senza il benchè minimo tatto che tu stavi per
morire da me. Poteva dirmelo chiaramente ! Poteva dirmi che era meglio morire
insieme, subito ! Meglio abbracciarti e trascinarti giù dalla rupe, mentre Monica getta
su di noi fiori di salvia e di timo ! Due cose belle ha il mondo: amore e morte. Non
avrei visto la tua lunga agonia. Non avresti vissuto morendo ogni giorno. Ma come si
fa a capire quando è il momento giusto per mettere la parola fine all'esistenza ? Il
vento non è mai chiaro quando parla. Ti illude, ti fa pensare al domani e ai mesi che
saranno, e solo quando è troppo tardi ti rendi conto che tutto doveva finire quel
giorno, che in quell'unico momento avrebbe avuto un senso preciso, che quello era il
finale giusto, un finale grandioso, per il libro mai scritto della nostra vita. Lara,
rispondimi ! Se non puoi nemmeno sentirmi non posso resistere oltre, qui, accanto a
te, accanto a te che non ci sei. Se non puoi più ascoltarmi perchè il male ti ha rubato
anche il cervello, non ce la faccio a sostenere la tua presenza. Lara, non morire ! Sei
giovane per morire. Non è giusto che tu muoia. Non riesco a dirti addio. Non posso
credere che non ti vedrò più. Non ci posso credere ! L'orrore mi sale addosso se lo
penso. Amore mio carissimo dolce adorato. Non morire davanti ai miei occhi ! Prima
voglio raccontarti altre storie, leggerti ancora le poesie che ami, vedere il tuo sorriso
mentre ti parlo e mentre ti addormenti alle carezze delle mie mani sui tuoi capelli. Ille
mi par esse deo videtur. Ti piace, vero ? Ricordi ? Amor ch'a nullo amato amar
perdona. E l'infinita vanità del tutto.
Adam Elsheimer
La fuga in Egitto
Olio su tela
Monaco, Alte Pinakothek
Quel brutto edificio, prima di diventare un ospedale, era stato una caserma. E prima
ancora era stato una scuola. E prima ancora un monastero. Ma nessuno sa cosa ci
fosse in quel luogo ancora prima. Se una basilica o un tempio, oppure soltanto un
prato, un bosco, la fredda terra, o neppure quella. Uscendo correndo sul retro
dell'ospedale, Matteo cercò di intuire in quale direzione si fosse mosso Scalabrino. Lo
aveva perso completamente di vista già alla fine della rampa delle scale, e una volta
all'aperto si accorse di non possedere alcun indizio per seguirne i passi. Così si fermò.
Un sipario di alberi scuri chiudeva l'orizzonte. Nella loro ombra viola rivide
l'espressione di Scalabrino apparire e sparire come il lampo di una lucciola, i suoi
singhiozzi inghiottiti, lo sforzo di dignità che aveva accompagnato ogni sua ultima
parola a Lara, e si fece un'idea di che cosa fosse la malinconia. Non ne aveva mai
preso in considerazione la vera natura, prima di allora. La tristezza, forse, ma non la
malinconia, beato ragazzo innocente. Ora ne avvertiva chiaramente il peso, lo
spessore, la consistenza, e forse non sarebbe mai più riuscito a descriverla meglio di
quanto non esprimesse in quel momento quell'attimo di vuoto. Si disse che
effettivamente conosceva Scalabrino molto meno bene di quanto avesse pensato, e
constatò che non aveva mai visto prima, benchè gli sembrasse impossibile e assurdo,
quella donna senza età sfigurata dalla malattia, abbandonata in quel letto d'alluminio,
la cui morte era diventata col tempo il ritornello di una macabra canzone. Matteo
rimase a lungo immobile all'uscita dell'ospedale. Si disse ancora che non avrebbe
potuto dimenticare facilmente il gesto improvviso di quell'uomo divorato dal dolore
che, cercando di non versare una lacrima, gli era passato accanto mentre fuggiva via,
senza nemmeno riconoscerlo, allontanandosi nel corridoio come un fantasma. Nè
l'antica pietà di Lara, che lo chiamava con un filo di voce, e che lo pregava di ritrovare
Scalabrino, per lei, e di consegnargli una certa videocassetta. Non era consolante
saperla ancora viva, per poco. Matteo si guardò intorno e osservò la custodia senza
etichetta che stringeva nella mano fasciata. Anonima e nera. VHS. Contenuto ignoto.
Si sentì importante. Era lui il messaggero d'amore. L'unico filo sottile che poteva
ancora legare due persone separate dalla sorte. Due esseri umani che stavano
scontando la condanna della sfortuna e della disperazione più di quanto non
meritassero quelli infinitamente peggiori di loro, ammesso che esistano delitti così
gravi da meritare una simile pena. Si guardò ancora intorno. Riconobbe il
parallelepipedo bianco e azzurro dell'ospedale, le sagome dei palazzi e delle torri in
lontananza, le vetrine illuminate delle tabaccherie e dei fiorai, le fredde campane verdi
per la raccolta del vetro, ed ebbe una volta di più, ma questa volta nettissima, la
sensazione che, quanto a Scalabrino, non lo avrebbe mai più ritrovato. Tuttavia non si
arrese prima di aver tentato, e cominciò a chiedere ai portantini e agli addetti alla
sbarra del piazzale, agli elicotteristi della Protezione Civile e a un anestesista che si
stava riposando al bar durante la pausa di una lunga e difficile operazione, se per caso
avevano notato un uomo interamente vestito di nero, che sembrava quasi un corvo,
dall'espressione sconvolta e dall'aria così cupa che lo avrebbe notato perfino il più
distratto dei passanti. Non ottenne risposte soddisfacenti. Ma un ignoto testimone gli
disse che, forse, gli era sembrato di aver visto un tale che probabilmente
corrispondeva alla descrizione salire su una grande cabriolet bianca parcheggiata
lungo la strada e allontanarsi rapidamente, ma senza che le gomme stridessero o che
il rombo del motore superasse il sibilo del minimo. Inopinatamente, Matteo immaginò
la folle corsa del veicolo per le strade e per le piazze, una lunga teoria di semafori
rossi violati, un inseguimento, e ne dedusse che Scalabrino aveva lasciato la città,
forse per non tornare mai più. Cercò, per la seconda volta, di intuire la direzione del
suo percorso, e gli sembrò di vedere la macchina bianca, inondata di vento, scivolare
leggera come una nuvola di Scandinavia tra alberi e prati, seguendo silenziosamente
traiettorie ineccepibili. Ma si rese conto che la sua fantasia non andava oltre il ricordo
dello spot pubblicitario della nuova Audi con marmitta catalitica a tre vie o della
Renault Clio sedici valvole. Il fatto è che non riusciva ad intuire nient'altro, neppure
sforzandosi di valutare tutto ciò che lui stesso avrebbe fatto in una situazione simile.
Non concepiva una situazione simile. Semplicemente. E sapeva che non avrebbe
potuto inseguirlo, personalmente. E che, anche se avesse potuto, sarebbe stato vano.
Intanto le fronde degli alberi del parcheggio erano diventate più scure. Le automobili
partivano accendendo i fari e i coni di luce colpivano implacabili la superficie delle
foglie. A quell'ora, Lara sarà già morta. Non importa come e quando, ma doveva
assolutamente ritrovarlo, per lei, per lui. Pensò ad una strada che correva verso le
colline tra le querce e i noccioli, sfiorando le case di pietra erette tra i pali di legno del
telefono. Sapeva che Scalabrino amava quella strada. Sempre deserta, molto vicina
alla città, eppure così bella da sembrare lontanissima. Un luogo surreale, l'aveva
definita. In marzo si vedevano ancora i segni dell'inverno nelle foglie annerite, mentre
gli olivi erano già verdi come l'estate, i campi solcati dalle fenditure dell'aratro, come
in autunno, e una primavera di fiori rosa spuntava nel bosco, forse perchè qualche
albero da frutto era finito per caso in mezzo alla macchia incolta, o perchè il genio dei
vecchi contadini era riuscito a ritagliare un pezzo di terra anche all'interno della selva
più oscura. In giugno i campi erano solcati da una via lattea di fiordalisi. Rocce
rotonde. Vigneti perfetti. Pochi paesi costruiti sulla cima delle vette, attorno alle torri
dei castelli, guardiani di un'armonia che è costata secoli di sudore e di fatica, e che
non deve andare dispersa. Gente di razze diverse, gli aveva detto una volta, dovrebbe
venire qui, e limitarsi a contemplare. Imparerebbero a tenersi per mano. Basterebbe a
guarirli dall'angoscia, dare conforto alle ferite eterne. Vorrei portarci Lara, prima che
muoia. Qui l'ho conosciuta. Mentre i papaveri chiudevano i petali ai primi raggi verdi
della Luna. Ora, sapendo tutto questo, per quale ragione Matteo non avrebbe dovuto
credere che Scalabrino fosse fuggito a tetto scoperto lungo le curve di quella strada
per apprezzarne ancora una volta, nel suo dolore, la straordinaria bellezza ?
Finalmente una traccia, concluse Matteo. C'è speranza di ritrovarlo, allora. Ci vuole
solo un piano, un ragionamento. Si sentì ancora di più importante. Raddrizzò le spalle.
Fece qualche passo verso casa. Anche la ferita era già guarita, e la mano non gli
faceva più male.
Albrecht Altdorfer
La battaglia di Alessandro e Dario a Isso
Olio su tavola
Monaco, Alte Pinakotheck
Una volta al riparo tra le mura di casa, Matteo prese una mappa della zona, la aprì, la
distese per terra, individuò la strada e si sforzò di riflettere. Pensò che se l'avesse
evidenziata seguendone il tracciato con una penna avrebbe potuto capire meglio dove
si trovava esattamente Scalabrino. Chissà perchè gli venne in mente una cosa simile.
Da bambino ingannava il tempo scarabocchiando sulle carte dei libri di geografia le
linee di improbabili viaggi, colorando strade e sentieri, tracciando talvolta percorsi
sconosciuti sulle montagne e lungo le coste, o rotte non battute tra la terraferma e le
isole, linee fatte di minuscoli puntolini, sequenze di sagome di automobili, processioni
di navi, moltitudini di piccoli uomini, battaglie simulate. Ma erano passati parecchi
anni da quei segni senza senso. Ora aveva uno scopo, e tutto sarebbe stato diverso.
Appoggiò la punta di feltro sul puntolino che indicava la città e partì. La via degli olivi
e dei vigneti era più lunga di quello che aveva creduto. Tra curve e tornanti saliva fino
al valico e si perdeva poi verso il confine. Frugò tra i cassetti per cercare una mappa
più grande, ma trovò soltanto un planisfero in scala troppo elevata per riportare il
percorso di una provinciale. Gli fu sufficiente guardarla distrattamente per capire come
sono vasti i continenti: la geografia è spietata, non permette deduzioni coerenti.
Scalabrino poteva essere ovunque. Averlo creduto così vicino era stata solo una facile
illusione. Era un uomo irrequieto. Non era possibile ragionare come lui. E Matteo,
bambino adolescente, lui stesso si accorse che avrebbe preferito inseguirlo fino alla
fine del mondo lasciando sfilare i paesaggi che non conosceva e che aveva sempre
sognato di vedere con i suoi occhi, piuttosto che saperlo ancora nei dintorni. Così si
mise a disegnare sul planisfero infiniti viaggi alla ricerca dell'amico scomparso,
lasciando cadere ogni ipotesi, lasciando crescere ogni desiderio. Partì per caso dal
porto gelato di Tallin, e in linea retta attraversò il mar Baltico verso Helsinki, e poi fino
alla piatta isola di Gotland. Provò nel frattempo a percorrere tutte le strade
dell'Appennino fino al passo del Bracco, e a costeggiare la Liguria lungo la vecchia
statale evidenziata in rosso, tracciando sopra di essa una linea blu che ne seguiva
fedelmente il percorso, fino all'inizio della Francia. In treno, partì da Bombay e si
diresse verso Solapur. Attraversò diagonalmente l'Andhra Pradesh, risalendo poi verso
Vishakhapatnam, Bhubaneshwar e Calcutta. Intanto volava lungo un meridiano da
Cleveland a Guayaquil, senza scalo. Riprese la nave per infilarsi come un bruco
ubriaco tra le isolette della Danimarca, attraversando lo stretto tra Goteborg e
Frederikhshavn. Nel mare del Nord si fermò indeciso sulla direzione da prendere, e si
portò girovagando su una fossa profonda appena centodieci metri, al centro esatto del
bacino, per puntare poi, tornando quasi indietro, sulla banchina norvegese di Bergen,
e da lì saltare dritto alle Shetland, che circumnavigò con leggerezza, e alle Faroer,
dove decise, per il momento, di attraccare. Segnò di azzurro con molta facilità le
autostrade del mezzogiorno francese, passando lontano da Marsiglia. Però raggiunse
Avignone e Montpellier, dove volle deviare verso nord, fino a Clermont-Ferrand e a
Tours. Una stradina segnata in bianco lo portò a Nantes, e una rossa fino a Brest,
dove fu costretto a tornare indietro, per recarsi in Spagna. Di nuovo a Nantes, ma
senza che il segno della penna potesse esprimere il tratto Nantes-Brest come una
andata e ritorno, scese a sud fino a Bordeaux, e si infilò tra le montagne e le
coltivazioni, verso Toulouse. Riprese la larga autostrada poco prima di Perpignan. In
Spagna voleva arrivare costeggiando il mare, in Catalogna, a Barcellona. In aereo
ripartì da Cleveland, e tracciò una linea curva come quella di un parallelo proiettato
sul piano, fino ad Anchorage, il più lontano scalo dell'Alaska. Tornò in India. Se il
tracciato che stava seguendo era quello di una ferrovia, da Calcutta doveva andare
verso Benares. Da lì seguì il sacro Gange fino a Patna, e ripassò con un feltro verde
l'itinerario rosso scuro che da quell'ultima città saliva verso l'Himalaya, a Kathmandu.
Reali brividi di freddo e di fatica lo accompagnarono nella ricerca di una via per il
Tibet, e fu costretto due volte a cambiare penna, per poter soprascrivere tracciati che
erano neri e sottili come capelli caduti. Arrivò a Xigazè e a Lhasa, e pensò di
proseguire a dorso di cammello, seguendo piste inesistenti sugli altipiani disabitati,
liberissime onde che lo condussero a Hotan, dove stimò più prudente riprendere la
ferrovia, o sentiero che fosse, fino a Kashi, prima di varcare la frontiera in una zona
dove i confini delle regioni si distinguevano a fatica tra infiniti ricami di piccoli punti e
linee interrotte, quasi un messaggio cifrato ombreggiato di viola. Tornò in Catalogna.
La carta era molto precisa per quella regione, e riuscì a tracciare un lungo viaggio
iberico. Da Barcellona costeggiò fino a Tarragona, poi risalì l'Ebro deviando per Lerida
e ritornando lungo il fiume a Zaragoza. Da Zaragoza si diresse verso Madrid,
attraversando Calatayud e Guadalajara. Intorno a Madrid perse del tempo inanellando
in un serpente di strade Aranjuez, Toledo, l'Escorial, Segovia e le montagne della
Sierra Guadarrama. A quel punto il suo itinerario si divideva per esplorare in due
diverse direzioni. Verso nord raggiungeva Valladolid, Burgos, Santander e Oviedo, su
piccole strade appena accennate, e proseguiva lungo i fiordi della costa e gli altopiani
disabitati delle Asturie e della Galizia, fino a La Coruna, Santiago de Compostela e
capo Finisterre, là dove una nave l'avrebbe aspettato. A sud andava dritto verso
Cuenca, seguendo le tortuose curve delle strade della Sierra, scendeva verso il
Mediterraneo a Valencia, e seguiva la costa dell'Andalusia, fermandosi ad Alicante, a
Cartagena, ad Almeria e a Malaga, ma solo dopo una deviazione per Granada. Da
Malaga non fu facile seguire le tante strade che portano a Siviglia. Dalla capitale
andalusa, infine, scese in autostrada a Jerez e a Cadice, colorando la mappa di verde,
e si diresse verso Gibilterra e Algeciras, per passare in Africa via mare, in senso
opposto rispetto ai mori invasori ai tempi di Carlo Magno. La nave intanto aveva
lasciato le Faroer per recuperare la carovana ferma nell'occidente dell'Europa. Aveva
quasi totalmente circumnavigato l'Islanda e poi, in linea retta, aveva puntato sullo
scoglio di Rockall. Da lì era tornata verso le isole britanniche, passando in mezzo alle
Ebridi e facendo piccolo cabotaggio nel mare interno, tra Londonderry, Belfast,
Dublino, Liverpool e Cork. Da Cork arrivò a Finisterre con un unico balzo a forma di S
rovesciata, lasciando sulla sinistra, molto lontana, la Cornovaglia, ed evitando del
tutto il golfo di Biscaglia. Ritornando nell'Asia centrale, disegnò tutti i tornanti delle
piste del Pamir, fino a Dusambè, e risalì fino alla vicina, mitica Samarcanda, a
Bukhara, a Nukus e a Mujnak, sulle rive del lago di Aral. Qui la strada si interrompeva.
Decise di attraversare la steppa fino al mar Caspio, e traghettare con mezzi di fortuna
e in linea assolutamente retta verso la punta di Baku. Tagliò anche il Caucaso, salendo
sui suoi contrafforti antichissimi, per Tbilisi, e verso il confine con la Turchia, cercando
invano un sentiero per i laghi di Van, una pista che fu costretto a inventare seguendo
le curve altimetriche dell'Anatolia. Piccole strade appena accennate sulla carta lo
condussero verso occidente, ad Adana. Ma il loro percorso si interrompeva ancora una
volta. Allora decise di puntare verso sud, e anzichè la più facile via costiera scelse una
strada interna, forse una via ferrata, che passava per Hims, per Damasco, Amman, le
rovine di Petra, Tabuk, e giù giù per il deserto arabico, Medina e Jeddah, prima di
arrivare alla sacra città della Mecca. Poi, ancora a sud, verso lo Yemen, deviando per
San'a e raggiungendo Aden. Recuperò una parte di sè stesso in Alaska, per esplorare i
costoni dello Yukon. Passò accanto al McKinley e seguì la strada fino a Fairbanks. Poi,
tratteggiandone il contorno di viola, scese un torrente fino al grande fiume dei
cercatori d'oro, e risalì la corrente nello stesso modo fino a Fort Yukon e a Dawson. Lì
ritrovò una comoda strada, lunghissima, curva e probabilmente deserta, e scese verso
sud attraverso Whitehorse, Watson Lake e Prince George. Voleva a tutti i costi
raggiungere Vancouver. Nell'isola di fronte alla baia segnò in nero l'unica strada che
congiungeva Victoria a Port Hardy. Entrò negli States a Seattle, e lasciò la via della
California per ripercorrere le cavalcate delle giacche azzurre, la cattiveria dei pistoleros
e le fughe degli indiani, attraversando sulle grandi e rettilinee freeways o su per le
montagne dominate dai geysers e solcate dai canyons l'Idaho, il Montana, il Dakota, il
Nebraska, il Wyoming, il Colorado, lo Utah, l'Arizona e il New Mexico. Si sentì molto
stanco quando si fermò a El Paso, e aveva sete. In nave, studiò una rotta di
attraversamento dell'Atlantico, dopo aver percorso brevi tratti, secchi come archi tesi,
pronti a scoccare la freccia dell'occidente, da Finisterre a Coimbra, e da Coimbra a
Lisbona. Scelse la via delle Azzorre, dove arrivò in un solo colpo, tracciando la rotta
con la squadra. Ma dalle Azzorre preferì limitare i rischi del mar dei Sargassi ed
accorciare la traversata verso Saint John's di Terranova e Saint Pierre et Miquelon.
Ancora in navigazione per Halifax, per osare, anzichè costeggiare l'America, puntare
verso Bermuda, dritto al cuore del suo triangolo magnetico maledetto. Se non si
fossero verificati incidenti, sarebbe arrivato a Turks & Caicos, e avrebbe
circumnavigato Cuba seguendo il limite delle sue acque territoriali. Nei Caraibi la
navigazione diventò un serpente snodato tra infinite tappe, da Cayman a Jamaica, da
Jamaica a Port-au-Prince, e così via, fino a Trinidad, toccando Puerto Rico, Anguilla,
Saint Cristopher & Nevis, Antigua, Guadaloupe, Dominica, Martinica, Barbados,
Grenada e Tobago. Allora si ricordò di essere sbarcato in Africa, dove proseguì da
Ceuta per Tangeri, costeggiando l'Atlantico bagnato dal deserto sahariano.
Opportunamente attrezzato, si diresse verso Rabat e Casablanca, Safi e Agadir, per
poi addentrarsi nell'interno, passando a tutti i costi da Marrakesh. La strada si perdeva
dopo la città imperiale, e per poter tracciare un itinerario cominciò a vagare con una
penna fosforescente in mezzo al deserto e alle antiche montagne della paura. Seguì il
corso asciutto della fiumara di Draa, raggiunse Tindouf, e puntò bruscamente a nord,
verso l'Atlante. Da Langhouat una strada gli permise di affiancare il grande Erg e di
tornare a sud. Poi, nuovamente in mezzo al deserto, superando su piste inesistenti il
Tassili e l'Ahaggar, in cerca di una carovana per Gao e Timbouctou. Risalì il corso del
Niger, e poco prima della sorgente, insolitamente vicina alla costa, come se il fiume
volesse voltare le spalle al mare, trovò la via degli schiavi, che seguì volentieri in
direzione della Costa d'Avorio, toccando Abidjan e proseguendo per Accra, Lomè, Porto
Novo e Lagos. Non volendo nuovamente incontrare il fiume Niger, decise di imbarcarsi
per le isole disperse tra l'equatore e il tropico del Capricorno. Senza mai seguire rotte
diritte e brevi, ma anzi lasciandosi cullare dall'oceano e dalle dorsali delle sue
profondità, navigò a Sao Tomè, ad Ascension e a Sant'Elena, dove decise di fermarsi
momentaneamente. Nel cuore dell'Africa rientrò traghettando da Aden a Djibouti,
mentre un'altra nave proseguiva per lo scoglio di Socotra, al largo della Somalia,
scendeva a Zanzibar, passava in mezzo alle Comore e al canale di Mozambico e, dopo
aver veleggiato al largo della costa meridionale del Madagascar, faceva scalo a
Reunion. Da Djibuti, con mezzi di fortuna, si diresse verso Addis Abeba e inventò
percorsi difficili nelle forre abissine, pur di arrivare a Juba e risalire il Nilo fino al lago
Vittoria e alle Montagne della Luna. Seguì il suo perimetro per intero, a piedi, e riprese
il suo mezzo di trasporto nel luogo dove l'aveva lasciato, da dove partì per le savane
del Kilimanjaro, tornando però verso le giungle grazie ad un sentiero che, dopo aver
puntato a sud, risaliva verso l'equatore costeggiando in alto il lago Tanganyika, e dopo
Bujumbura e Kigali arrivava quasi sotto il Ruwenzori. Una piccola deviazione gli
consentì di trovare un comodo affluente dello Zaire. Tracciando segni impercettibili,
come le macchie di una canoa azzurra, discese quel larghissimo fiume fino a Kinshasa,
dove imboccò la strada per Luanda. Girovagò senza meta e senza sosta per l'Angola,
per il Kalahari e per il Namib, e per quanto odiasse il Sudafrica non potè fare a meno
di arrivare fino al Capo di Buona Speranza. Fu proprio lì, così lontano, che si accorse di
aver trascurato l'Europa. Cercò dunque di riprodurre sulla mappa i viaggi già tracciati
nella sua mente. Uno attraversava il Brennero, toccava Innsbruck, Garmisch, Murnau
e Munchen. In treno, cambiando più volte, si andava fino a Ravensburg, il paese dei
giocattoli, e in macchina si percorreva poi la Romantischer Strasse, per seguirla tutta,
da Neuschwanstein a Schongau, Augsburg e Wurzburg. Da Wurzburg un'autostrada
portava a Stuttgart, da dove, in un corto reticolo di strade verdi, si procedeva per
Baden-Baden e si seguiva il Reno fino a Dusseldorf, toccando naturalmente
Heidelberg, deviando per Francoforte e fermandosi a Wiesbaden, Koblenza e Colonia.
Da Dusseldorf era più agevole seguire il tracciato della ferrovia. Lo evidenziò in rosa,
per Dortmund, Brema e Amburgo. Poi, sempre in treno, proseguì per la Danimarca,
toccando prima Lubecca e traghettando per Lolland e Copenhagen. Il viaggio non
terminava, e non si ricongiungeva con quello della nave baltica, che passava proprio di
fronte. Colorò invece di rosso vivo infinite stradine dello Jutland, e tornò indietro
attraverso tutta la Germania, evitando le grandi città grazie alle molte deviazioni
possibili su quegli itinerari secondari che tagliavano dritti da Kiel a Lunenburg, e poi
toccavano Wolfsburg, Braunschweig, Hildesheim, Gottingen, Kassel, Fulda, Bamberg e
Bayreuth, per finire improvvisamente a Norimberga, e volare, da lì, in linea
assolutamente retta, a Berlino. Un altro itinerario, solo teoricamente percorribile in
base alle indicazioni di quella carta, avrebbe dovuto uscire dall'Italia al passo di
Tarvisio, e dopo aver oltrepassato Graz e Vienna, da dove una provvidenziale
deviazione conduceva a Bratislava e a Budapest, tornare su sè stesso, salendo verso
Praga attraverso i Sudeti e penetrando in Polonia zigzagando come i cavalli ubriachi
dei soldati austroungarici sconfitti, tra Wroclaw e Cracovia, Lublino, Varsavia e
Danzica. In automobile, seguendo quelle che sulla carta apparivano come strade,
colorando di nero quelle rosse e di azzurro quelle bianche o gialle, il viaggio
proseguiva per Vilnius e per Leningrado. Poi scendeva verso Mosca, dove si divideva in
due tronconi. Il primo si dirigeva a Kiev e a Odessa, e si imbarcava in una rotta
interna del Mar Nero, per Sebastopoli e Jalta, puntando infine verso la Georgia. Il
secondo non poteva resistere alla tentazione di seguire l'intero, esile tracciato della
ferrovia transiberiana, che volle evidenziare con un grosso pennarello giallo. Oltre
Kazan, fu possibile recuperare l'itinerario interrotto nelle steppe, ed estendere il
viaggio a tutta l'Asia centrale, attraverso Sverdlovsk, Omsk, Novosibirsk, Krasnojarsk,
Irkutsk, il lago Bajkal, Cita e via via, lungo l'Amur, fino a Vladivostok. Tornato a
Sant'Elena, fece partire dalla fossa di Napoleone due linee aeree lunghe e diritte, una
per Tristan da Cunha, una per le isole Falkland. Dalle Malvine un breve volo lo portò a
Ushuaia, tra i venti della terra del fuoco. Invano cercò sulla mappa il Cerro Torre.
Ripartì allora per mare seguendo un itinerario quanto mai insolito, del quale non
poteva sospettare la pericolosità. Da Ushuaia salpò verso Ovest, ma piegò subito dopo
il canale a sud, e doppiò Capo Horn al modo dei navigatori, seguendo poi la costa a
nord-ovest ed entrando nello stretto di Magellano. Seguì la striscia celeste dell'oceano
in mezzo alle isole e agli scogli, doppiando altre punte e infilandosi nei fiordi, risalendo
così una buona metà del Cile, con uno scalo a Puerto Montt. In modo più semplice,
anche se non in linea retta, arrivò a Valparaiso, e affrontò finalmente l'aperto Pacifico,
con infinite linee di varie forme e colori. Da Valparaiso ad un punto chiamato isola
Robinson Crusoe, da lì alle Islas Desventuradas. Un lungo tratto per le Galapagos,
culla dell'evoluzione. Poi di nuovo al di sotto del tropico, all'isola di Pasqua, e verso
l'Australia, a Pitcairn. Dallo scoglio degli ammutinati le rotte si trasformarono in
disegni a mano libera, tra atolli e arcipelaghi, toccando la nucleare Mururoa, l'atollo
del Duca di Gloucester, Bora-Bora, Rangiroa, Nuku-Hiva, Flint, Manihiki, Aitutaki,
Niue, Tonga, Fiji, Futuna e Wallis, tutti i puntini delle Samoa e delle Tokelau, poi
Phoenix, Bikini, e infine Okinawa. In aereo, da Fiji, collegò con tratti di sola andata,
come i petali di un mazzo di fiori, Nauru, Guadalcanal, Papua (per la precisione Port
Moresby), l'unica città segnalata nelle Vanuatu (una certa Vila), Noumea, Norfolk,
Auckland e il cuore della Tasmania. Da Okinawa volò a Shangai, e risalì lo Yang-Tze
finchè non trovò una strada che poteva portarlo in Birmania e che colorò di smeraldo.
Proseguì, fermandosi a Mandalay, per la Thailandia, toccando solo Chang Mai e i
templi cambogiani di Angkor, tornando poi sui suoi passi quanto bastava per seguire il
budello della Malacca fino a Singapore, che ritenne molto opportuno usare come base
per l'esplorazione dei mari della Sonda e dei cieli del Sud Est. Nel frattempo aveva
recuperato la sua mandria ferma al confine con il Messico: tracciò i percorsi delle
sierras e delle giungle, sempre più a sud, verso l'imbuto di Panama, passando per
Chihuahua, Monterrey, Teotihuacan, Mexico City, Veracruz, e percorrendo l'intero
perimetro dello Yucatan, Villahermosa, Merida, Cancun, Chichen Ytza. Poi trovò
soltanto una stradina per Belize, che non andava oltre, e immaginò una rotta aerea
che congiungeva l'antica capitale dei pirati, chissà perchè, a New Orleans. A
Guatemala arrivò da sud, recuperando uno dei suoi percorsi non ultimati, quello
ancora fermo a Trinidad. Si lasciò guidare attraverso il Venezuela, dall'Orinoco fino a
Ciudad Bolivar, percorrendo poi il braccio del fiume che passa vicino alla laguna di
Maracaibo. Seguì l'illogica strada di Barranquilla e di Medellin, e immaginò un cartello
che segnalava le due direzioni della Panamericana. Verso nord la lasciò scorrere fino a
Guatemala e non oltre, toccando lo stretto di Panama, San Josè di Costarica, Managua
e San Salvador. Verso sud scelse due percorsi. Uno lungo la grande arteria, per Calì,
Quito e Guayaquil, dove ritrovò il volo per Cleveland. Poi, sempre più a sud, seguendo
le Ande, a Trujillo, Lima, Nazca, Machu Picchu, Cuzco, l'altopiano del Titicaca, La Paz e
la cima dell'Illimani. Per il resto non potè far altro che lasciarsi trasportare dalla
corrente dei grandi fiumi. Poco dopo Bogotà trovò un affluente del Rio delle Amazzoni,
che lo portò fino al mare, da dove navigò verso La Cayenna, Paramaribo, e
nuovamente a Trinidad. Ma seguì anche lo Xingu, il Guaporè, il Sao Francisco, il
Paranà, trovando facilmente, vicino alle sorgenti, ipotesi di sentieri che ne
ricongiungevano l'alveo anche attraverso le giungle o le praterie. Le uniche strade che
segnò con una qualsiasi delle sue penne furono Buenos Aires - Santiago - Valparaiso,
Buenos Aires - penisola di Valdes - Punta Arenas, Buenos Aires - Santa Fè - Asuncion Iguazù - Sao Paulo - Belo Horizonte - Brasilia - Belem. Non gli importava nulla di
lasciare il Sudamerica così palesemente incompiuto sulla proiezione di Mercatore,
senza che alcuna via arrivasse ad una destinazione. Preferì tornare ad occuparsi
dell'Asia, dove era fermo a Singapore. In volo fu a Mindanao, Manila e Taipei, su fragili
giunche navigò tra gli squali e i pirati, fino a Brunei, e dopo il giro completo del
Borneo immenso e selvaggio fu a Sulawesi, Timor, Flores, Surabaya, Jakarta,
Krakatoa, Christmas, Cocos e Perth. Intuì che avrebbe potuto ancora ritrovare la sua
nave ferma a Reunion, e che non sarebbe stato difficile farla arrivare tra le macchine
fotografiche e il caucciù, con tappe a Diego Garcia, Sri Lanka, alle Andamane, alle
Nicobare e lungo le coste di Sumatra. L'Australia l'attraversò ripartendo dalla
Tasmania, e volando per un breve tratto fino a Melbourne. Toccò le città della costa
orientale, Canberra, Sidney e Brisbane, e subito dopo puntò verso l'interno, attirato
inesorabilmente da Alice Springs, dove si poteva arrivare con una strada, benchè con
molte deviazioni, e senza seguire la via più breve. Dal deserto rosso a Perth non c'era
altro che un foglio bianco, e potè permettersi di scarabocchiarci sopra un itinerario
impossibile. Chissà dov'era Ayers Rock ? Tornò infine a Vladivostok. Dall'ultimo porto
russo decise che non sarebbe stato vano attraversare il mare con una doppia curva
per approdare nell'isola di Hokkaido. Da Sapporo, salì sulle veloci linee ferroviarie
giapponesi, ignorando i fondali marini, forse serviti da tunnel o da lunghissimi ponti,
per Tokyo, Yokohama, Osaka, Kyoto, Kobe e Hiroshima. Fu necessaria una penna
molto sottile per attraversare le isolette che separano la città atomica da Pusan. Tra le
due Coree sembrava che non mancassero le strade. Seoul, Pyongyang, e ancora più a
nord, la Manciuria, senza però raggiungere Harbin, che immaginava come una scura e
fumosa città industriale. Meglio Changchun, scendendo poi a Shenyang e a
Qinhuangdao, e camminando lungo tutta la grande muraglia, inventando i sentieri che
ne ricongiungono i tratti superstiti, passando alla distanza giusta da Pechino. Dalla
regione di Kansu il cammino diventava incerto, e sarebbe stata necessaria la guida di
un cavaliere mongolo per trovare un itinerario che potesse sembrare logico nel vuoto
assoluto del Gobi, dove solo pochissime demarcazioni tra stati e regioni gli fecero da
punti di riferimento per un tracciato non troppo tortuoso ma nemmeno troppo
rettilineo. A Ulan Bator doveva pur esserci un aeroporto, per decollare verso Karachi,
indugiando sulle montagne del Tian Shan e sull'altopiano del Sinkiang, e poi,
seguendo rotte aeree più dritte ed eleganti, ripartire per Kabul. Le vie della seta e
delle spezie, delle droghe e dei tappeti, erano forse quelle tremolanti strisce che dal
cuore dell'Afghanistan scendevano a sud-ovest verso Qandahar ? Tracciò una pista
lungo un corso d'acqua senza nome, fino a due strani laghetti sospesi. Prese una
strada, ma solo per pochissimi centimetri. A Kerman puntò verso Bandar Abbas, e poi
fu nuovamente costretto a inventare una pista per Shiraz. Per quanto illogica potesse
sembrare, l'unica strada segnalata riuscì a condurlo a Esfahan, alla città sacra di Qom,
ad Hamadan, a Bakhtaran e a quello che rimaneva di Bagdad. Risalì il Tigri fino a
Mosul, e con un'arco tratteggiato, sottilissimo, incrociò il suo stesso percorso
anatolico, per ricominciare ad Ankara. Si diresse verso Istanbul, ma con un largo giro,
passando da Izmir, da Efeso, da Pergamo, Hissarlik e Bursa. I bollenti Balcani gli
apparvero incontaminati. Ricominciò da Bisanzio, e seguì le strade turche e greche
fino a Thessaloniki. Senza sapere perchè, nè come, evidenziò l'intero perimetro
frastagliatissimo di tutte le dita della penisola Calcidica, compreso il monte Athos. Poi
aggirò l'Olimpo, e scavalcò il Metsovon per imbarcarsi a Igoumenitsa verso la collana
di perle dell'arcipelago: inanellò Corfù, Azio, la rupe dell'isola di Leucade, Itaca,
Cefalonia dai sacri serpenti e Zacinto, fior di Levante. Poi, indeciso sul da farsi, volle
ricollegare Vladivostok all'Alaska, volando nella Kamchatka, seguendo l'unica strada
esistente in quella parte di mondo da Petropavlovsk a Ust, e proseguendo per
Anchorage grazie ad un sorriso aperto sui ghiacci del mare, smagliante dei bianchi
denti delle isole Aleutine. Da Berlino, invece, volò a Londra e a Parigi, a Varsavia, a
Belgrado, a Zagabria, e, inaspettatamente, ad Hammerfest, vicino a Capo Nord, e da lì
alle Sptitsbergen, da dove, con un grande balzo per la rotta polare, finì addirittura a
Montreal, e subito dopo a Chicago. Dalle fabbriche di automobili fece partire un
viaggio circolare nel cuore dell'America degli autobus, che toccò Chicago, Saint Louis,
Memphis, Dallas, Houston, New Orleans, Atlanta, Washington, Philadelphia, New York,
Boston, Buffalo e, naturalmente, Cleveland. Volle infine rivedere le sacre sponde, e da
Zacinto tornò nel continente ellenico, a Patrasso, attraversò nel punto più stretto il
golfo, tra Rio e Antirio, e disegnò le anse delle strade del Parnaso e dell'Elicona, da
Delfi alla spaccatura delle Termopili. Poi fu a Tebe e presso i megaresi, per stradine
secondarie, prima di arrivare ad Atene. Immaginando idealmente di girare intorno
all'Acropoli, uscì dalla città verso il canale di Corinto, e si infilò nell'Argolide, deviando
per alcuni millimetri, in cerca di Micene, di Argo, di Tirinto, di Epidauro, di Nemea.
Andò a sud, per Sparta e per Githion, dove potè imbarcarsi per Citera. Come gemme
sulla veste di un San Demetrio, ricamò le rotte già tracciate dagli armatori tra le
infinite isole e i vulcani dell'Egeo. Evitando i luoghi più frequentati e lasciandosi
guidare dalla sinuosità del segno, toccò Creta in tre punti, a Chania, Rethimnon e
Iraklion. Poi Thira, Ios, il rifugio di Omero, Naxos, croce e delizia della bella Arianna,
la marmorea Paros, Sikinos, Folegandros, Sifnos, Kimolos, Milos, Serifos la multiforme
dalla faccia di Gorgone, Kithnos, Tinos, Andros e tutto il canale interno del cetriolo di
Eubea, passando tra i vortici di Calcide e risalendo verso il promontorio dell'Artemisio,
per Skopelos, Alonissos, Ghiura e Psathura. In un balzo fu a Samotracia, poi a
Lemnos, Lesbo, Chio e Samo, e ancora a Patmos, rossa dimora dell'Apocalisse, a
Kalymnos, alla farfalla di Stampalia, alla salubre Kos. Con un altro balzo fu a
Karpathos, sfiorando però gli scogli di Tria Nissia. Poi a Rodi, che toccò solo a Lindos,
e a Castelrosso, senza mai stancarsi di ricamare brevi percorsi tra quelle isole senza
tempo. Infine, puntò dritto verso Cipro, cercando invano una nota sulla spiaggia di
Afrodite, e soltanto ad Alessandria, immaginandola nelle nebbie e nelle luci dei fari,
decise di sbarcare. Il Nilo fu risalito con una linea gialla solo fino ad Abu Simbel, per
tornare subito ad Alessandria e riprendere la nave, che continuò a girovagare nel
Mediterraneo, toccando Tobruk, Tunisi e Algeri la bianca, Melilla e le colonne d'Ercole.
Solo in quel punto la sua penna si staccò dal planisfero. Non riusciva più a
comprendere dove si trovasse realmente in quel momento, ma si sentiva
stanchissimo, come se avesse veramente percorso migliaia e migliaia di chilometri.
Guardò attentamente la mappa scarabocchiata e si illuse di avere inconsciamente
disegnato, viaggiando con la sola fantasia, le rughe del volto di un essere umano. Ma
non vide altro che un labirinto inestricabile di colori e di linee, di segni e di simboli. Gli
stessi itinerari erano scomparsi, irriconoscibili nel geroglifico dell'insieme. Scalabrino
avrebbe potuto essere ovunque o in nessun luogo. Come prima. Come sempre. Se
potessimo innalzarci fino al livello di un satellite, ci sembrerebbe di poter scorgere in
lontananza le azioni di tutti gli uomini. Ma vedremmo anche il sole che tramonta in
un'altra parte del globo, e non riusciremmo più a capire quello che fanno. Gli individui
sarebbero irriconoscibili, come le città, le montagne, i fiumi, i deserti, visti da noi,
giganti, sulla superficie di un mappamondo. Ci sentiremmo soli, perduti, impotenti. E
lo stesso accadrebbe se potessimo calarci, al contrario, a un millimetro dal terreno,
nella più piccola imperfezione del muro di una stanza, in una bolla del velo d'aria che
ci circonda, in una molecola. Bisognerebbe essere un libro sospeso all'altezza giusta
per poter valutare distintamente il tutto. Il libro della sola utopia che Matteo potesse
ancora immaginare.
Gustave Moreau
Trionfo di Alessandro il Grande
Olio su tela
Parigi, Musée Moreau
Scalabrino voleva perdersi. Era scritto sul suo volto, scritto in tutto quello che gli era
successo o che lo riguardava. Ma dove ? Nel deserto ? Tra le folle di una metropoli ?
Lontano dalle rotte delle navi ? Sulle strade di una nazione non riconosciuta dalle
organizzazioni internazionali ? Le terre emerse occupano milioni e milioni di chilometri
quadrati. Ci sono tante località. Ci si potrebbe perdere ovunque. Da Aachen a
Zyrardow. Da Abano a Zungri. O dove non c'è nemmeno un nome. A Matteo restava
tuttavia da risolvere il problema pratico della consegna al destinatario della
videocassetta di Lara. Fu costretto ad ammettere che non avrebbe potuto farlo
continuando a tracciare scenari incerti come le linee sulla carta. Aveva infilato in una
collana di inutili perle di vetro quei luoghi che nella sua coscienza evocavano la
presenza di un mito o di un ricordo. Samarcanda. Berlino. Paris, Texas. Gli erano
sembrati importanti in quella storia, chissà perchè, fino a diventare le tappe di un
viaggio mai compiuto, i nodi invisibili di una gigantesca ragnatela. Ma non lo erano.
Non erano nulla: un groviglio di strade inesistenti, un tracciato cerebrale più simile ai
tentacoli di un Proteroctopus o al profilo di una paesina che a un itinerario percorribile.
E non sarebbe bastata una vita intera, si disse, anche se, in una recrudescenza di quel
disturbo benefico che gli psicologi chiamano ansia di megalomania, arrivò a pensare
che non sarebbe stato impossibile, con una buona organizzazione alle spalle e sempre
che guerre, calamità naturali, governi instabili, carestie, predoni, malattie, incidenti o
mancanza di pezzi di ricambio non interrompessero bruscamente l'impresa. L'idea, in
quanto tale, non lo spaventava affatto: girare il mondo intero, e forse a vuoto, per
cercare un individuo può sembrare assurdo, ma non è più stupido del dimenticare,
dell'essere ignavi. Quello che temeva realmente non erano le insidie, non temeva di
non riuscire a mantenere il ritmo degli infiniti cambiamenti di clima, di temperatura, di
alimentazione, di fuso orario, o di non poter sostenere le continue metamorfosi
dell'ambiente. Aveva paura dell'altissimo margine di errore che si nasconde in ogni
calcolo: setacciando l'intero pianeta, le probabilità di ritrovare Scalabrino sarebbero
state comunque pochissime, le stesse probabilità che avrebbe avuto di rivederlo
sedendosi sulla sponda di un fiume ad aspettarlo, in un luogo qualsiasi, com'era già
accaduto poche ore prima. E'il bisogno di giustificare l'ignoto l'ingranaggio che muove
il pensiero occidentale, ma è la certezza, il senso dell'inutilità di un'esplorazione che lo
rende vittima dell'angoscia. Così Matteo preferiva disegnare vie d'uscita virtuali - non
è questa la parola ? - piuttosto che percorrerle, per non muovere un passo, e nello
stesso tempo per scusarsi della sua immobilità. Ma ora, mentre perdeva il suo tempo a
figurarsi città e villaggi, pianure, montagne, scogliere, savane, tundre, deserti, oceani
e steppe, provando allo stesso tempo per quei luoghi che non conosceva curiosità e
paura, attrazione e terrore, tutto, all'improvviso, gli fu chiaro. Neppure tra due
generazioni lui stesso potrà dire perchè. Forse, la noia. Benchè viaggiasse spesso con
la fantasia, non si era mai stancato di contemplare il suo orizzonte. Viveva dove il
piacere convive con la monotonia. Bisogna conoscere quei luoghi per capire che cosa
significa. Convalli popolate di case e di uliveti, le chiamano; colline che regalano il
senso della sicurezza, ma chiudono la visione dello spazio entro limiti così ristretti che
non è raro aver voglia di fuggire, anche se il paesaggio è così bello, che si preferisce
farlo con la sola immaginazione. Solo poche volte Matteo si era allontanato da quel
piccolo mondo sincero e opprimente, e aveva subito notato una vera differenza, aveva
sentito il respiro farsi più profondo, la mente aprirsi a pensieri più elevati. Ma
tornando a casa aveva avvertito un non so che, uno stato di grazia che lo stringeva in
un abbraccio morboso, tenero come quello di una madre, come quello di una madre,
mortale. Non avrebbe mai potuto diventare folle, per nessuna ragione. Solo
lucidamente folle, forse. Non sarebbe mai stato capace di partire, di lasciare la sua
terra benedetta. Nessuno avrebbe potuto farlo senza tornare mai più. Nemmeno
Scalabrino. Prese un cappello rosso e se lo mise in testa. Raccolse quello che doveva
raccogliere. Scese nel garage e montò sulla sua motocicletta. In poco meno di tre
quarti d'ora fu sulla montagna. Parcheggiò vicinissimo ad un fossato e chiuse la ruota
con una pesante catena ricoperta di nylon verde. Poi cominciò a salire lungo la costa
del prato, e l'aria gli sembrò più rarefatta ad ogni passo, il cielo più limpido. Un uomo,
sull'orlo di una specie di cratere informe, alzò una mano per salutarlo, ma senza
scomporsi, come se lo stesse aspettando da non più di dieci minuti. Matteo si avvicinò
e si fermò davanti a lui, guardandolo fisso, incerto tra il desiderio di rimproverarlo e
quello di scusarsi per il suo enorme ritardo all'appuntamento e per ogni altro equivoco.
"Matteo, mi chiamo Matteo" - gli disse. "Ho qualcosa per te." Scalabrino lo guardò
sorridendo.
"Lo sai dove ti sei seduto ? - continuò il ragazzo. "Potrebbe essere pericoloso."
"Due bombe non scoppiano mai nello stesso punto."
Matteo alzò tutte e due le mani. In una teneva la videocassetta, con appena due dita.
Nell'altra stringeva un pacco di fogli sciolti e una busta. Scalabrino prese le carte, per
prima cosa, e le appoggiò per terra senza nemmeno guardarle. Poi prese la custodia,
accennando con la testa a un ringraziamento. La guardò attentamente, tirò fuori la
cassetta e lesse rapidamente una dedica scritta a mano sull'etichetta interna. Non
sorrideva più, ormai. Col dito fece scattare il fermo e sollevò il coperchio delle testine,
come se volesse frugare dentro il nastro senza bisogno del videoregistratore, come
quando si mettono le diapositive in controluce per valutarne la riuscita prima di
montarle sulla cartuccia del proiettore. Se le immagini magnetiche avessero un'anima,
qualcosa dovrebbe uscir fuori da quella banda grigia e cangiante alta mezzo pollice, un
segno, un saluto, un bacio, un fantasma. A Scalabrino sembrò di sentire una voce. Ma
non era altro che un po'di vento.
"Non si può fare troppo affidamento sull'opera d'arte in quanto tale - disse tra sè.
"Quanto meno non nell'epoca della sua riproducibilità tecnica. Le emozioni hanno
bisogno di un lettore."
Mentre l'osservava e l'ascoltava, Matteo rimase in piedi, incerto sul da farsi. Era
emozionato, a suo modo. Voleva dire a Scalabrino infinite cose, voleva dirgli che Lara
era ancora viva e che non si doveva perdere la speranza, che aveva ascoltato le sue
parole e che lo avevano commosso, che aveva parlato con Donatello e con Leonardo e
che forse era ancora possibile ricostruire un luogo chiamato Vivarium, una casa, un
regno incantato, un palazzo di cristallo, l'indirizzo dei sogni che ieri lo illusero, che
oggi lo illudono. Voleva dirgli le stesse cose che una donna innamorata direbbe
all'uomo che ama. Dimmi che cosa vuoi che faccia, e lo farò. Che non sono parole
d'amore, eppure lo sono più di ogni altra parola, poichè offrono ciò che di più prezioso
possediamo senza saperlo, un pezzo di futuro. Voleva ma non poteva. Fu bloccato
dalla timidezza, forse dalla sua buona educazione. E mentre Scalabrino, finalmente, si
perdeva nel suo stesso silenzio, non riuscì ad aprire la bocca. Il sole stava già
tramontando. Matteo si ricordò che una delle luci di posizione della sua motocicletta
non funzionava bene, ed era rischioso girare di notte in quelle condizioni. Si avvicinò a
Scalabrino e gli sfiorò una mano per salutarlo. Scalabrino continuò a rimanere in
assoluto silenzio, con lo sguardo fisso sulla videocassetta. Vide con la coda dell'occhio
Matteo che si allontanava. Un assoluto silenzio calò tutto intorno, improvvisamente,
quando le rondini smisero di danzare in cerchio sopra gli abeti.
Vincent Van Gogh
Uliveto
Olio su tela
Otterloo, Kroller-Muller Museum
Mentre Matteo si allontanava, poco prima che fosse avvolto il suo profilo dalla nebbia
della distanza e dalle braccia degli alberi imploranti, Scalabrino non era così
impassibile come chiunque avrebbe detto vedendolo immobile e cupo. Vorrei poterti
parlare con sincerità, pensava, come sono riuscito a fare la prima volta che ti ho
incontrato, in questo stesso punto, quattro settimane fa. Vorrei dirti che eravamo
ragazzi qualsiasi, e che non abbiamo fatto nulla di straordinario - se l'abbiamo fatto
davvero, perchè a volte mi sembra che sia stata soltanto la nostra immaginazione a
farcelo credere - niente di più e niente di meno di ciò che tanti altri ragazzi come noi,
alla nostra stessa età, hanno pensato o sperato di fare. Vorrei poterti dire che il nostro
grandioso progetto - tu credi ancora che lo sia stato - non era poi così diverso dagli
infiniti altri progetti che ogni essere umano ha provato a tracciare, a delineare, a
definire almeno una volta per dare un significato alla sua presenza sulla terra o creare
un diversivo alla monotonia delle giornate. Vorrei, ma qualcosa me lo impedisce. Non
è pudore. Non c'entra nulla la tristezza di questi giorni. Nè la cattiva volontà, o la
mancanza di memoria. E'altro. E'quello che vedo. Quello mi spinge al silenzio, perfino
qui, dove tutto, l'orizzonte, il cratere, i tronchi, il cielo, sembra costruito per una
recita, per una rivelazione. Quando ho sentito la tua mano che mi sfiorava con tanta
leggerezza, ho capito, Matteo. Ho capito ciò che tu stesso rifiuti di capire. Ho capito
che ti sei innamorato di me. Tu. Di me. Non so come sia potuto succedere. Non era
questo che volevo, che speravo. Non lo so nemmeno io che cosa volevo, che cosa mi
aspettavo da te, quando ti ho avvicinato, senza che tu mi conoscessi neppure. Forse
cercavo soltanto un testimone, una specie di giudice imparziale. E invece ho trovato
un discepolo così attento, così coinvolto, così preso, da innamorarsi addirittura. Come
se lo avessi creato io stesso con le mie mani. E'questo, ora, che mi spinge al silenzio.
Non so come spiegartelo. Potrei limitarmi a dirti che non sono la persona che credi,
che non potrei mai amarti nel modo in cui tu pensi di amare me. Ma sarebbero consigli
degni di un maestro, ed è l'ultima cosa che vorrei. Non mi dispiacerebbe essere un
buon maestro, ma non voglio che tu continui a credere che lo sia davvero. Non voglio
che tu consideri giusto quello che ho detto e quello che fatto. Perchè finiresti per
pensare che tutto è ancora possibile. Saresti tentato dalla stessa avventura. I progetti
non nascono dall'amore, spesso nascono per puro caso: ma è per amore che ci
sembrano realizzabili, anche quando non lo sono, soprattutto quando sono impossibili.
Vivarium avrebbe potuto restare un progetto, un semplice gioco dell'intelletto. Invece,
per amore, ho provato a rendere l'idea attuata e compiuta. Per amore, ho cercato di
avverare il sogno. Molte specie di amore. L'amore per il mio maestro ideale, che aveva
risposto alle mie domande quando ormai non ci speravo più. Quello che mi univa ai
miei compagni, agli amici, come ad altrettanti fratelli. L'amore per Lara, la certezza
che era quello l'unico amore che poteva durare un'intera vita. L'amore per l'unica
donna che abbia mai veramente desiderato, la sola donna che possa definire
bellissima. Poi, anche quando fu chiaro che era stata solo una sciocchezza, ho fatto di
tutto per crederci. Ma fu uno sbaglio. L'amore resiste e cancella il tempo affamato. Ma
non lo restituisce intatto. Ora, non vorrei, Matteo, che tu commettessi lo stesso errore.
Mi piacerebbe - a chi non piacerebbe sopravvivere nella memoria degli altri ? - ma non
vorrei. Vorrei piuttosto che tu riuscissi a guardarti intorno senza illuderti, ma non per
questo abbassandoti al livello dei perenni disincantati. Vorrei che tu riuscissi a
diventare cosciente di ciò che puoi, ma non per questo sognando inutilmente.
Dimentica il mio nome. Il mio nome inusitato, che forse ha contribuito ad alimentare
in te l'idea che ciò che non è neppure stato fosse simile a una leggenda. Avrei dovuto
spiegartelo subito, quando ti ho conosciuto. Avrei dovuto parlarti del suo significato.
Avrei dovuto dirti che quel nome, Scalabrino, tanto tempo fa, mi piaceva, perchè il
suono che evocava pronunciandolo era dolce. Come tutti i ragazzi immaginavo che
raccontasse un modo di vivere: mi sentivo un personaggio delle favole che sapeva
ritrovare la strada nel bosco e uccidere l'orco, un eroe dei fumetti che combatteva
contro i briganti in Africa o nelle foreste del Sudamerica, il protagonista di un racconto
di avventure, un esploratore polare, un pirata dei sette mari, un calciatore brasiliano,
un capitano di ventura, un alpino coraggioso. E, crescendo, scoprivo a poco a poco
l'irato Calcabrina, il candido Calandrino, il tenero Zerbino, il prode e fanfarone
Scarabino, e non facevo altro che sovrapporne il nome al mio, a Scalabrino, per
assonanza fonetica, come se volessi a tutti i costi trovare una giustificazione al segno
che portavo almeno nelle parole dei poeti. Perchè i ragazzi sono convinti che il nome
sia la sostanza di un essere umano, e scoprirne l'insignificanza è la loro prima
delusione. La mia fu sapere che così, Scalabrino, si firmava un oscuro pittore pistoiese
del cinquecento, un certo Giovanni Battista Volponi, e che così si fece chiamare suo
figlio, anche lui pittore, ancora più oscuro. Nessun eroe, nessun santo, nessun
paladino. Una consuetudine, forse. Uno scherzo. Che spesso ho letto come
un'irreversibile condanna. Tu, Matteo, non hai bisogno di attribuire al nome che porti
più importanza di quella che ha, nè di considerarlo ridicolo o inutile, come mi è
capitato, quando ho saputo la verità. Dimentica il mio per non abusare del tuo.
Dimenticami. A quest'ora sarai già all'altezza dell'uliveto. Prova a immaginare gli olivi
che vedi, piuttosto che cercare di vedere quelli che immagini. Prova a cercare un
punto d'equilibrio tra la grandezza del cielo e le loro enormi radici contorte. Prova:
prova prima di tutto ad essere consapevole di quello che sei. A non credere in nulla
che viva al di fuori della tua coscienza. Per quello che mi riguarda, non ho più ragione
di rimanere qui ad aspettarti, o ad aspettare che qualcosa accada. Lara è morta. E
molte cose di me sono morte con lei. Me ne andrò davvero in giro per il mondo. Si dice
così nei momenti cruciali. Cercherò di capire che differenza c'è tra un inglese, uno
spagnolo, un francese, un tedesco, un americano, un estone, un armeno, un croato,
un uzbeko, un curdo, un patagone, uno khmer, un somalo, uno zulu, e ogni altro
individuo che fa parte di un popolo. Nessuna, probabilmente. Sono tutti fragili, come
noi. Come noi, hanno sognato e si sono svegliati. E, come noi, di tutto quello che c'è
ancora da imparare, non conoscono che una minima parte. Addio, Matteo. Vorrei dirti
ancora di non inseguirmi più, nè con la fantasia, nè nella realtà. Di parlare con chi
vuoi, se lo credi necessario, di chiarire tutti i misteri che ancora ti sembrano tali e di
svelare tutti i segreti, se pensi che ce ne siano. Ma come potrei parlare così a chi si
sente innamorato ? Sarebbe crudele, ingiusto. Non mi rimane che il silenzio. E, se
proprio non riuscissi a tacere, qualche parola di incoraggiamento. Pericolosa, ulteriore
illusione. Come dirti di non pensare mai che la storia sia finita.
Gustav Klimt
Il bacio
Tecnica mista su tela
Vienna, Osterreichische Galerie
Rubens gridava, agitava le braccia, batteva le mani:
"Per favore, per favore. Basta con questa musica !"
"Ma è Satie" - disse il direttore dell'orchestra. "E'perfetto."
"Come hai detto che si chiama ? Satì ? Ecco, allora basta con questo Satì. Non ne
possiamo più ! Sembra una marcia funebre. C'è una festa, qui, non ve ne siete
accorti? Suonate qualcosa di più stupido, più allegro. Una musica più conosciuta, più
romantica."
"Più romantica di Satie ?" Azzardò il direttore.
Rubens fece di tutto per rendere manifesta la fatica che gli stava costando mantenere
i propri nervi entro limiti accettabili.
"D'accordo, signor direttore - disse. "E'molto, mooolto bella. Non voglio discutere. Non
sono un critico ! Ma....c'è un ma. Ed è che secondo me non va bene, non è adatta.
Insomma, non illustra la situazione, non accompagna la solennità del momento, non
evoca l'atmosfera. E dato che la responsabilità di tutto questo è mia ! Credo di essermi
già spiegato a sufficienza."
Il direttore non reagì, e Rubens, che in fondo non era capace di costruire
deliberatamente un'espressione più feroce di quella che era riuscito a dipingere finora
sulla sua faccia, si limitò a fissarlo intensamente.
"Non sarebbe meglio, che so, un bel valzer, un tango ? Tanto per riscaldare il clima ?
Una di quelle romanze veneziane ?"
Non c'è che dire: Rubens aveva preso molto sul serio l'incarico di cerimoniere ufficiale.
La cosa si spiega. Vuoi perchè considerava un vero onore essere stato scelto dal
giudice per organizzare il matrimonio nei dettagli. Vuoi perchè sapeva di aver avuto
un ruolo nello stesso evolversi della situazione, tanto da poter affermare che senza il
suo aiuto e i suoi consigli il giudice non sarebbe mai arrivato fino a quel punto. Tutto
questo lo rendeva più partecipe di quelle nozze che di quelle di un parente.
Svolazzava qua e là come una farfalla, instancabile, urlando, se necessario,
soffermandosi soltanto per dare precise istruzioni al piccolo esercito di collaboratori
che aveva assoldato. Aveva chiamato per l'occasione un cuoco francese e un
pasticcere austriaco, e per tutta la giornata si era incontrato regolarmente con
entrambi per mettere a punto l'ordine delle portate e definire la forma e la consistenza
dei dolci. I camerieri e le cameriere li aveva voluti giovani e belli, anche a costo
dell'inesperienza: c'erano volute ore per spiegare a ciascuno di loro come si sarebbe
dovuto comportare. Infine, il fotografo: per non rischiare la banalità aveva chiamato
un amico della polizia scientifica, l'unico, a suo parere, che potesse raccontare con le
immagini tutta la verità di un evento. Ma fu costretto a perdere tempo anche con lui,
almeno per chiarire la differenza che passa tra un delitto e una festa. Il matrimonio,
contrariamente ad ogni consuetudine, si celebrava nella grande casa del giudice. A
Rubens era stata data carta bianca su tutto, perfino sull'arredo delle stanze, a patto
che evitasse di ricreare ambienti che potessero evocare l'interno di una chiesa.
Intelligentemente, Rubens puntò sulle luci: nei giorni immediatamente precedenti,
aiutato da una schiera di elettricisti, ne fece installare una gran quantità, ben sapendo
che la luminosità di un ambiente rappresenta l'esatto contrario della penombra
naturale delle pievi o delle abbazie, dove di solito ci si sposa. Subito dopo fece coprire
le pareti di drappi di seta variopinti: dominavano i colori primari, il rosso e l'azzurro,
ma anzichè il giallo scelse l'oro come tonalità di fondo, ritenendolo, oltre che più ricco,
più riposante. Alle prime ore del mattino della data stabilita, la casa appariva
completamente trasformata: sotto certi aspetti ricordava una reggia decadente, ma
alcuni particolari la rendevano simile alla tenda di un principe del deserto. Solo allora
arrivarono i fiori. Tanti piccoli mazzi di fiori, tutti bianchi, unica concessione alla
tradizione, che furono disposti lungo le pareti dei corridoi e sui pavimenti delle stanze
più grandi, come torce piantate nel granito di una caverna per segnalare la via del
tesoro. La via che portava alla stanza delle nozze, una stanza come le altre, che
Rubens, tuttavia, continuava a vedere come una specie di cappella, un altare, la cella
di un tempio, tanto che l'aveva fatta dividere in due con una balaustra di stucco,
successivamente arricchita da una cascata di velluti e di strass. In realtà, lo sposalizio
fu veloce, semplice e scarno, tutt'altro che solenne, come le circostanze e l'addobbo
potevano far credere. Non più di trenta o quaranta invitati, e gli sposi promessi che,
mentre aspettavano il sindaco, discorrevano tranquillamente tra loro. Ma era poi tutto
così vero ? L'atteggiamento degli ospiti era velato dalla totale disponibilità. I
movimenti dei protagonisti tanto sicuri da ricordare quelli dei mattatori durante la
prova di uno spettacolo. Dubbi terribili, si potrebbero nutrire osservando la scena. Ma
non aiuterebbero a decifrare il codice segreto di quelle nozze: ogni rito forma esseri
onnipotenti, nuove estetiche, gabbie, risate oniriche. Nello spazio e nel tempo del suo
svolgimento, trasforma tutto ciò che accade in un evento irreale. Nessuno è più se
stesso. Perchè stupirsi se anche allora fu la stessa cosa ? Quando il sindaco arrivò,
marito e moglie lo accolsero, e tutti insieme si avviarono verso la stanza prescelta.
Anzichè sedersi su due sgabelli, la coppia si distese su due rari esemplari di poltrone a
sdraio L.C.4 in pelle bianca, versione originale del 1928, l'unico particolare dell'intero
allestimento che il giudice aveva voluto scegliere personalmente. Lui era vestito di
chiaro, con una specie di redingote ottocentesca bordata di alamari a forma di cuore,
sbuffi di pizzo dalle maniche, pantaloni stretti e stivali. Lei di rosa e di celeste, avvolta
fino alle caviglie, coperta da uno scialle di seta ricamato di rose e di viole che girava
sopra la testa e sul collo, come vorrebbero le usanze arabe, più che quelle occidentali.
Il sindaco esordì complimentandosi pubblicamente con il giudice per quella moglie così
giovane e bella e per il fatto stesso di aver finalmente deciso di sposarsi ancora una
volta. Erano amici di vecchia data, il giudice e il sindaco, e i presenti non si stupirono
di tanta insolita intimità.
"Ora, devo proprio farvi una domanda importante." Disse.
Ma non riuscì a dire nient'altro. Mentre parlava, qualcosa di lui fuggì dal suo corpo
estraniandosi. Si guardò, impietosamente, con gli occhi di un altro; e gli venne da
ridere quando vide che si stava aggiustando la fascia tricolore come se fosse un
paramento sacro, allargando le braccia a mani aperte e diritte, proprio come un
parroco prima della predica. Così preferì tacere, piuttosto che rischiare di avvilire la
formula pronunciandola senza la serietà necessaria. Il giudice, fu lui, sorridendo, a
suggerire il seguito:
"Forse vuoi chiedermi se lo voglio io, eccetera eccetera ?"
Il sindaco, trattenendo a stento il riso, scosse la testa in avanti. Hai proprio ragione,
sembrava che dicesse. Ma non ci riesco.
"Sì, lo voglio, ora, subito." Disse allora il giudice, senza dar tempo al sindaco di
concentrarsi ulteriormente. Riuscì ad essere molto solenne in quelle tre parole. E
subito la sposa si unì a lui:
"Anch'io lo voglio." Disse, senza aspettare che il sindaco le rivolgesse, almeno per
salvare la forma, quella stessa domanda che non era riuscito a porre all'amico giudice.
Poi guardò lo sposo con occhi grandissimi, che non esprimevano imbarazzo nè
stupore, ma forse - ed è comprensibile - neppure naturalezza.
"Non mi resta che dichiararvi marito e moglie." Concluse il sindaco. E non fece
neppure in tempo a finire la frase, che la donna si era già gettata addosso al giudice,
stringendolo forte per baciarlo. Il giudice si lasciò ghermire, e se non fosse stato per
l'evidente differenza di età tra i due chiunque avrebbe detto che in quel gesto così
violento e spontaneo si nascondeva la passione generosa e ingenua di due ragazzi.
Una testimonianza d'amore. Trascinati, gli invitati si misero a battere le mani.
L'applauso fu lunghissimo, uno di quegli applausi eccitati che il pubblico riserva, senza
nemmeno sapere perchè, alla perfetta esecuzione di una brano di musica o di un
esercizio di ginnastica, ad un monologo dell'attore o al funerale di un personaggio
amato morto tragicamente. Fu lo sfogo del desiderio irrefrenabile di partecipare a
un'istante di perfezione, mentre la sposa, bella come l'estate, teneva stretta la testa
del suo sposo allargando le labbra sulle sue guance fino al limite di un sorriso
dolcissimo, lasciando scivolare dallo scialle un ricciolo dei suoi lunghi capelli. Nessuno
chiese di suggellare il patto con un anello. Il bacio durò quanto un'aurora boreale. Poi,
la festa cominciò, grandiosa. Anche chi aveva avvertito quel leggero imbarazzo che
accompagna il trascinarsi dei matrimoni che vogliono rompere a tutti i costi con gli
schemi della tradizione fu costretto ad abbandonarsi. In quel momento, tra i due
sposi, scoccava, secondo dopo secondo, una scintilla d'armonia, che si liberava
nell'aria, nell'aria si propagava. Tutti ne sentivano il profumo. Odorava della gioia
della sposa e dello sposo - che molti giurarono di non aver visto così felice e disteso
nemmeno il giorno delle sue prime nozze - tanto che la serata si trasformò
rapidamente in una di quelle miscele di vacua complicità e di innocuo discorrere di
ricordi e di piaceri che restano, non si sa come nè perchè, il segreto di ogni gioia
effimera. Rubens fu l'unico a piangere. Lui stesso se ne vergognò. Ma il giudice e la
giovane moglie lo videro e corsero subito verso l'angolo in cui si era rintanato, lui,
l'artefice di tutto, come un animale braccato. La sposa lo accarezzò teneramente, e fu
la prima volta che Rubens non pensò a nulla mentre una donna lo toccava. Il giudice,
poi, lo abbracciò come un fratello, e Rubens si commosse ancora di più.
"Piango perchè vi vedo felici - disse. "Spero che possiate esserlo per sempre, che
questo momento sia eterno."
La donna aprì lo scialle sul collo, guardò nel vuoto della piega di un tessuto e parlò:
"Solo la fine delle cose è uno stato cronico. L'inizio, la bellezza di sapere che tutto è
ancora possibile, è rapido come un battito di ciglia. Non si può catturare. Mentre senti
che ti penetra dentro, quella felicità, è già passata, non c'è più. Se potessimo farla
durare..."
"Questa volta sarà così - disse Rubens - lo sento."
Ma la donna scosse la testa:
"Se potessimo farla durare, non saremmo esseri umani."
"E non sarebbe un male." Aggiunse il giudice.
La giovane moglie si voltò verso di lui:
"No, affatto." Concluse.
Solo un infinitesimo di malinconia sfiorò il suo sguardo.
Max Ernst
La vestizione della sposa
Olio su tela
Venezia, Peggy Guggenheim Collection
Poi, successe che il giudice e la sposa novella si misero l'uno accanto all'altra, eretti
come statue egizie sul trono fastoso della tomba. Appoggiandosi alle colonne di fuoco
delle loro vesti ormai sudate si innalzarono di una testa al di sopra della folla che li
aveva costretti a rifugiarsi nel vuoto di uno spigolo, salendo due provvidenziali gradini
dell'attenta scenografia. Fa parte dell'alchimia segreta delle nozze ricevere
solennemente tutti gli ospiti. E'un ingrediente essenziale della ricetta, lo stadio
intermedio - e quindi il più importante - di quel lungo e indefinibile processo di
scrittura delle sensazioni nell'aria circostante che altrimenti e in altri tempi si potrebbe
chiamare sublimazione. I presenti, ora, desideravano complimentarsi con loro,
toccandoli. E altrettanto si potrebbe dire degli assenti, benchè nessuno di essi possa
confermarlo. Interpretando ciò che tutti pensano ma non osano ammettere, diciamo
pure che si considerava di buon auspicio partecipare in qualche modo, attraverso un
gesto, un segno, un contatto fisico, a quel momento di gioia apparentemente
immortale. Fu così, come omaggi di una terra lontana e inviolata a una regina di
Spagna, che furono portati i doni alla giovane moglie. Erano stati incartati, per suo
desiderio, in sottili fogli di carta velina colorata. Sette erano i pacchi. Soltanto sette. E
sette i colori, soltanto quelli della scala dell'iride. Potrà sembrare un eccessivo artificio,
agli assenti. Ma i presenti si erano già dichiarati d'accordo. E i regali erano così, così si può dire intelligenti ? - da non meritare la fine ingloriosa di un semplice involucro
griffato. No, ladies and gentlemen, non erano soltanto cose inanimate. Avevano una
specie di anima. E questo li rendeva pertinenti alla leggerezza della carta velina, così
pertinenti che la situazione, nel suo complesso, non ne soffriva affatto, non risultava
affatto forzata. La giovane donna che il giudice aveva scelto come compagna per il
resto della sua vita volle vedere dapprima tutti i pacchi in fila davanti a lei, in ordine
logico. Erano di dimensioni variabili, ma ne venne fuori ugualmente un arcobaleno di
cellulosa, sul quale la ragazza, bella come non mai, si fece fotografare, mentre
cercava invano di toccare le estreme frequenze percettibili con la punta delle dita. Solo
dopo cominciò a scartare i doni, mentre tutti contemplavano inerti. Ora, ai più potrà
apparire superfluo soffermarsi sul contenuto delle scatole, dopo aver descritto e
apprezzato tanta accurata messinscena. Ma anche quella sera niente era ciò che
sembrava, e niente sembrava ciò che era. Ogni dettaglio, quindi, anche il più
insignificante, potrebbe risultare importante, perfino l'elenco delle cose trovate nei
pacchi. Il pacco rosso fu il primo. Di media grandezza, in esso era stato confezionato ma la parola giusta sarebbe nascosto - un indispensabile corredo di biancheria di seta.
Biancheria intima, si intende, non indumenti reali, nè scritti, nè rappresentati.
Indumenti di sotto: ovvero reggipetti morbidi come la pelle che avrebbero sfiorato,
beati loro, altrettanto beate mutande (ma come è possibile che la lingua italiana non
abbia ancora inventato una parola poetica per descrivere ciò che ogni giorno sta a
diretto contatto con il segreto della natura ?), calze velate e alcuni corpetti allacciabili,
dei quali la snella figura della ragazza avrebbe potuto fare a meno. E la giarrettiera ?
Poteva mancare, la giarrettiera ? Una di quelle provocanti, da portare alla coscia come
portafortuna, metà rosa e metà azzurra ? Dicono che sia stata inserita all'ultimo
momento nella lista da qualcuno che si era ricordato che il totale rifiuto della
tradizione non è che un plagio. E così fu trovata, sul fondo dell'involucro. E adesso il
pacco ricoperto di arancio. Un pacco largo e basso. Un solo dono. Un grande mantello
di pelo ecologico nero a macchie di leopardo azzurre, più chiare e più scure. Cucito a
ruota, si vide, una volta indossato, che si allargava a dismisura quando la giovane
girava su sè stessa, coprendo, come un velo indeciso tra la notte e il giorno, una
superficie pari a oltre la metà di una stanza di un comune appartamento di città.
L'ignoto donatore fece insomma una gran bella figura, anche perchè seppe
accompagnare il regalo con una breve e sapiente citazione tratta dalle nozze di
Mercurio e della Filologia di Marciano Capella. Laconica, si limitava a dire: perchè le
tue membra non siano contaminate dagli animali morti. Nel piccolo pacco giallo,
dentro uno scrigno molto prezioso e assai costoso, una cassetta anticamente usata per
nascondere le monete e le lettere di credito, la sposa trovò una collana formata da due
serpenti d'oro incrostati di gemme che si affrontavano senza mordersi, separati da
un'aquila. A voler cercare il pelo nell'uovo, si trattava di un gioiello un po' troppo
pesante per il collo candido della ragazza; ma certo le fu gradito, poichè pare che
anche sua madre ne possedesse uno simile, e di oggetti così, al giorno d'oggi, non se
ne fanno più. Passando ancora oltre, nell'involucro verde la sposa si divertì a scoprire i
particolari di tutte quelle cose inutili che i più intelligenti degli invitati, in virtù della
loro minore familiarità con i festeggiati, erano stati capaci di mettere insieme: un
antico trattato di botanica, ad esempio, quel genere di volumi che ognuno desidera
esporre in bella mostra in biblioteca nella vana speranza che nessuno lo apra; tre
quadri per le pareti, che differivano tra loro per la forma, lo stile e la datazione, ma
non nella sostanza; un'intera raccolta di stampe, in parte a soggetto medico, in parte
a soggetto erotico; e infine innumerevoli altri ninnoli, gingilli e frammenti di maggiore
o minor pregio e di diversa natura, a seconda che si voglia valutarli per il costo,
l'interesse storico, l'affetto che esprimevano o la personalità che, ad osservarli bene e
a comprenderne esattamente il significato, potevano rivelare. Incartate di indaco,
invece, erano le lampade e i lampadari per la nuova casa, scelte tra le forme più
leggere e più aeree che i costruttori abbiano mai saputo dare alle fonti di luce.
All'amante dell'orsa maggiore, erano dedicate. Allo sposo, quindi. Non è il caso di
descriverle dettagliatamente, poichè, essendo quasi tutte marcate Artemide, è
piuttosto facile vederle e riconoscerle nelle vetrine e nei cataloghi. Rimanevano le due
scatole più grandi. In quella azzurra la donna pescò le cose come un bambino nella
cesta dei giocattoli: piatti di porcellana quasi trasparenti e pentole di acciaio
resistentissimo, tazze di ceramica e posate d'argento, calici di cristallo e ciotole di
vetro, e ogni altro strumento, generalmente utile, talvolta superfluo, destinato a
figurare sulle tavole imbandite dei prossimi anni, per centinaia, migliaia di colazioni,
pranzi e cene, o in qualche rara occasione fuori orario, come l'improvvisa fame o la
repentina sete, d'apres l'amour. E'inutile ricordare come l'intera gamma delle stoviglie
fosse venata o decorata di azzurro, della stessa tonalità della carta appena strappata:
dopo tutto, chi sceglie di regalare uno strumento della vita quotidiana, sa bene di non
poter dare molto sfogo alla valvola volante della fantasia. Un sacrificio necessario,
come la presenza della pioggia. Infine, toccò al grandissimo involucro viola. La
ragazza lo aprì con foga e curiosità. E dentro, dentro c'era un letto circolare, databile
1970 circa. I più cari amici e i più stretti parenti del giudice erano riusciti a trovarlo da
un antiquario, non senza difficoltà. Tra i più belli della sua epoca, era vasto come una
stanza, circondato da una zanzariera sottile sostenuta in alto da una ghirlanda di
legno di acero liscia e lucente. La coperta, appositamente realizzata per la forma
insolita e le dimensioni colossali del letto, era una trapunta più moderna, sulla quale
era stato ricamato un mappamondo, in modo tale che le aree bianche dei poli
potessero indicare, all'una o all'altra estremità del materasso, il posto del cuscino.
Piacque, alla giovane sposa, che in uno slancio irrazionale fece il gesto di abbracciarlo,
chinandosi. Bella come non mai, si diceva: Afrodite al cospetto di Anchise, circonfusa
di luce lunare, epitragia eterea iperurania ambologera, la signora fu glorificata di
epiteti intraducibili. Aurea misericordiosa, ringiovanente assassina di uomini, regina
splendente di tutte le forme, bellissimo culo. Pare che il letto circolare concili l'amore,
più che il sonno. Certo non a caso ne furono costruiti solo pochi esemplari, e in piena
rivoluzione sessuale. Tuttavia, ciò che era stato era stato. Ora, non era altro che un
mobile sul punto di diventare antico, e a nessuno sembrò particolarmente stimolante,
se non fosse stato per la presenza di lei. Solo al giudice, in confidenza, venne il
desiderio di posare con la sposa su quel mondo a sè, almeno per una fotografia. O per
sognare, prima di lasciarsi morire. Insieme, liberi, volare oltre l'oceano. Ma non osò
ammetterlo. Sarebbe stato ridicolo se proprio lui, il più vecchio, avesse cercato di
comportarsi come il più giovane. Così la festa andò avanti senza sussulti. Non
arrivarono altri regali, prima di mezzanotte. Quando un amico molto dotato di ironia
fece recapitare due oggetti il cui valore simbolico superava largamente quello
intrinsecamente commerciale: erano un binocolo a raggi infrarossi e una lampada a
raggi ultravioletti. Senza volerlo, il donatore era riuscito a superare i confini
dell'arcobaleno. Non allegò un biglietto, ma doveva conoscere molto bene la moglie
del giudice, se sapeva che i suoi più grandi desideri erano quelli di vedere nel buio e
simulare il sole anche di notte, o quando le nuvole scure dell'inverno coprono il cielo
per intero, e sembra che la luce non debba più tornare.
Nicolas Poussin
L'impero di Flora
Olio su tela
Dresda, Staatliche Kunstsammlungen
Matteo arrivò molto tardi, quando la festa era già entrata nella parabola della
stanchezza. Entrò senza essere annunciato, come una furia, ma senza provocare
rumori insoliti. Pochissimi lo notarono, sebbene apparisse visibilmente provato da
qualche oscura tragedia. Alcune piccole macchie di sangue si erano da poco seccate
sulla superficie della sua giacca. Ma non per questo l'attenzione si spostò su di lui. Gli
ospiti cominciarono a scrutarlo quando si accorsero che non aveva le scarpe e che era
penetrato nella stanza delle nozze così, scalzo, silenzioso come un indio. Qualcuno
notò il particolare, e la voce si propagò rapidamente. I più informati ricordarono ai più
curiosi un episodio della mitologia antica: un giovane eroe, poco più che un ragazzo,
era entrato in una reggia senza un calzare, e da quel giorno era cominciata la
sventura, la sua sventura, la sventura di suo padre, dei suoi nemici, delle sue amanti.
I medesimi sapienti ne avevano dedotto, benchè non ce ne fosse il presupposto, che
era di cattivo augurio l'arrivo di un ospite, a piedi nudi, durante un matrimonio. Molti
dettagli coincidevano, compreso il fatto che, data l'età, il probabile Teseo non era
classificabile come uno degli stravaganti amici del giudice, ma avrebbe potuto essere
benissimo uno dei suoi figli segreti. Volendo, tutto può essere letto in chiave
simbolica, come riflesso di un mistero o segnale ineluttabile di una catastrofe.
Volendo, ogni momento, ogni gesto, possono essere interpretati come il ripetersi di un
mito: Matteo, lui non era solo Teseo, era Edipo, Giasone, Bellerofonte, Eracle, era uno
qualsiasi degli eroi sempre giovani che vengono dal nulla e nel nulla sono destinati a
scomparire. E il giudice, la sua sposa, i suoi ospiti ? Chi poteva negare che
somigliassero ai re e alle regine, a Cadmo e Armonia, Peleo e Tetide, Ade e Persefone,
Dioniso e Arianna, ognuno con la sua corte di semidei o di baccanti ? Volendo. Ma
tutto, quella sera, era destinato a non durare più di una battuta. Poche parole appena
sussurrate, e anche l'arrivo di Matteo fu dimenticato. Tanto che nemmeno lui si
accorse di essere stato osservato con particolare interesse. Il ragazzo cercò tra tutta
quella gente almeno un volto conosciuto, per rendere più leggero il suo disagio.
Invano. Non riuscì a vedere nemmeno il volto della sposa. Solo un refolo di colori oltre
un muro di figure che si muovevano come se danzassero. Allora si mise seduto nel
primo spazio libero che trovò. Non era una sedia qualsiasi, così come niente era stato
scelto a caso in quella casa, più ricca di un museo vivente. Era una Thonet 7001, una
delle più belle poltrone a dondolo che siano mai state disegnate. Più che il sonno,
conciliava la poesia. Ma il ragazzo nemmeno se ne accorse. A lui, quella sera, tutto
questo non interessava. Aveva ricevuto il sibillino invito del giudice appena due giorni
prima, e si era stupito tre volte. Prima di tutto perchè non sapeva che il giudice avesse
intenzione di sposarsi, quanto meno non così presto. Poi perchè in quella specie di
letterina scritta a mano - particolare già abbastanza insolito - non era nemmeno
specificato il nome della sposa. Infine per il fatto stesso di essere stato invitato. Lui,
l'ultimo dei conoscenti. Tuttavia, proprio per questo, sapeva di non poter fare a meno
di esserci, anche se ora che si trovava lì, senza nemmeno aver assistito all'evento,
senza nemmeno sapere se il matrimonio era già stato celebrato o no, si disse che
avrebbe fatto meglio a sparire inventando una scusa, lasciando il suo regalo e un
biglietto, se necessario, se il giudice si fosse sentito offeso dalla sua fuga. Il giudice lo
vide semidisteso e silenzioso sulla sua poltrona più preziosa, mentre avanzava verso
l'atrio salutando gli amici, con le labbra atteggiate ad un sorriso degno di quello di una
statua di Apollo. Era scritto che tra lui e Matteo ogni parola dovesse sembrare una
reciproca consolazione, l'eco di un'affinità trovata per caso in una situazione di
estraniamento, una rivelazione di solidarietà tra naufraghi, tra dispersi in un'oasi
circondata dalla moltitudine della sabbia del deserto. Avvicinandosi, notò senza
difficoltà la soddisfazione del ragazzo per il suo arrivo. Poteva dire di conoscere a
perfezione le sue reazioni, ormai. Avrebbe potuto prevenirle, indirizzarle, se non fosse
stato convinto che la cosa giusta da fare era comportarsi con lui con la più assoluta
spontaneità.
"Grazie per essere venuto." Gli disse semplicemente.
"Non potevo mancare." Rispose Matteo, altrettanto semplicemente. Ma intanto
pensava: restare o andarsene ?
Non si scambiarono molte parole. Non era necessario. Non è mai necessario. E' solo
un'abitudine. Di parole ne circolavano già abbastanza, quella sera, tra gli ospiti in
festa, i fiori, le statue, i levrieri e le caraffe traboccanti degli aperitivi. E la sposa
sembrava che le attraversasse con la stessa leggerezza di una nuvola che passa
attraverso la pioggia. C'era di che incantarsi a guardarla, anche da lontano, anche se a
malapena si distinguevano i tratti del suo viso. C'era di che essere orgogliosi.
"Ti piace mia moglie, Matteo ?" Chiese il giudice.
"Non riesco a vederla bene da qui. Sembra una bella donna, però."
Il giudice si sentì uno sciocco e cercò un'occasione per cambiare discorso,
approfittando di un cameriere per offrire da bere al ragazzo. Matteo prese il bicchiere e
lo tenne tra le mani per un po' prima di assaggiarne il contenuto, un liquido verde,
denso, su cui galleggiava una ciliegia vermiglia.
"Molto buono" - disse. "Un po'troppo forte per me, forse."
Il giudice fu rassicurato dalla banalità dell'osservazione. Finchè non sentì di nuovo la
voce di Matteo:
"Perchè si è sposato, signor giudice ?"
Ci fu una pausa di perplesso mutismo. Matteo non aveva certo intenzione di mettere
l'amico in imbarazzo, ma l'effetto fu quello di un cubetto di ghiaccio in una tazza
d'acqua calda: un velo opaco che si espande ondeggiando come le spire di un polipo
miceneo. Il giudice provò ad aggirare la domanda:
"Tu non sei venuto qui per il mio matrimonio, vero ?"
"Sono venuto perchè mi ha invitato. Ma vorrei qualche risposta, vorrei sapere se ha
scoperto qualcosa di nuovo. Non ci vediamo da parecchi giorni, e vorrei arrivare a una
conclusione. Mi sento diverso, ma sono ancora molte le cose che non capisco, e
soltanto lei può dirmi ciò che ancora non so. E'un giudice, no ? Vorrei una sentenza.
Certo, mi rendo conto che forse non è il momento adatto."
"Quando sai che cosa vuoi, non devi avere scrupoli - disse il giudice. "La festa durerà
ancora a lungo. Penso di poterti dedicare un po'di tempo senza che nessuno se la
prenda troppo. Vieni, andiamo !"
E fece cenno a Matteo di seguirlo. Matteo si alzò dalla poltrona e solo allora, sentendo
il freddo del pavimento, si accorse di non avere le scarpe. Solo perchè gli sembrò che
il giudice guardasse di sfuggita i suoi piedi mentre si alzava. Si vergognò come un
ladro. Cercò un raggio di sole per potersi coprire liberamente gli occhi con la mano. E
pensò che non avrebbe dovuto chiedere al giudice nemmeno un po'di comprensione.
Che non ne aveva il diritto. Ma il giudice non badava ai dettagli, soprattutto quando si
trattava di esseri umani e del modo in cui essi appaiono, si vestono, giocano al gioco
delle parti. Altre erano le sue preoccupazioni. Mentre stava camminando verso lo
studio, seguito come un'ombra dal ragazzo arrossito, pensava piuttosto all'unica volta
che aveva fatto all'amore con Eva Maria Silvia Domenica Primavera, prima di quel
frettoloso matrimonio. Rubens era stato un buon maestro. E lui un buon allievo. Aveva
pronunciato le parole giuste, al telefono, si era comportato nel modo giusto, al
ristorante. Allusivo quanto basta, audace al momento opportuno. Ma distaccato,
superiore. Mai e poi mai avrebbe fatto o detto le stesse cose se il suo fedele impiegato
non l'avesse istruito. E mai e poi mai avrebbe chiesto il suo aiuto se il suo desiderio
non fosse stato più forte del suo stesso orgoglio. Ma ormai era fatta. Monica stava per
diventare sua. Era lui che muoveva i fili della commedia. L'aveva invitata a casa, e lei
aveva accettato, come previsto. Le aveva detto di accomodarsi sul più grande divano
del salone e di aspettarlo un attimo, e lei non aveva fatto una piega. Rubens era stato
chiarissimo e intransigente su questo punto: se vuoi assolutamente una donna,
mettila di fronte a un fatto compiuto. Non dirà di no, se è una vera donna. Così, il
giudice aveva lasciato passare un paio di minuti, ed era tornato da lei completamente
nudo, ma eccitato solo a metà, perchè la paura e l'imbarazzo si facevano ancora
sentire. Monica non si era scomposta, e anche questo era stato preannunciato.
Indossava una tunica leggera e trasparente, scelta probabilmente apposta perchè
disegnasse le sue belle forme. Come sosteneva Rubens, era lei che aveva già deciso,
era lei che guidava il gioco. Il giudice non doveva far altro che calarsi nel suo ruolo
interpretandolo nel migliore dei modi, anticipandola. Solo che in quel momento
dimenticò la lezione. Si incantò a guardarla mentre si spogliava con la naturalezza di
una ninfa, lasciandosi ammirare. Mentre si distendeva su un tappeto grande come la
luna, allargando le braccia e le cosce, senza malizia, toccandosi un seno con la palma
di una mano. Pensò che non sarebbe riuscito a farlo. Sentì la sua eccitazione svanire.
La donna, amante sapientissima, se ne accorse. Perchè non lo prese per mano per
tirarlo giù verso di lei come una vittima, ma si alzò, incrociando le lunghe gambe, e
cominciò a stringerlo sui fianchi, baciandolo dall'ombelico in giù. Allora il giudice sentì
il suo sesso gonfiare, e tutto fu facile. Ma dopo appena un'ora, dopo averla sentita
gemere come una gatta, dopo nulla fu più come prima. Bella era bella. Ma non era più
la bellezza fatta persona. Non gli sarebbe più apparsa in sogno, e il poema fastoso
dell'allegrezza franò, ingoiando le sue efelidi. Per questo aveva deciso di sposarsi, in
pochi giorni, senza pensarci più, senza confidarsi con nessuno. Perchè almeno il valore
della sua scelta cancellasse il rimpianto della delusione, il rischio della noia, la
vergogna di quel cosciente abbandono al capriccio dell'istinto. Quando l'età porterà via
tutti i desideri, quando non potrà fare altro che confrontarsi ogni giorno con la morte,
la prima, forse l'ultima cosa che ricorderà sarà quel pomeriggio. Ma non era ancora
arrivata l'ora. Ora aveva una vita da costruire insieme alla giovane sposa, una ragione
in più per dedicarsi a lei.
Francesco Laurana
Veduta prospettica di città ideale
Tempera su tavola
Urbino, Galleria Nazionale delle Marche
Attraversarono un'ala della festa, e Matteo seguì il giudice alla distanza di due passi.
Entrando nello studio, il primo vide tutte le linee prospettiche degli oggetti cubici che
riempivano la stanza convergere in un unico punto focale, guidate dalle intercapedini
siliconiche delle grandi mattonelle bianche e nere. Come in una camera oscura. Il
secondo fu calamitato dalla massa inerte del computer spento, immobile come
l'apparizione della morte nel deserto o come un tempio a pianta greca eretto senza
uno scopo al centro di una piazza.
"Non credo che sia così importante la verità - disse il giudice accendendo
distrattamente la macchina. "Ma se quello che cerchi sono le informazioni, qui dentro
ne troverai moltissime, molte di più di quello che pensi. Ti dovrai accontentare della
quantità, in mancanza d'altro."
Sorvoliamo, adesso, sulle procedure di installazione, già ampiamente descritte altrove
e facilmente intuibili riassumendo un qualsiasi manuale di istruzioni per l'uso. E su
come il giudice fosse riuscito nel frattempo a risolvere il problema della parola-chiave,
e altri inconvenienti di natura tecnica. Quello che è giusto, è giusto. Ma è più
avvincente sapere che Matteo, da quel ragazzo un po' indolente e un po' sornione che
era, si stava trasformando in un giovane impaziente e ansioso, ansioso di agire, di
conoscere, di crescere. E che la metamorfosi era in corso. Apparentemente, Scalabrino
ne era stato la causa, e il giudice stesso aveva contribuito, senza volerlo, ad
accellerare il processo con il suo finto disinteresse per l'intera storia. Ma non si può
escludere che il meccanismo dell'evoluzione si fosse già messo in movimento quando
Matteo sembrava soltanto un accanito cercatore di fossili a caccia sulla montagna. Si
sa che gli altri, spesso, sono solo un alibi per gli adolescenti. E crescere, per Matteo,
significava diventare padroni dello strumento della ragione, ma anche consci della sua
stessa insufficienza. Lo stesso computer non era più, per lui, nè un gioco nè una
specie di macchina meravigliosa. E mentre sullo schermo aleggiava la piccola clessidra
dello stato di attesa, egli ebbe, anzi, una nitida visione delle sue viscere d'alluminio,
dei suoi circuiti transistorizzati, dei suoi incastri millimetrici. Del prodigio di
intelligenza che il loro disegno rivelava e della stupidità della corrente elettrica che si
ostinava a passare milioni e milioni di volte, velocissima prigioniera di una gabbia di
fili di metallo più sottili di un capello, tra interruttori capaci a mala pena di distinguere
tra la luce e il buio. La lettura del dischetto di Leonardo fu relativamente rapida, ma
non indolore. Matteo cominciò a leggere non appena vide delle parole sullo schermo,
ma poichè pensava ancora che la lettura fosse un atto consequenziale, che si pratica
da sinistra verso destra e dall'alto verso il basso, oppure, presso diverse culture, in
senso contrario, faticò abbastanza per orientarsi in quel complesso labirinto che aveva
preso vita sul rettangolo orizzontale del video a quattordici pollici, e che non si poteva
decifrare cominciando da un qualsiasi inizio e procedendo in un qualunque senso, ma
solo catturando casualmente le frasi per ricomporle nella mente secondo innumerevoli
criteri e infiniti ordini di significato, nessuno dei quali poteva essere prestabilito. Il
giudice, muovendo lentamente il mouse, cercò di aiutare Matteo e fece in modo di
concedergli tutto il tempo necessario ad osservare e a leggere il contenuto delle varie
finestre, aprendole secondo lo schema di una sequenza simile a quella che egli stesso
aveva già segretamente sperimentato. Tuttavia non si può affermare che quello fosse
l'unico sistema. Anche Matteo lo capì, ma si limitò a ricostruire mentalmente, senza
osare toccare un solo tasto, altre concatenazioni. Questo è tutto ciò che i suoi occhi
videro e che il suo cervello tentò di analizzare.
Matteo seguì il moto perpetuo delle dissolvenze tra schermo e schermo con particolare
attenzione, constatando infine che, a parte qualche aneddoto, quel genere di
testimonianza non aggiungeva nulla di nuovo a quanto non sapesse già. Allora la
mano del giudice si staccò dal topolino, e le sue dita si posarono sulla tastiera.
Quando apparve, senza preavviso, la finestra immobile e sibillina del request, prima
che la runtime visualizzasse un unrecoverable application error , egli scrisse
velocemente: Vivarium.viv. E fu come un miracolo. Tutto lo schermò del computer
cambiò volto. Le finestre si chiusero. Si interruppe anche il gioco del Tetris, non prima
di aver visualizzato un ultimo congratulations , seguito da quattro o cinque punti
esclamativi. Ora la superficie del monitor è bianca, leggermente velata da una
retinatura grigio. Lentamente, come qualcosa che riemerge dalle profondità del mare,
si forma un titolo: Vivarium, questo sconosciuto. Concorso senza premi. Poi, su di
esso, una mano invisibile e velocissima comincia a disegnare un polittico incorniciato
d'oro, simile all'iconostasi delle chiese bizantine. Ma al posto delle immagini dei santi
dallo sguardo fisso e allucinato esplode una serie di laiche icone, probabilmente
realizzate per l'occasione nel formato comunemente accettato da Windows. Carattere
dopo carattere, l'aiuto in linea scrive i suoi consigli: come posso, io, Leonardo
vivariense informatico, raccontare l'accaduto in parole semplici e senza superare il
numero di righe e di colonne che una sola schermata mi assegna ? Così, forse, solo
così, creando un ipertesto multimediale interattivo. Ovvero una libera associazione di
icone, figure, sfondi, parole, musica. E immaginando per un attimo che Vivarium non
sia mai esistita, o che sia stata solo il progetto di un libro, di uno spettacolo teatrale o
di un film. End of help . Clicca due volte su un'icona a tua scelta per leggere il
riassunto della trama. Il giudice cede il mouse a Matteo. Matteo decide. La prima
icona è un albero con un omino seduto sotto le fronde. Apre uno sfondo con un bel
fotogramma dal film 'L'attimo fuggente', Robin Williams che legge Oh capitano, mio
capitano . In sottofondo, una parte della colonna sonora di 'Momenti di gloria'. La
trama: alcuni amici si riuniscono segretamente tra le rovine di un antico monastero
basiliano per discutere della vita della poesia e della poesia della vita. Ma la loro
diversità scuote profondamente il conformismo della città in cui vivono, tanto da
scatenare la reazione di una schiera di perbenisti, che li accusano di praticare riti
incivili e di tenere una condotta immorale. Dopo aver tentato invano di difendersi dalle
accuse e di ribadire la loro fede nella vita come arte, saranno costretti alla fuga verso
l'ignoto. Troveranno un'isola felice dove gli uomini vivono secondo leggi sconosciute e
penseranno di rimanere lì per sempre. Ma un giorno la loro amicizia entrerà in crisi. La
seconda icona è un libriccino con la copertina grigia e gialla. Apre uno sfondo con un
fotogramma sgranato dal film 'Fahreneit 451' e, in sovrapposizione, alcune parole di
Ray Bradbury. O di Robert Shekley ? O di Isaac Asimov ? La musica è l'attacco di Also
sprach Zarathustra di Richard Strauss. La trama: alle soglie del terzo millennio,
mentre il mondo sta cambiando tumultuosamente, un pazzo sognatore, affascinato dai
libri e terrorizzato dalla loro possibile scomparsa, fonda una biblioteca segreta per
conservare e tramandare la civiltà, o ciò che ne rimane, attraverso i prossimi secoli
oscuri. Altri uomini, convinti che lo strapotere del Grande Fratello debba essere
fermato, si uniscono a lui. Ma sono troppo pochi per riuscire nel loro intento, e
lentamente, uno dopo l'altro, verranno reintegrati nel sistema. La terza icona è la
stilizzazione di una moneta vista attraverso una lente di ingrandimento. Apre uno
sfondo con una fotografia digitalizzata di un salone del castello di Ambras. La musica è
il notissimo ritornello epico dei Carmina Burana . La trama: un giovane professore si
presenta ad una festa di Carnevale mascherato da principe del Rinascimento. Per
gioco, lancia l'idea di ricostruire una camera delle meraviglie, in cui raccogliere tutte le
curiosità del mondo, e scopre che quel desiderio è condiviso da almeno altri sei
personaggi, che indossano come lui costumi rinascimentali. Da quel momento in poi il
gioco diventerà realtà, e una parte della vita dei sette sarà dedicata a quell'impossibile
raccolta. La quarta icona è il disegno di un'amaca tesa tra due palme, con un piccolo
sole in alto a destra. Apre uno sfondo con un'immagine tratta dalla rivista Sports
Illustrated , fotografia di Robert Huntzinger, modella Ashley Richardson. La musica è il
refrain di 'Giù la testa'. La trama: estate 1985. Un gruppo di amici, cinque uomini e
due donne, parte per una delle più belle isole del Mediterraneo per quella che avrebbe
dovuto essere una semplice vacanza alternativa. Ma la bellezza del luogo trasformerà
il viaggio in un'esaltante esperienza di vita: tra discussioni colte e piccoli problemi
quotidiani, i sette scopriranno il valore della semplicità delle cose e i piaceri del libero
amore, e si sentiranno profondamente cambiati. Fino a che, proprio quando la vacanza
sembrava sul punto di diventare una prova generale del ritorno al paradiso terrestre,
non giungerà, inesorabile, il momento di tornare a casa, e un'improvvisa malinconia
colpirà a morte quella felicità ritrovata per un attimo. La quinta icona è il disegno di
un personal computer dalla cui sommità esce una cascata di colori. Apre uno sfondo
con il logo di Windows. La musica è Tubular Bells. La trama: un gruppo di appassionati
di informatica legge su National Geographic che in America è stato sperimentato un
processore in grado di elaborare 500 milioni di informazioni al secondo, che verrà però
destinato a scopi militari. Dopo aver messo a punto un programma per la creazione di
un grande centro di ricerche informatiche dedicato alla sperimentazione dei mondi
virtuali e alla creazione di banche dati aperte e interattive, tenteranno con tutti i
mezzi a loro disposizione di mettere le mani sul prototipo del superchip, lanciando
collette pubbliche per finanziarne l'acquisto, inviando petizioni, chiedendo perfino ad
alcuni colleghi d'oltreoceano di provare a rubarlo. Non riusciranno nel loro scopo, ma
uno di loro inserirà nei circuiti del super elaboratore un virus che al momento
opportuno si attiverà contemporaneamente su tutti i terminali, lanciando al mondo
intero un messaggio di pace. La sesta icona è la celebre fotografia solarizzata di Che
Guevara, in giallo, formato 32 x 32 punti. Apre uno sfondo con la celebre fotografia
solarizzata di Che Guevara, in rosso, formato 640 x 480 punti. La musica è
l'arrangiamento pop dell'Internazionale scritto e diretto dagli Area verso la fine degli
anni Settanta. La trama: una strana figura di anarchico convince alcuni giovani che
non si sono mai interessati alla politica che è finalmente giunta l'ora della rivoluzione
sociale. Gli amici, inaspettatamente, gli credono, e fondano con lui una comunità
ispirata ai falansteri di Fourier e di Saint-Simon, per verificare fino a che punto sia
possibile la pacifica convivenza tra gli uomini. Senza armi e senza proclami, lo strano
esercito tenterà di propagare in un paese ricco e soddisfatto l'idea della fratellanza
universale, ma non troverà alcun interlocutore disposto a seguirne l'esempio. La
settima icona è una bombetta. Apre uno sfondo in bianco e nero con l'immagine di
Charlie Chaplin che si allontana sulla strada senza fine insiema alla povera mendicante
orfana. La musica è Smile . La trama: una giovane artista vive sola, terrorizzata
dall'idea della guerra. Rifiuta ogni amicizia. Crede che tutti gli esseri umani siano
malvagi. Fugge la gente. Ma un giorno conosce un uomo diverso dagli altri, e se ne
innamora. L'uomo la trascinerà con sè in una serie di viaggi, che per lui non sono altro
che disperati tentativi di raggiungimento della felicità, finchè, durante uno di questi, la
donna non si ammalerà di un male sconosciuto. L'amante l'abbandonerà per
continuare la sua vana ricerca, e da quel momento in poi l'artista sopravviverà in
attesa della morte, ritrovando lentamente, nella tragedia, la fiducia perduta nell'uomo.
L'ottava icona è una mano aperta, come se salutasse. Apre uno sfondo con l'immagine
digitalizzata di un dipinto di Mario Schifano ispirato alla fotografia dei futuristi a Parigi.
La musica è un mix di Satie. La trama: come in una commedia degli equivoci o in un
gioco delle parti, alcuni conoscenti, annoiati da una vita sempre più fondata sulla sola
esteriorità, discutono su come sia possibile recuperare almeno una parte di quei valori
che la società del loro tempo sta irrimediabilmente perdendo. Ognuno di loro inseguirà
la sua personale interpretazione, convinto che gli altri siano d'accordo. Ma nella realtà
nulla di ciò che pensano è attuabile, e i protagonisti si incontreranno un'ultima volta
per scoprire che anche il loro era stato solo un gioco, un diversivo, un'illusione,
l'apparenza delle apparenze.
"Che ne pensi ? Non è interessante ?" Chiede il giudice.
"Lo sembra. Ma non sono che banalità, nient'altro che banalità." Risponde Matteo.
"A me non dispiacciono le contaminazioni - ribatte il giudice. "La varietà. La
trasformazione della verità in una pura rappresentazione. E sapere che non c'è nulla
da sapere."
"La verità può consistere anche nell'assenza di una verità - insiste Matteo. "Ma la pura
finzione non potrà mai essere la nostra guida."
Il giudice schiaccia con quattro dita il grande tasto dello spazio. Di nuovo lo schermo
si modifica. Le icone si cancellano. Lo sfondo si fa nero. Altre lettere, l'una dopo l'altra,
scrivono nuove parole. Altre parole, l'una dopo l'altra, scrivono nuove frasi di senso
incompiuto. Eravamo in sette. E ora tu, giocatore, adesso ti chiederai perchè anche le
risposte che ti ho dato non sono sette, come noi ? Ti rispondo senza mezzi termini:
odio il numero sette. Sette sono i giorni della settimana, i re di Roma, le colonne del
tempio di Salomone, i sigilli, i magnifici, le spose dei sette fratelli, i samurai, le porte
della conoscenza, le camice sudate, i colli, i passi, i gradini della scala della sapienza,
le arti liberali, lo squarcio sulla giacca, l'angolo alto della porta del gioco del calcio, i
veli della danza, le braccia del candelabro ebraico, le carte per la primiera, il bello dei
treni, il rotocalco del Corriere della Sera, le leghe degli stivali, eccetera eccetera
eccetera. Dicono che il sette sia un numero primo. Non è vero: è un numero abusato.
E poi, sarà pur magico, ma non è un numero informatico. Tutte le operazioni intere o
in virgola mobile sono possibili grazie ai multipli di due, agli esponenti in base dieci e
ai multipli di otto. Ma sì, le risposte sono otto, come i bit di un processore della prima
generazione. E poi, e poi, dove sta scritto che sette persone debbano esprimere sette
opinioni. Anche un individuo coerente può avere più di un'idea nella testa, più di una
visione del mondo: e noi tutti eravamo individui coerenti. Scrivi anche tu, lettore, la
trama che avresti desiderato svolgere. Ora, sul computer rimane solo un foglio bianco.
In alto a sinistra una barra verticale nera che lampeggia, apparendo e scomparendo
ogni mezzo secondo. Il giudice invita Matteo a dettare, se lo crede opportuno, la sua
versione della storia, ma senza lasciarsi coinvolgere, come se vedesse tutto in
lontananza, con una lente d'ingrandimento o un cannocchiale. Matteo, dapprima con
una certa diffidenza, poi sempre più sicuro di sè, comincia a toccare i tasti della
macchina. Il percorso delle sue dita si trasforma a poco a poco nella sequenza di una
scheda digitalizzata, a partire dal centro del blocco degli appunti stampato sul video.
Un ragazzo di nome Matteo incontra un uomo di nome Scalabrino. Scalabrino gli
consegna sette lettere impossibili. Matteo le legge e scopre che Scalabrino ha
realizzato, o ha provato a realizzare un progetto utopistico, chiamato Vivarium. Non
ne ha mai sentito parlare, e non sa neanche che cosa significhi esattamente la parola
utopia. Ma la curiosità lo rapisce, e nasce in lui il desiderio di saperne di più.
Scalabrino, però, scompare improvvisamente, e Matteo, preoccupato per la sua sorte,
ne parla con un giudice, che lo aiuta a raccogliere una serie di testimonianze concrete
su ciò che Vivarium è stato. Matteo scopre così gli orizzonti sconfinati di un mondo
sconosciuto. Scopre che anche in lui è nascosto lo stesso desiderio che ha animato
Scalabrino e tutti quelli che lo hanno preceduto o seguito. E scopre, incontrando di
nuovo l'amico scomparso, di non essere un ragazzo come gli altri. Di essersi
innamorato - è questa la parola giusta - di quell'uomo. E di non sapere che cosa fare
per accettare o rivelare questa sua nuova condizione. Non è più un adolescente,
com'era felicemente stato. Non è più un ragazzo normale, come pensava di essere,
dando per scontato ciò che scontato non è. Eppure, solo adesso comincia a sentirsi sè
stesso.
Piero di Cosimo
Morte di Procri
Tempera su tavola
Londra, National Gallery
"Mi aspettavo una luce che illumina tutto - disse il giudice - un sipario che cala, un
taglio netto e inequivocabile. Ed eccomi di fronte ad un'ammissione di ambiguità; è
quel genere di finale che non avrei proprio desiderato. Nè lieto, nè tragico."
"Non è detto che sia un finale." Disse Matteo.
Ogni traccia di reverenza era scomparsa dalla sua voce. I due, ora, trattavano alla
pari.
"Che intenzioni hai ?" Chiese ancora il giudice.
"Se lo sapessi non sarei qui."
Si risponde sempre così. Ci si sente forti dopo una confessione. Ed è così giovane,
Matteo. Chiunque, alla sua età, cercherebbe di convincersi di essere ancora libero.
Chiunque, al suo posto, penserebbe di poter fare ancora tutto ciò che vuole, e
crederebbe che quella è la libertà. Il giudice, invece, sa bene che si tratta di
un'illusione. Non è l'esperienza che prende il sopravvento, in lui. E'l'abitudine al
ragionare senza fidarsi delle emozioni. Sa bene che Matteo, in realtà, non fa che
correre intorno come un cane, fiutando un osso sepolto chissà dove, e che lui stesso
non sa ciò che vuole. Nessuno lo sa. Solo l'ambizione può spingere un uomo in una
determinata direzione. E non è detto che Matteo ne abbia. L'ambizione, oppure
un'idea. Un'idea, oppure un'ispirazione. Ecco, quella, forse, gli appartiene. Forse,
Matteo è semplicemente ispirato. E crede, vuole assolutamente credere che durerà
all'infinito.
"E allora, signor giudice, qual'è la sua sentenza ?"
"Una sentenza, dici ? Parli ancora di una sentenza ! Di un verdetto ! E dove sono gli
estremi ? Questo non è stato un processo. Nessuno era imputato. Perchè dovrei
giudicare ?"
Matteo non disse nulla. Ma si rattristò, perse qualche grammo della sua nuova
sicurezza. Il giudice si accorse di essersi comportato male con lui, e pensò che non
avrebbe dovuto ferirlo con l'arma a doppio taglio del sarcasmo. Si potrebbero riferire
molti altri particolari sul silenzio che seguì, e sulle sensazioni che di solito lo
accompagnano, si potrebbero scrivere intere pagine. Matteo mostrava di aver
imparato l'arte dell'attesa. Il giudice, invece, rimase immobile. Proprio come un grumo
d'ombra in una desolata stanza italiana, come un cadavere, come una presenza
soprannaturale insopportabile e dannata, direbbero eventuali testimoni che volessero
dilungarsi sui termini di paragone. In breve, i suoni liquidi della festa scivolarono sotto
la porta. Risultò chiaro che niente era così importante come la frivola atmosfera del
banchetto di nozze. Niente.
"Dobbiamo andare ?" Chiese Matteo.
"Direi di sì. Non sei soddisfatto ?"
Matteo non rispose. Il giudice provò a spingerlo fuori dallo studio. Ma intanto frugava
nel suo vocabolario in cerca una parola o due, una parola o due che non uscivano dalla
sua bocca. Matteo, avrebbe forse voluto dirgli, non so che cosa sia successo a
Vivarium, non lo so davvero, non continuare a domandarmelo. Non so che cosa abbia
fatto Scalabrino in tutto questo tempo. Quasi tutti i particolari, ormai, mi sono noti,
come lo sono a te, ma non riesco a dedurne nulla. Ti ho sempre descritto Scalabrino
come un uomo capace di sopravvivere a qualunque umiliazione, a qualunque dolore,
uno scettico, un cinico. Poi, mi sono dovuto ricredere. Anch'io ho pensato, alla fine,
che Scalabrino avesse premeditato di uccidersi, forse perchè nemmeno i suoi più cari
amici avevano capito le sue vere intenzioni. Uccidersi allo stesso modo in cui si
uccidevano i saggi dell'antichità, il modello della sua utopia. Come tutti i grandi. Ma
ora non sono più nemmeno sicuro di conoscerlo così bene. E' la prima volta che alla
fine di un'indagine non mi sono ancora fatto un'idea di come siano andate le cose.
Anzi, ne so meno di prima. Come potresti credermi, se te lo dicessi ? Fu la voce di
Matteo a interromperlo:
"Io credo che Scalabrino sappia benissimo che il mondo in cui viviamo è infinitamente
migliore di tutti i mondi che lo hanno preceduto. Ma questo non ci esime dal tentare di
migliorarlo ulteriormente. Nè ci può impedire di pensare che lo scopo della vita non sia
il successo, il potere, la ricchezza, ma qualcosa di oscuro e indefinito, qualcosa che a
volte chiamiamo felicità. Credo anche che Scalabrino sapesse meglio di chiunque altro
che gli esseri umani sono e rimarranno sempre insoddisfatti di ciò che sono e di ciò
che possiedono. E' l'insoddisfazione la molla di ogni progresso, di ogni cambiamento.
Chi lo nega è un mentitore, un falsario. Chi pensa che ci si possa accontentare, è uno
sciocco."
"E Vivarium, allora, che cosa sarebbe ? Una valvola di sfogo per un gruppo di scontenti
e di frustrati ? O una delle forme apparenti della cosiddetta felicità ?"
"Un' idea, un'immagine della felicità, penso. Che senso avrebbe avuto, altrimenti ?"
"Non sono d'accordo, caro Matteo. So che non mi crederai, ma ti dico che ormai
intravedo così tante soluzioni che sono costretto a concludere che nessuna di esse è
quella giusta, quella vera. Forse Vivarium non è stata nient'altro che ciò che ciascuno
dei protagonisti ha creduto che fosse. Un' avventura mentale. Nulla di più. Altro che
utopia ! Quanto a Scalabrino, ma quale eroe romantico, ma quale angelo, ma quale
demone ! Scalabrino è stato soltanto l'ultimo a dimenticare la differenza che passa tra
l'immaginazione e la realtà. Ma non prima di aver cercato un complice, un erede
spirituale, un continuatore, questo almeno è certo. Tu, Matteo. Ora, se in tutto quello
che ti ho detto c'è una logica, l'ultima, l'unica sentenza che posso emettere è questa:
Scalabrino è fuggito perchè nulla è accaduto. Non lo assolvo per non aver commesso il
fatto, ma perchè il fatto non sussiste. Poco importa, poi, dove, come e quando si è
svolta la scena. Se si è svolta. Avevo già provato a spiegartelo, mi sembra, quando sia
tu che io ne sapevamo molto meno di adesso: niente sarebbe cambiato, così
sarebbero andate le cose. Ti dissi anche che, come giudice, dovrei stabilire che
Scalabrino è innocente, solo perchè ha sognato. Ma come amico di entrambi, oggi,
dovrei indicarlo come un colpevole, perchè, pur sapendo di mentire a sè stesso, non
ha mai aperto gli occhi, e perchè ti sta spingendo verso l'abisso del suo stesso errore."
Matteo guardò nella lama di vuoto delle ante socchiuse:
"Non tutto si può spiegare con la logica - disse. "Dimentica Lara."
"Lara ? Ancora lei ? Non si sa nemmeno se è fatta di carne e di ossa !"
"E' una donna, una persona. L'ho vista con i miei occhi. E' morta pochi giorni fa, in
ospedale."
Il giudice, sul momento, non reagì; ma si intuiva che era incredulo, che non riusciva a
trattenersi.
"Pochi giorni fa, dici ? Può darsi. Può darsi che esistesse davvero. E se così fosse ?
Potrei soltanto trarne amare deduzioni. Vite vendute. Ecco quello che siamo. Vite
vendute. Anche se ufficialmente fingiamo di sperare nel futuro."
"Non dovrebbe parlare così. Proprio oggi, che è il giorno del suo matrimonio."
"Scusami. Ma da settimane e settimane sento parlare di questa Lara come se fosse
un'ombra. Lara è morta. Lara è morta. Non ne posso più di sentir ripetere questa
specie di ritornello. Se la sola conclusione che possiamo trarre è questa, che Lara è
morta, perchè mai abbiamo consumato le nostre energie per leggere tutti questi libri
inutili ?"
Per molti anni, Matteo si interrogò su quella strana reazione e su che cosa potesse
significare. Che cosa nascondeva il giudice ? La conosceva, forse ? Per quale ragione
voleva cancellarla ? Non trovò mai una risposta. Mai. Nemmeno quando capì, come il
giudice stesso gli aveva preannunciato, che gli uomini non si giudicano per quello che
dicono, per quello che sono o per quello che fanno, ma forse solo per ciò che lasciano
scritto. E soprattutto per ciò che riescono a immaginare o a negare. Quella sera non ci
fu il tempo di riflettere. Fremeva, il giudice, di tornare dalla sua sposa e dagli ospiti.
Matteo, solo allora, si ricordò del pacchetto che aveva con sè:
"Il suo regalo - disse. "Non so nemmeno di che cosa si tratta esattamente, ma credo
che possa piacerle. Anche se comincio a temere che sia un altro dei tanti libri inutili."
Il giudice, toccato, sorrise al ragazzo, ma accettò il dono con sincero entusiasmo,
ringraziandolo calorosamente prima ancora di aprirlo. Fu l'unico dono che aprì
personalmente, quella sera. La carta celava altre carte: quel volume mutilo e logoro di
cui Matteo non era mai riuscito a decifrare la sostanza, il contenuto, il titolo.
"Sembra una preziosa edizione cinquecentina veneziana - disse il giudice, sfoderando
istinto e competenza. "Peccato che manchi il frontespizio ! Ma è certamente una
versione delle Divinae Institutiones. Scalabrino impazzirebbe, se la vedesse. Perchè
hai voluto regalarla proprio a me ?"
"Ho pensato che fosse giusto conservare il libro, salvarlo dalla distruzione, anche se è
così malridotto. E che lei sarebbe stato l'unico capace di farlo come si deve. Meglio di
me."
"Grazie. Grazie di cuore. Non puoi nemmeno immaginare quanto piacere mi ha fatto."
Poi la festa li inghiottì di nuovo, appena varcata la linea marmorea del confine del
salone. Si aprì l'orizzonte sconfinato popolato di animali bizzarri, che non conoscono il
pianto.
"Doveva vederlo, Scalabrino - disse ancora Matteo al giudice, prima che gli ospiti
potessero avvicinarsi - "Doveva vederlo, immobile, accanto al corpo di lei. Ancora una
volta, sento che non tornerà più, ora sono sicuro che non lo rivedremo. E' fuggito per
eccesso d'amore, le dico. Aveva ragione. E morirà per eccesso d'amore, così come
d'eccesso d'amore è vissuto. Solo per amore si inseguono le chimere e si incontrano
gli unicorni."
Antoine Watteau
Partenza per Citera
Olio su tela
Parigi, Musèe du Louvre
Fu una strana festa di nozze. Gli sposi non partirono per la luna di miele e non vollero
nemmeno andare a dormire, poichè quella prima notte, per loro, non possedeva alcun
valore particolare. Gli invitati li assecondarono e continuarono a divertirsi senza più
badare ai giri delle lancette dell'orologio. Matteo rimase in compagnia del giudice
finchè questi non fu portato via dal vortice degli amici e dai suoi doveri di ospite. Non
riuscì ad avvicinare la sposa. Continuò a vederla da lontano, come una vela alla fine
del mare, e quel modo di conoscerla non gli dispiacque. Dopo qualche tempo il giudice
lo trovò mezzo addormentato vicino alle scale, e gli chiese di accompagnarlo a
prendere una boccata d'aria. Uscirono insieme nel giardino della villa, e insieme
gustarono il vapore della rugiada. La terra si univa all'acqua, l'ocra all'azzurro, e
sembrava che regnasse la pace sul mondo, che lo riscaldasse con il suo manto di
madre. Erano le prime luci dell'alba, un'alba già vista. Oggi è il 21 di giugno. Solstizio
d'estate. A Stonehenge i raggi del sole penetrano nella fessura tra le due pietre
dell'asse centrale e colpiscono con la precisione di una freccia il cippo del calcagno. Al
circolo polare artico il sole non tramonterà fino a domani. Altrove, qualcosa sta di
certo cominciando. Auguri a tutti quelli che si chiamano, indistintamente. Chi sono i
nati illustri ? Quanti sono ? E'passato un mese. Un mese appena. Trenta giorni.
Settecentoventi
ore.
Quarantatremiladuecento
minuti.
Duemilioniecinquecentonovantaduemila secondi. Circa, perchè neppure il tempo è
esatto. Matteo non parla. Il giudice nemmeno. Guardano. La bellezza del paesaggio,
talvolta, è sufficiente ad annichilire un dialogo. In quello stesso momento una giovane
donna senza velo esce dalla casa e si avvicina, sbocciando dal buio della porta come
un pistillo di giglio da un calice chiuso.
"Ti presento mia moglie." Dice formalmente il giudice.
"Ciao - aggiunge lei - ti ricordi di me ?"
Matteo la osserva e cerca di capacitarsi di ciò che sta accadendo. L'ha vista una sola
volta, ma non può averla dimenticata. Lei, la ragazza del bagno. L'altissima longilinea
mediorientale padrona di quella casa. La sorella senza nome della povera bambina
muta. Sa già che la ragione è stata sconfitta. Ma si sente sconfitto due volte.
"Credevo che avesse sposato un'altra donna." Dice, senza alcuna delicatezza.
"Perchè mai hai pensato una cosa simile ?" Risponde subito il giudice.
"Lascia perdere ciò che è stato - aggiunge la donna, rivolgendosi forse ad entrambi.
"Pensa a ciò che sarà."
Matteo rimane con le labbra aperte, che si allargano verso gli zigomi regalando al suo
viso una particolare espressione, di soddisfazione e rassegnazione insieme: ricordava
quella delle statue antiche, che non perdevano la calma nè quando erano vive e
amavano le loro dee, nè quando morivano fulminate dalle armi o dagli occhi degli
uomini ai quali avevano rapito le femmine.
"Lei è un uomo imprevedibile." Dice al giudice. Vorrebbe osare di più, ma non ha più
domande da porre, e non se la sente di passare alle affermazioni.
"Quando ti deciderai a darmi del tu ?" Lo incalza il giudice. "Sono amico di Scalabrino.
Ero amico di tuo padre. Siamo amici, ormai. Che cosa aspetti ? Tra amici vale la
seconda persona."
"Proverò, se vuole. Ma è difficile, per me."
"Mi vedi troppo vecchio ?"
"No, non è quello. E'che non so nemmeno qual'è il suo vero nome."
Ora l'innominata sorride dolcemente, come solo lei sa fare. E anche il giudice, prima di
parlare, gli sorride alla sua maniera, che forse è il frutto del suo contagio. Il libro si
deve concludere con l'ultima eco del rimbombo di un tuono o con una parola che
spesso si è insinuata tra le sue pieghe.
"Cassiodoro - dice lentamente - mi chiamo Cassiodoro."
EPILOGO
Resta ben poco di noi. Il nastro su cui Michelangelo aveva registrato le sue parole,
dopo che Matteo l'ebbe ascoltato, mentre tentava di riavvolgerlo, si aprì, si sganciò dal
rullo, per un attimo rimase legato alla matrice, infine, spinto dalla forza centrifuga,
volò via nel vuoto fino a toccare terra. Scivolò contorcendosi come un serpente,
allungandosi per parecchi metri senza che Matteo potesse far nulla per fermarlo. Le
sue spire magnetiche riuscirono a passare perfino attraverso la finestra, e quando la
testa si arenò nella fanghiglia che stazionava sotto gli alberi della strada si allargarono
a dismisura in penose convulsioni, come se l'intero animale fosse stato ferito a morte.
Matteo uscì per raccogliere le spoglie, ma due passanti ne calpestarono una parte, e
uno dei due ne trascinò un pezzo con la caviglia. Per sciogliersi lo scosse talmente,
facendo leva con l'altra gamba, che finì col calpestarlo ancora di più, tanto che Matteo,
quando finalmente riuscì a ricomporre la cassetta, in quel punto poté riascoltare solo
disturbi e frasi incomplete. Povero ragazzo ! La conservò ugualmente per molti giorni.
Ma dopo due mesi la rinchiuse in un cassetto della sua scrivania, e un anno dopo la
relegò provvisoriamente, insieme ad altre cose, in una scatola che appoggiò nel
ripostiglio. Una decina di anni più tardi la gettò via, quando si rese conto che nessun
mezzo meccanico o elettronico avrebbe potuto riprodurre la registrazione, ormai
totalmente incomprensibile. Il diario di Raffaello finì invece in un archivio specializzato
in epistolari e memorialistica varia. Ma a tutt'oggi, benché sia scritto in ottima
calligrafia e adeguatamente breve, non mi risulta che nessuno lo abbia mai
pubblicato, se non parzialmente. Quanto alle penne che contribuirono alla sua stesura,
esse finirono ben presto nel cestino. Del resto si erano rivelate di qualità scadente.
Gettate via insieme alla cartaccia, alle scatole vuote e ad alcuni avanzi della colazione
in un cassonetto dell'isola felice, furono caricate su un camioncino traballante, e dopo
un viaggio penoso su una strada piena di buche che sembrava non dovesse finire mai,
vennero definitivamente rovesciate al centro di una discarica frequentata
esclusivamente dai dipendenti dell'azienda della nettezza urbana, dai corvi e dai
gabbiani. Soltanto quella verde si salvò dalla brutta sorte toccata alle altre,
incastrandosi involontariamente sotto una delle lamiere esterne del furgone. Dopo
molte vicissitudini, che sarebbe troppo lungo descrivere, diventò parte, insieme ai
resti dell'automezzo, di un gruppo monumentale esposto a Parigi, davanti al Grand
Palais, per la festa del 14 luglio, opera di un artista di madre irlandese e padre
nigeriano che scolpisce e dipinge usando esclusivamente frammenti di veicoli in
demolizione provenienti dai paesi in via di sviluppo. Dicono di lui che la sua poetica
tradisce una vita errabonda e un forte desiderio di trovare infine una sosta. Il trattato
di Donatello ebbe migliore fortuna. Nel senso che, in quanto opera organica, fu donato
ad una biblioteca, che ne avrebbe dovuto garantire la conservazione per almeno tutto
il terzo millennio. Ma per anni e anni nessuno si ricordò di catalogarlo, e quando
Donatello seppe finalmente dove era finito, quando constatò che il suo nome non
risultava nel catalogo, nè, probabilmente, avrebbe mai avuto la soddisfazione di
vederlo stampato in testa ad una delle schede, ne chiese immediatamente la
restituzione, e lo distrusse con le sue stesse mani. Il dischetto di Leonardo venne
protetto dalla scrittura aprendo l'apposita linguetta di plastica posta sul retro, in alto a
sinistra. Purtroppo, col tempo, l'etichetta adesiva esterna che ne specificava il
contenuto si staccò, e il floppy finì, insieme a molti altri, tutti uguali, in un apposito
contenitore antimagnetico. Tutti coloro che ebbero a che fare con i dischetti di quel
contenitore non conoscevano il nome del file di Leonardo, nè la sua estensione, e
poichè nemmeno all'interno del disco era stata prevista l'etichetta di volume, nessuno
fu più in grado di ritrovarlo e di leggerlo, se non per puro caso. Fu duplicato molte
volte, e finì in molte directories. Ma altrettante volte fu cancellato dai dischi fissi nei
quali era stato inavvertitamente copiato e sui quali occupava un'eccessiva porzione di
memoria di massa. Ne rimase una sola copia, leggermente difforme dall'originale per
un errore di formattazione, fino a quando un utente inesperto non chiese al computer
di salvare un suo lavoro con lo stesso nome che Leonardo aveva dato al file. Il
computer se ne accorse, e disse al giovane: il file esiste già. Posso sovrascrivere ? Y o
N ? A nulla valse l'estremo tentativo. Al personal non si può dire di no, nemmeno su
esplicita sua richiesta. E che dire delle cartoline, strappate in mille pezzi dalla moglie
del giudice dopo una scenata di gelosia ? Che dire dei fossili e delle poltrone, delle
macchine da scrivere e delle tastiere, delle motociclette e dei monitors, dei letti e dei
vetri delle finestre, delle lampade e dei coltelli, delle piante e di tutti gli altri oggetti
ornamentali apparentemente insignificanti ? La volontà di raccontare potrebbe
inseguirli all'infinito, se non intervenisse la poesia di un epitaffio a spiegarci che ogni
inseguimento è vano. Che dire, infine, delle ultime parole di Lara. La sua
videocassetta, quel rotolo striato come un arcobaleno avvolto in una scatola di plastica
che Matteo mi volle consegnare con tanta devozione, con tanto amore, mi cadde giù
da una scarpata, dopo che andò via. Non sono mai riuscito a recuperarla. E non potrò
più farlo. Quelle parole non ho mai potuto ascoltarle. Ma a Matteo, quando l'ho rivisto,
quando mi ha chiesto che cosa avesse detto la sventurata in punto di morte, non ho
voluto confessare la mia negligenza. Gli ho inventato tutto. Ho scritto io, per lui, ciò
che Lara aveva registrato per me. Gli ho detto che erano parole di rabbia e di
speranza. Che parlavano della poesia, come di un refolo di vento tra le montagne,
superiore e imprendibile, veloce, ma eterno. Della bellezza e della gioia. Ma anche
dell'odio per gli assassini e per i fanatici, per i mercanti d'armi e i signori della guerra,
per i torturatori, per i tiranni, e per coloro che eseguono senza ribellarsi i loro ordini
criminali. Gli ho spiegato che Lara, per quanto fermamente credesse nella pace e nella
fratellanza, e nell'amore per tutti gli esseri viventi, mi aveva esortato a credere che un
giorno la sua ombra sarebbe tornata, come un angelo vendicatore, e sarebbe
penetrata nelle stanze segrete di quei lupi, di quei rifiuti dell'umanità, per eliminarli,
cancellarli dalla faccia della terra perchè non ne rimanga neppure il ricordo,
consegnando ciò che resta di loro alla rabbia repressa delle madri che hanno fatto
soffrire, dei figli a cui hanno massacrato il padre, degli amanti che hanno separato. E
poi gli ho raccontato che mi aveva parlato di Vivarium come di una magnifica
sensazione, quella stessa che tutti abbiamo avvertito almeno una volta da ragazzi,
sotto la pelle, che ci è balenata nella testa come un fulmine improvviso, rivelandoci la
verità inconfutabile libertà assoluta, della pace perpetua, quella stessa che, poi,
abbiamo dimenticato, per inseguire la prigione del nostro egoismo. E, ancora, che mi
aveva confidato che è bellissimo morire innamorati, sapere che l'uomo che ami è
ancora capace di sedersi accanto a te, sul tuo letto, pronto ad accarezzarti, dopo mesi,
anni di agonia. Che è un privilegio raro. Che le piaceva, morendo, essere tra quei
pochi a cui è concesso. Chissà che non siano state proprio quelle le ultime parole che
ha detto ! Ma adesso è l'ora di andare. Era proprio una bella mostra. Mi ha aiutato a
ricordare. Mi ha accompagnato con la cortesia che solo all'arte appartiene. Non mi
sono nemmeno accorto che è passata una giornata. Una giornata intera. E se non mi
avessero avvertito che stavano per chiudere, forse sarei rimasto ancora. I miei occhi si
sono assuefatti alle dolcissime fluorescenze delle alogene, e ora la luce del tramonto
mi appare irreale, più falsa dell'intermittenza di un tubo di neon. Lo so, è soltanto un
effetto della percezione. Per evitarlo basterebbe entrare nel museo in pieno giorno e
uscire in piena notte. Ma in questa stagione non è possibile. In inverno. In inverno sì.
All'ora di chiusura è già buio. E anche il buio sembrerà finto all'uscita, ma alla sua
finzione siamo già preparati. A quella di un tramonto metallico no. Preferisco
immaginarlo caldo, disponibile. Non mi piace l'idea di non poterne ascoltare i sussurri.
Ma il vero problema non è la luce. E' il tempo, che nelle sale del museo si conserva
intatto e perfetto, mentre in realtà scorre, si consuma, come sempre, da sempre. E la
realtà, la vita, sono appena fuori dal portone, in fondo allo scalone, dopo il pronao.
Non potevo certo immaginare che in una sola giornata potesse cambiare fino a questo
punto. Sembra la stessa piazza, con le stesse aiuole scure, chiusa dallo stesso arco di
trionfo. Ma è diverso il ritmo della clessidra che la contiene, è diversa l'essenza della
luce che la circonda. E quindi tutto è cambiato. Il modo in cui la vedo. Il modo in cui
ne interpreto i segni. Il mondo intero. Non ho fatto altro che visitare una mostra di
dipinti antichi e moderni. Ma è come se avessi vissuto ciò che è stato per la seconda
volta. Tutto ritorna due volte. E' scritto. Due volte le stesse parole, le stesse emozioni.
Due volte la morte apparente. E le figure retoriche. I pianeti. I paesaggi. Le donne, i
cavalieri, le armi, gli amori. Le immagini dei quadri. Le fughe. Le scene. Torna a
incombere l'ombra dell'arco di trionfo, illuminata di arancio e di rosa, ruvida come la
buccia di un frutto. Oramai non mi spaventa. Non è più di pietra. Non nasconde alcun
segreto. E la vittoria alata non è soltanto verde. Non vola al di sopra della foschia.
Probabilmente sorride. Riesco a leggere perfino ciò che resta della lapide. Una sola
parola: FELIX. Ogni volta che attraverso questa porta colonnata mi chiedo a che cosa
mai si riferisca quella leggera, evanescente iscrizione. Chi o che cosa doveva essere
felice in questo luogo a quell'epoca. Felix Austria ? Tibi mihique felix ? Il bello del
gioco è che si può dare qualsiasi valore all'unica parola rimasta leggibile in una frase.
Una sola parola non significa nulla. Lo sappiamo. Basta riflettere. Ma è l'ultima, è la
sola sopravvissuta, la più resistente. Perchè non dovremmo pensare che sia
importantissima ? E' così facile trasformarla in una metafora, in un simbolo, facile e
affascinante. E se alludesse a Felix the cat ? Che idea ! L'inizio di romanzo
neobarocco ! Ma senza più protagonisti. Perchè questa piazza è un deserto. Sembra
impossibile che si trovi al centro di una metropoli. Solo ora, ora che mi sembra di
galleggiare nel vuoto, mi chiedo se la storia è cominciata davvero quando ho deciso di
scrivere la prima lettera a Cassiodoro, e se davvero si è conclusa quando la morte di
Lara ha fatto precipitare gli eventi. La certezza assoluta che esiste nell'uomo un libero
arbitrio che lo rende padrone della sua stessa vita mi fa ancora sperare in una
soluzione diversa, e non è necessario credere in un destino più grande di noi per
affermare che l'intera vicenda potrebbe aver avuto inizio quando mi fu imposto il
nome di Scalabrino, o molto tempo prima che nascessi. Ma che posso fare, ormai ?
Cosa, che non abbia già fatto ? Mi sono ormai lasciato alle spalle la piazza e i propilei.
Vorrei poter dire che le mie tracce si sono perse, che nessuno potrà mai scoprire in
quale parte del mondo mi trovi in questo momento. Ma sono morto. Morto, ma non
sepolto. Ed è una pericolosa condizione, per un essere vivente, l'unica nella quale
chiunque può smascherarlo. Spero di non incontrare nessuno che mi possa
riconoscere. Le probabilità che accada sono le stesse che non accada. Molto scarse.
Non potrà mai costituire la base di una filosofia, ma è comunque una consolazione.
Dall'altra parte della strada vedo adesso distintamente la bella villa del signor
Lenbach. I pioppi la accarezzano. Il semaforo sfiora appena il suo cancello. Non sono
più così sicuro di voler raccontare ancora la mia storia a qualcuno. Se lo facessi, tutto
potrebbe ricominciare, avverarsi di nuovo, e dovrei fuggire in un'altra città,
camminare in un'altra piazza, entrare in un altro museo. Ne varrebbe la pena ? Se ci
fosse Lara, forse. Se ci fosse lei potrei lasciare che il racconto si concludesse
continuando. Ma Lara è morta, ed era l'unica che poteva morire una sola volta, lei che
non è mai stata presente, lei che non ha potuto rispondere alle mie domande o
incrociare il mio sguardo. Gli altri, come me, sono solo fantasmi. E i fantasmi non
hanno memoria. Se potessero ricordare, se sapessero leggere, mi avrebbero già
trovato. Saprebbero che sono qui. Mi aspetterebbero. Mi sembra quasi di vederli,
seduti nel giardino attorno a un paio di tavolini traballanti. Come se mi avessero dato
un appuntamento. Matteo, se ho imparato a conoscerlo, è arrivato per primo. Se fossi
più giovane, sarei come lui. Donatello, invece, è stato puntualissimo, come sempre.
Leonardo, nell'attesa, sta giocando con il suo fedele notebook. Eva Maria Silvia
Domenica Primavera, la bella, ne approfitta per gettare anche al vento occhiate
invitanti. E' arrivato anche Rubens. Non l'avrei mai creduto ! E' molto cambiato.
Potrebbe provarci, con Monica. E' libero di farlo. Ma sembra assorto nei suoi pensieri.
E' proprio cambiato. E poi sono venuti Raffaello e Michelangelo, i miei più cari amici,
fratelli, malinconici orfani. Cassiodoro, invece, è in ritardo, come sempre. E' meno
solenne di un tempo, ma più umano. Arriverà per ultimo, ma sarà il primo a parlare.
Se fossi più vecchio, sarei come lui. Parlerà per tutti. Mi dirà: finalmente, Scalabrino.
Ti aspettavamo. Siediti. Siamo impazienti di sentire la tua voce. E' come se lo vedessi.
E' come se ci fosse davvero. In questo momento sta aprendo il cancello, con la sua
giovane sposa. Si chiama Lara. Anche lei. Una strana coincidenza.